Corte di Cassazione sentenza n. 1455 del 22 gennaio 2013
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE – VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI ASTENSIONE – UTILIZZO DI FATTI RISALENTI – DECADENZA DAL DIRITTO A IRROGARE LA SANZIONE
massima
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Allorquando il lavoratore, destinatario di una contestazione di addebiti, svolga le proprie difese in forma scritta nel termine di cinque giorni all’uopo previsto e non chieda contestualmente di essere sentito di persona, ma avanzi tale richiesta successivamente, non è configurabile un suo diritto ad essere ascoltato nè un correlativo obbligo del datore di lavoro, e, nel caso in cui questi abbia manifestato la propria disponibilità, quale espressione di una discrezionale scelta aziendale, ad accedere alla tardiva richiesta del lavoratore di essere ascoltato, e il lavoratore non si presenti, la determinazione del datore di lavoro di non aderire alla richiesta di fissazione di un nuovo incontro, indipendentemente dalla giustificatezza delle ragioni addotte dal lavoratore a fondamento della sua nuova richiesta, non concretizza violazione dell’art. 7 della L. 300/1970.
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Svolgimento del processo
M. B. adiva il giudice del lavoro chiedendo accertarsi, con le conseguenze di cui all’art. 18 St. lav., la illegittimità del licenziamento con preavviso intimatogli dalla Comunità Montana “Alto Molise” con nota del 10.12.2001.
Il Tribunale respingeva la domanda.
La sentenza era confermata dalla Corte di appello di Campobasso.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso M. B. sulla base di otto motivi, ciascuno articolato in più profili.
La Comunità Montana “Alto Molise” ha depositato controricorso e memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 23 lett. r) del CCNL Comparto Regioni-Autonomie Locali del 6.4.1995 nonché, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., la omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione fatto decisivo concernente la avvenuta violazione del dovere di astenersi dall’espletare l’istruttoria relativa al procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione del licenziamento da parte del capo struttura M.. Afferma che i giudici di appello hanno errato nell’escludere la violazione dell’obbligo di astensione, sul rilievo che la garanzia di terzietà non era venuta meno per essere il procedimento disciplinare stato condotto dal Segretario Generale Padula e che il M., nel sottoscrivere la nota di segnalazione al Segretario Generale di fatti di rilievo disciplinare a carico del B., aveva ottemperato alla specifico obbligo di segnalazione all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari da parte del capo struttura prescritto dall’art. 55, comma 4, T.U. n. 165 del 2001.
Censura che gli stessi non hanno tenuto conto della circostanza che il M., dopo la segnalazione, aveva provveduto di propria iniziativa e, quindi, senza alcun impulso del Segretario Generale, ad acquisire un numero cospicuo di documenti ed a rimarcare nella nota del 22.8.2001 che sarebbe emersa la tendenza da parte del B. a ripetere “simili infondati atteggiamenti”, dando contestualmente atto “della istruttoria eseguita” né della circostanza che l’iniziativa della segnalazione era stata assunta in seguito ad un esposto presentato da esso B. nei confronti del M.
Il motivo è inammissibile. Parte ricorrente nel dedurre la omessa/erronea valutazione del documento rappresentato dalla nota del Capostruttura del 22.8.2001, significativa, a suo dire, del fatto che ristruttoria era stata condotta in realtà dal M., è venuto meno all’onere, sancito a pena di inammissibilità del motivo, di riprodurre, in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo, il documento nella sua integrità nel corpo del ricorso. (cfr., tra le altre, Cass. n. 14973 del 2006). Parte ricorrente si è infatti limitata a riportare tra virgolette solo alcune espressioni contenute nella nota le quali tuttavia di per sé sole, considerato altresì che non si tratta neppure di frasi complete, non consentono alcuna verifica e quindi apprezzamento del contenuto della nota richiamata al fine della valutazione della sua decisività. E’ poi da rilevare che parte ricorrente nulla dice a confutazione della circostanza, valorizzata dalla Corte di appello, dell’ essere stato il Segretario generale a condurre il procedimento disciplinare atteso che la effettuazione dell’istruttoria da parte del M., anche ove provata, comunque non determinerebbe il venir meno della garanzia di terzietà del procedimento disciplinare; in quanto al Segretario generale e non al M. faceva capo sia la responsabilità relativa alla formale attivazione del procedimento sia la valutazione dei fatti accertati ai fini dell’irrogazione della sanzione.
Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 24, comma 2, CCNL Comparto Regioni-Autonomie Locali del 6.4.1995 e, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., la omessa e contraddittoria motivazione in relazione fatto decisivo concernente la avvenuta violazione del termine di venti giorni di 20 giorni fissato dal richiamato art. 24, comma 2, per la contestazione degli addebiti.
Afferma che la Corte territoriale ha errato nel connettere alla violazione del termine sopra richiamato solo la eventuale responsabilità per il comunicatore escludendo che la stessa potesse comportare anche la decadenza dal diritto a irrogare la sanzione. Censura quindi che i giudici di appello abbiano ignorato la violazione del termine da parte del Segretario generale al quale anche era stato inviato l’esposto del ricorrente del 19.7.2001, posto a base della segnalazione da parte del Capo struttura M. nonché il fatto che tale violazione era stata consumata proprio al fine di consentire al M. “di perseguire il proprio diretto interesse” espletando o l’istruttoria e acquisendo numero cospicuo di documenti.
Sostiene che il rilievo che la norma di cui all’art. 24, comma 2, CCNL cit, non preveda, in caso di violazione del termine, alcuna espressa decadenza con riferimento all’esercizio del potere disciplinare, non implica che il detto termine non debba essere rispettato. Censura inoltre la affermazione della sentenza che, ribadito il principio generale della complessiva tempestività dell’intero procedimento, rileva che si tratta di questione non in discussione e che comunque tale principio non risulta in concreto violato.
Il motivo è infondato. Parte ricorrente dimostra in primo luogo di condividere la affermazione della sentenza impugnata, posta a fondamento del rigetto del motivo di gravame formulato a riguardo dal B. e cioè il fatto che la invocata norma collettiva non prevede alcuna espressa sanzione di decadenza per il decorso del termine di venti giorni dalla conoscenza dei fatti, dalla potestà sanzionatoria dell’ente datore. Assume, seppure in termini non del tutto espliciti, che comunque la violazione di tale obbligo di tempestività comporterebbe la nullità/illegittimità della sanzione irrogata. Il motivo di censura non è formulato in termini idonei a sollecitare l’esame diretto della norma collettiva da parte del Collegio in quanto il B. non specifica, come era suo onere (cfr., tra le altre, Cass. n. 20599 del 2006), le regole legali di interpretazioni violate dalla Corte territoriale per pervenire al risultato interpretativo contestato, limitandosi a contrapporre ad esso una diversa interpretazione. E poi da rilevare in linea generale che la soluzione adottata dai giudici di appello è conforme alla giurisprudenza di legittimità la quale proprio in relazione al contratto collettivo del comparto Regioni e Autonomie locali ha affermato il principio secondo il quale, in tema di sanzioni disciplinari laddove il contratto collettivo preveda termini volti a scandire le fasi dei procedimento disciplinare e un termine per la conclusione di tale procedimento, solo quest’ultimo é perentorio, con conseguente nullità della sanzione in caso di relativa inosservanza, mentre i termini interni sono ordinatori e la violazione di essi comporta la nullità della sanzione solo nel caso in cui l’incolpato denunci, con concreto fondamento, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà della sua difesa. (Cass. n. 6091 del 2010). Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 24, commi 2 e 3, CCNL Comparto Regioni-Autonomie Locali del 6.4.1995 e dell’art. 7 L. n. 300 del 1970, con lesione del proprio diritto di difesa, nonché, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., la omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione al fatto decisivo e controverso concernente la avvenuta violazione del diritto del dipendente ad essere sentito a sua difesa avendone fatto richiesta ed essendo stato a tal fine convocato dalla società.
Afferma che i giudici di appello hanno errato nel disattendere a sua tesi a riguardo, sul rilievo che il lavoratore aveva perduto il diritto all’audizione personale avendo presentato istanza di essere ascoltato di persona oltre il termine di cinque giorni dalla contestazione degli addebiti e che tale decadenza non era stata sanata dalla successiva disponibilità manifestata mediante le tre successive convocazioni dall’Ente il quale legittimamente non aveva proceduto ad ulteriore convocazione pur essendo risultato che il convocato era impossibilitato a presentarsi per malattia. A tal fine invoca il comma 5 dell’art. 7 St. lav. che prevede che la sanzione non può essere irrogata prima dei cinque giorni dalla contestazione, e il disposto di cui al comma 3 dell’art. 24 CCNL, che ad integrazione dell’art. 7 St. lav., stabilisce che la convocazione scritta per la difesa non può avvenire prima che siano trascorsi cinque giorni lavorativi dalla contestazione del fatto e che una volta trascorsi inutilmente quindici giorni dalla convocazione la sanzione deve essere applicata entro i successivi quindici giorni; in sintesi, assume parte ricorrente – la norma collettiva nello stabilire che la sanzione non può essere irrogata prima che siano trascorsi quindici giorni dalla convocazione, facoltizza il lavoratore a chiedere di essere ascoltato anche oltre il termine di cinque giorni con la conseguenza che il datore di lavoro, trascorsi quindici giorni dalla convocazione deve applicare la sanzione entro e non oltre i successivi quindici giorni. Deduce, inoltre, la contraddittorietà della motivazione per avere i giudici di appello da un lato ritenuto il lavoratore portatore dell’interesse ad essere ascoltato ma impedito a presentarsi a causa dello stato di malattia e dall’altro ritenuto l’esercizio di tale diritto superfluo, riconoscendo insussistente l’obbligo per la Comunità Montana di procedere all’audizione dello stesso; per avere, inoltre, da un lato ritenute inefficaci le ripetute richieste di audizione, attesa la mancata presentazione del lavoratore determinata dalla esistenza di uno stato – certificato- di malattia e dall’altro valide comunque dette convocazioni sì da far decorrere il termine per la irrogazione della sanzione dall’ultima convocazione.
Il motivo è infondato. Parte ricorrente non contesta di avere presentato l’istanza con la quale chiedeva di essere ascoltato a propria discolpa oltre il termine di cinque giorni dalla contestazione così come rilevato nella sentenza impugnata posto che ai sensi dell’art. 7 legge 300 del 20 maggio 1970, al lavoratore è concesso il termine di 5 giorni dalla contestazione per difendersi e richiedere eventualmente e contestualmente, di essere sentito di persona ne deriva che la richiesta avanzata oltre il detto termine ha, già per ciò solo, consumato ed esaurito il diritto di difesa (v. Cass 8553 del 2002 e n. 7006 del 1999 8553/2002).
Pertanto non concretizza violazione dell’art. 7 L. n. 300 del 1970 il comportamento della parte datoriale che dopo aver manifestato, pur in assenza di un obbligo la propria disponibilità (quale espressione di una discrezionale scelta aziendale nell’ambito del proprio potere di indagine e di accertamento, a favore del lavoratore) ad accedere alla tardiva istanza del lavoratore di essere ascoltato personalmente,ha poi ritenuto, all’esito di ben tre convocazioni rimaste senza esito, di non disporre ulteriore convocazione, non intendendo procrastinare ulteriormente rispetto al provvedimento di contestazione e alle giustificazioni pervenute, la adozione della sanzione (v., in termini, Cass. n. 8853 del 2002, cit.). In merito poi alla prospettata interpretazione della norma collettiva nel senso del riconoscimento del diritto del lavoratore di chiedere anche dopo decorsi i cinque giorni di essere ascoltato a propria difesa e del correlativo obbligo del datore di disporre la convocazione, si rileva analogamente a quanto osservato in relazione al secondo motivo di ricorso – a inadeguata formulazione della censura, inidonea a sollecitare l’esame diretto della norma da parte del Collegio, attesa la mancata specificazione delle regole legali, di interpretazione che i giudici di appello avrebbero violato. Non è ravvisabile poi alcun vizio motivazionale con riferimento alla vicenda delle plurime convocazioni. Invero in primo luogo la Corte territoriale non ha affatto affermato che il lavoratore era portatore in assoluto del diritto ad essere ascoltato, anzi, tale diritto ha positivamente escluso, una volta verificata la tardività della richiesta (v. sentenza impugnata, pag. 6, in fine); ha invece riconosciuto che era in facoltà della parte datrice ed espressione di disponibilità nei confronti del lavoratore procedere comunque all’audizione pur non essendovi tenuta. In coerenza con la non obbligatorietà dell’audizione ha quindi ritenuto che legittimamente l’Ente aveva deciso di non darvi corso procedendo ad ulteriore convocazione dopo che alle tre precedenti il lavoratore non si era presentato essendo assente giustificato per malattia.
Né il carattere facoltativo delle convocazioni successive alla prima si pone in contraddizione con l’avere i giudici di appello fatto decorrere dall’ultima convocazione, il termine per la irrogazione della sanzione, avendo la sentenza fondato tale affermazione sul fatto che non risultava che il avesse rinunziato alla convocazione stessa.
