Corte di Cassazione sentenza n. 1456 del 22 gennaio 2013  

LAVORO (RAPPORTO DI) – LAVORO: SUBORDINATO – RETRIBUZIONE: IN GENERE – TRASFERIMENTO DI AZIENDA – RAMO D’AZIENDA – MUTAMENTO DELL’IMPRENDITORE – LA CESSIONE DI AZIENDA

massima

________________

In materia di trasferimento d’azienda, la direttiva CE 77/187, come ripresa nel contenuto dalla direttiva CE 98/50 e, infine, razionalizzata nel testo mediante sostituzione con la direttiva CE 2001/23 (all’origine della rinnovata versione dell’art. 2112 c.c.), nell’ambito del fenomeno della circolazione aziendale, persegue lo scopo di garantire ai lavoratori – assicurando la continuità dell’inerenza del rapporto di lavoro all’azienda, o alla parte di essa, trasferita ed esistente al momento del trasferimento – la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore. Ne consegue che per “ramo d’azienda”, come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e (come affermato anche dalla Corte di Giustizia, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00 Temco) consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obbiettivo, il cui accertamento presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell’eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima o dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 c.c. che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto, comportando la sola sostituzione di uno dei soggetti contraenti e necessitando, per la sua efficacia, del consenso del lavoratore ceduto.

_______________

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(omissis), (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) hanno chiesto l’accertamento della simulazione del contratto di cessione di ramo d’azienda, costituito dallo stabilimento di (omissis), stipulato in data (omissis) tra la (omissis) spa, di cui erano dipendenti, e la (omissis) srl, con la conseguente illegittimità degli atti di cessione dei contratti di lavoro, qualificabili come licenziamenti, e la condanna della (omissis) spa alla reintegrazione dei dipendenti nel posto di lavoro e al risarcimento del danno Legge n. 300 del 1970, ex art. 18.

Il Tribunale di Milano ha respinto la domanda con sentenza che è stata riformata dalla Corte d’appello di Milano, che, ritenuta l’insussistenza di una valida cessione di ramo d’azienda ex art. 2112 c.c. per essersi concretizzata solo una vendita di beni materiali e la cessione dei contratti di lavoro senza il consenso dei lavoratori ceduti, ha dichiarato la sussistenza del rapporto di lavoro tra gli appellanti e la società (omissis) spa (già (omissis) spa) e l’obbligo dell’appellata di riammetterli in servizio, con condanna della società al pagamento delle retribuzioni dalla data della notifica del ricorso introduttivo.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la (omissis) srl affidandosi a sette motivi, cui resistono con controricorso i lavoratori che hanno proposto anche ricorso incidentale fondato su un unico motivo.

La (omissis) ha depositato controricorso per resistere al ricorso incidentale.

La (omissis) srl non ha svolto attività difensiva.

Sia la ricorrente che i controricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, deve essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ex art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza.

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire se “chiesta dall’attore Legge n. 300 del 1970, ex art. 18 una condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro per illegittimità del licenziamento, viola il disposto dell’art. 112 c.p.c. la sentenza che dichiara la prosecuzione del rapporto di lavoro senza nessuna interruzione”.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 100 c.p.c. nella parte in cui la sentenza impugnata ha respinto l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla (omissis) (che sosteneva che la domanda di reintegrazione avrebbe dovuto essere proposta nei confronti del soggetto che gli stessi ricorrenti affermavano essere titolare dell’azienda ceduta, e cioè della (omissis), alla, quale la (omissis) aveva trasferito l’intera azienda), e ciò a seguito dell’esame del merito dei fatti di causa (che aveva portato il giudice d’appello a ritenere che lo stabilimento di (omissis) fosse stato escluso dalla cessione), anziché con riguardo alle allegazioni contenute nell’atto introduttivo.

3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione degli articoli 2555, 2556 e 2112 c.c., chiedendo a questa Corte di stabilire se “l’eventuale mancanza di autonomia e specifica clientela, preesistente alla cessione di un complesso di beni e di dipendenti, è sufficiente di per sè per escludere la configurabilità di un ramo d’azienda ai fini dell’applicabilità degli articoli 2556 e 2112 c.c.”.

4.- Con il quarto motivo si censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle risultanze istruttorie riguardanti la sussistenza o meno di una reale ed effettiva cessione di ramo d’azienda.

5.- Con il quinto motivo si denuncia violazione degli articoli 2112 e 1406 c.c. relativamente alla statuizione della sentenza impugnata che ha escluso che vi fosse stata, da parte dei lavoratori, una manifestazione di consenso alla cessione del contratto di lavoro, chiedendo a questa Corte di stabilire se “in mancanza di un presupposto (l’esistenza di un vero ramo d’azienda) per il trasferimento dei rapporti di lavoro ai sensi dell’art. 2112 c.c., questi possono essere trasferiti ai sensi dell’art. 1406 c.c. con manifestazione tacita del consenso attraverso la prosecuzione dell’attività lavorativa in favore del nuovo proprietario dei beni materiali venduti”.

6.- Con il sesto motivo si censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione in ordine alla stessa statuizione di cui al punto precedente, richiamando altresì le difese già svolte in appello con specifico riguardo all’eccezione di decadenza dei lavoratori dal diritto di impugnare i licenziamenti per l’inutile decorso del termine previsto dalla Legge n. 604 del 1966, art. 6.

7.- Con il settimo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla eccezione di aliunde perceptum, chiedendo a questa Corte di stabilire se “il giudice che accoglie una domanda di accertamento della vigenza del rapporto di lavoro, ritenuta implicita nella domanda di reintegrazione Legge n. 300 del 1970, ex art. 18 formulata dal ricorrente, e condanna la società convenuta al pagamento delle retribuzioni (in luogo del risarcimento richiesto dal ricorrente) deve pronunciarsi sulle eccezioni di riduzione degli importi ex adverso richiesti, formulata dal convenuto”.

8.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. in ordine alla omessa pronuncia da parte del giudice d’appello sulla domanda di condanna al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali e su quella di condanna al pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria.

9.- Il primo motivo è infondato. Questa Corte ha già precisato che il vizio di ultra o extrapetizione ricorre solo quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, fermo restando che egli è libero di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti dedotti in giudizio ed all’azione esercitata, purché non pervenga ad una non consentita immutazione dei fatti prospettati dalle parti (cfr. ex plurimis Cass. n. 14468/2009, Cass. n. 26999/2005, Cass. n. 4924/2004).

È stato altresì precisato che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice di merito che abbia esercitato il doveroso compito di definire e qualificare la domanda proposta dalla parte – senza essