CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 giugno 2013, n. 14214
Mansioni – Demansionamento del dipendente – Danno non patrimoniale – Obbligo risarcitorio a carico del datore – Onere della prova – Sussiste – Overruling – Non sussiste.
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, respingeva la domanda di R.P., proposta nei confronti dell’A. di cui era dipendente, avente ad oggetto il risarcimento del danno conseguente a preteso demansionamento.
La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, poneva a baso del decisum il rilievo fondante secondo il quale pur ridimensionato, alla luce della comprovata riorganizzazione aziendale ed all’atteggiamento poco collaborativo del R., il prospettato demansionamento non poteva riconoscersi alcun danno stante il difetto di qualsiasi allegazione al riguardo da parte del lavoratore nell’atto introduttivo del giudizio.
Del resto, aggiungeva la Corte territoriale non risultando accertata la totale inattività del R. – emergendo dalla istruttoria, contrariamente a quanto prospettato nel ricorso, una adibizione a diversi compiti – era onere del ricorrente precisare come le diverse mansioni erano idonee a depauperare il suo bagaglio professionale.
Avverso questa sentenza il R. ricorre in cassazione sulla base di un’unica censura, illustrata da memoria.
Resiste con controricorso la società intimata.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 2103 e 2697 c.c. nonché vizio di motivazione.
Assume al riguardo che, in ordine alle allegazioni fornite da esso ricorrente, relativamente, al danno conseguente il demansianomento, ci si trova di fonte ad un caso di overrulling con conseguente rimessione in termini avendo esso ricorrente fatto affidamento sui precedente orientamento della Cassazione che non riteneva necessaria l’allegazione del danno ai fini di cui trattasi .
Richiama poi, il ricorrente la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la prova del danno non patrimoniale può essere fornita in via presuntiva ed asserisce che, nella specie, essendo stati forniti tutti gli elementi – le mansioni sottratte e la durata della dequalificazione – ben poteva la Corte del merito procedere ad un accertamento di tal genere.
La censura è infondata.
Mette conto, innanzitutto, rilevare che, nella specie, non può trovare applicazione la regula della rimessione in termini ai sensi dell’art. 153 cpc o dell’abrogato art. 184-bis cpc, conseguente al mutamento di giurisprudenza da parte del giudice della nomofilachia – cd. overruling -in quanto sul tema della prova del danno da demansionamento esisteva, già all’epoca della proposizione del ricorso di primo grado (21 maggio 2002) un contrasto di orientamenti di legittimità (per tutte V. Cass. del16 dicembre 1992 n. 13299 e contra Cass. dell’11 agosto 1998 n. 7905) poi risolto dall’intervento regolatore delle Sezioni Unite di cui alla sentenza del 24 marzo del 2006 n. 6572, sicché non può ritenersi, pur a prescindere da ogni valutazione circa l’inerenza di tale intervento alle norme proprie del processo, la configurabilità di un errore scusabile ai fini dell’esercizio del diritto alla rimessione in termini di cui trattasi (Cfr. Cass. 15 dicembre 2011 n.27086 con specifico riferimento al contrasto di orientamenti risolto dalle Sezioni Unite).
Nel merito la Corte di Appello si è attenuta a giurisprudenza oramai consolidata di questa Corte secondo la quale in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio dall’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nel la suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (per tutte Cfr. Cass. 17 settembre 2010 n. 19785 e Cass. 19 dicembre 2008 n. 29832 nonché Cass. S.U. 11 novembre 2008 n. 26972).
Infatti la Corte del merito ha rilevato che quanto al danno nessuna allegazione era stata dedotta dal lavoratore nel ricorso di primo grado avendo egli assunto che il danno da demansionamento era in re ipsa.
Del resto, e conviene sottolinearlo, la Corte territoriale precisa che essendo risultato dalle emergenze istruttorie, non la denunciata totale inattività, ma l’assegnazione a diverse mansioni era onere del ricorrente provare come tale differente adibizione aveva comportato un depauperamento del proprio bagaglio professionale. Il che rende non idonea, ai fini di cui trattasi (art. 2729 c.c.) la mera allegazione della sottrazione delle mansioni – rectius della inattività- e del tempo della denunciata sottrazione.
In conclusione il ricorso va respinto.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, liquidate in e 50,00 per esborsi, oltre € 2.500,00 per compensi ed oltre accessori di legge.
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