Con il quarto motivo di ricorso parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 7. ult.comma L. n. 300 del 1970 e dell’art. 24, commi 6 e 8 anche in relazione al comma 2 CCNL Comparto Regioni-Autonomi e Locali del 6.4.1995 e ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., la omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione al fatto decisivo e controverso per il giudizio concernente l’utilizzazione di fatti ed atti risalenti ad oltre due anni prima della contestazione e di procedimenti disciplinari divenuti inefficaci e dichiarati estinti. Afferma che i giudici di appello avevano dapprima escluso la tardività della contestazione – che secondo il lavoratore si riferiva, invece, a fatti ed atti risalenti ad alcuni anni prima e a fatti contestati nell’ambito di procedimenti disciplinari mai conclusi o dichiarati estinti – evidenziando che il provvedimento sanzionatorio non si fondava su detti fatti ed atti risalenti nel tempo, ma che tali episodi erano stati richiamati “solo” per colorare la motivazione, al pari degli esposti e delle querele presentate da esso lavoratore, e poi, contraddittoriamente, ritenuto di condividere sul punto la motivazione del primo giudice che aveva a sua volta ritenuto fondati i vari addebiti relativi a detti episodi e atti. In questa prospettiva deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 St. lav. e dell’art. 24 CCNL.
Il motivo è infondato. Si premette che la Corte territoriale, rilevato che il potere disciplinare può estendersi anche a fatti precedenti laddove consentono una valutazione complessiva del comportamento del lavoratore nell’ambito della durata del rapporto di lavoro, ha osservato che nel provvedimento espulsivo erano stati richiamati in via principale due provvedimenti risalenti al luglio e all’agosto 2000 con i quali era stata irrogata la sospensione dal servizio e dalla retribuzione “in quanto illustrativi della condotta nel tempo del dipendente ed indicativi della sua tendenza alla non collaborazione”. Per i fatti risalenti a oltre due anni prima ha evidenziato che gli stessi erano stati richiamati solo ad colorandum escludendo che fossero stati posti a fondamento del provvedimento espulsivo. La circostanza che i giudici di appello si siano soffermati sui singoli episodi di rilievo disciplinare, anche risalenti nel tempo, ed affermato di condividere la valutazione di fondatezza espressa a riguardo dal Tribunale, non evidenzia alcuna contraddittorietà nella motivazione, posto che prima di procedere a tale esame la Corte territoriale (v. pag. 8 e 9 della sentenza) aveva espressamente individuato in fatti diversi, ritenuti ” gravi e rilevanti, implicanti la mancanza di collaborazione, insubordinazione, inosservanza delle disposizioni superiori”, quelli costituenti “il nucleo essenziale” del provvedimento impugnato e con riguardo a questi e non a quelli successivamente esaminati, espresso la propria valutazione in termini di legittimità del licenziamento. In merito poi ai fatti ritenuti nucleo fondante il provvedimento espulsivo è da rilevare che gli stessi, pur avendo costituito oggetto di precedente procedimento disciplinare, sono stati considerati in funzione di una valutazione complessiva della condotta del lavoratore protrattasi nel tempo ed in quanto tali idonei ad integrare la – nuova-fattispecie di illecito rappresentata sull’addebito di “persistente insufficiente rendimento” e “violazione dei doveri di comportamento” e “recidiva”. Con il quinto motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo n, 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 277 cod. proc. civ. in relazione alla censura concernente la violazione della norma di cui all’art. 24, comma, 2 CCNL e del conseguente principio di corrispondenza fra gli addebiti contestati e la sanzione irrogata nonché, ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 5 cod. proc. civ. la omessa o insufficiente e contraddittoria circa il fatto controverso e decisivo concernente la mancata corrispondenza fra gli addebiti contestati ed i fatti posti a fondamento della sanzione irrogata. Afferma infatti che la Corte territoriale ha ignorato la censura svolta nel ricorso in appello con la quale si deduceva che la sentenza di primo grado “aveva omesso di considerare che la sanzione irrogata si basava e si basa anche e soprattutto su fatti mai formalmente e naturalmente contestati o quanto meno contestati in modo del tutto generico, non essendovi corrispondenza fra i fatti contestati e quelli utilizzati a fondamento del provvedimento sanzionatorio. Il motivo è infondato. E’ in primo luogo da rilevare la improprietà del riferimento alla norma di cui all’art. 277 cod. proc. civ. in quanto alla luce della successiva illustrazione il motivo risulta inteso a denunziare, in realtà, la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art. 112 cod. proc. civ. Anche tuttavia a voler superare la inadeguatezza del riferimento normativo e da escludere la sussistenza del vizio denunziato atteso che, sia pure implicitamente, la sentenza impugnata ha dimostrato di disattendere la censura formulata nell’atto di appello. La valutazione nel merito della legittimità del licenziamento implica, infatti, da un punto di vista logico, prima ancora che giuridico, il superamento di quei profili – assenza di precedente formale contestazione – genericità della stessa – assenza di corrispondenza fra i fatti contestati e quelli posti a base del provvedimento sanzionalo – che il B. aveva inteso far valere con il motivo di gravame (sulla non necessità che il giudice prenda in esame tutte le argomentazioni svolte dalle parti essendo sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento dovendosi, in tal caso, ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni incompatibili, v., tra le altre, Cass. n. 12121 del 2004). Con il sesto motivo parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5 cod proc civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia concernenti la assoluta e determinante rilevanza dell’esposto fatto dal ricorrente, in data 19.7.2001 che avrebbe comportato la successiva segnalazione da parte del dirigente M. del fatto da contestare e la conseguente contestazione del relativo addebito. Contesta che la Corte Molisana abbia escluso rilievo al risentimento del M. per l’esposto presentato dal B. che, si assume, avrebbe portato alla irrogazione della sanzione. Afferma che è sufficiente l’esame della nota di contestazione del 23.8.2001 nella quale il Segretario generale si era limitato a richiamare la nota del 3237 del 22.8.2001 sottoscritta dal Dirigente M., contenente la segnalazione dei fatti addebitati, per comprendere che il principale fatto contestato è stato l’esposto che peraltro nella stessa sentenza impugnata si definisce, contraddittoriamente, come espressione di un diritto. Lamenta inoltre il mancato rilievo e valorizzazione di alcune circostanze di fatto.
Il motivo è inammissibile. In primo luogo esso non riproduce il contenuto degli atti sui quali il motivo è fondato e cioè la nota di contestazione e quella dalla stessa richiamata e pertanto, per le ragioni già espresse nell’esame del primo motivo di ricorso, deve ritenersi non autosufficiente. In secondo luogo esso tende a sollecitare un riesame degli elementi di fatto sui quali si è formato il convincimento espresso nella sentenza impugnata riesame precluso al giudice di legittimità. Questa Corte ha infatti costantemente affermato che il vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonché scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008; n. 5489 del 2007; n. 20455 del 2006; n. 20322 del 2005; n. 2537 del 2004). In conseguenza, il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito quale risulta dalla sentenza impugnata e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato diversi che, agli stessi elementi siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (v., per tutte Cass. S.U. n. 10345 del 1997). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. In terzo luogo non specifica mediante richiamo ai punti della decisione che assume in contrapposizione, in cosa si sostanzi la contraddittorietà denunziata con riferimento all’affermazione contenuta nella sentenza impugnata sul fatto che la presentazione dell’esposto era espressione di un diritto.
Con il settimo motivo parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.,la violazione e falsa applicazione dell’ art. 25, commi 1-4-e 5 CCNL e del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni e, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc, civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia concernente la natura e la tipologia della sanzione irrogabile. Afferma, in sintesi che i giudici di appello avrebbero “liquidato” la censura articolata nel motivo di appello ritenendo giustificata la sanzione espulsiva con motivazione ” palesemente insufficiente” e che la sanzione da irrogare doveva rientrare tra quelle previste nell’ambito dei commi 4 e 5 del CCNL.
Il motivo è inammissibile. Ricordato infatti che non viene prospettato con riferimento al motivo di appello richiamato la violazione del disposto dell’art. 112 cod. proc. civ. si evidenzia che le censure svolte si limitano in realtà a dedurre, senza peraltro adeguata argomentazione e senza alcun richiamo a norme di diritto o a criteri di ragionevolezza, la elusione del principio di gradualità delle sanzioni, così sollecitando una diversa valutazione dei fatti addebitati e quindi un accertamento di fatto precluso al giudice di legittimità per le ragioni già chiarite con riferimento al sesto motivo. E’ in particolare da rilevare che anche il richiamo alle previsioni del contratto collettivo non risulta in alcun modo argomentato; parte ricorrente non spiega infatti le ragioni per le quali nel caso concreto doveva essere applicata una sanzione conservativa.
Con l’ottavo motivo di ricorso parte ricorrente deduce la omessa pronunzia sulla domanda di risarcimento del danno post traumatico da stress legato alla procedura disciplinare ed alla irrogazione della sanzione espulsiva, che si asseriscono illegittime Il motivo è assorbito dal rigetto demotivi di ricorso e dalla conseguente conferma della decisione che aveva ritenuto la legittimità della procedura disciplinare e della sanzione irrogata all’esito della stessa.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alle spese del presente giudizio, liquidate in € 50,00 per esborsi e € 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
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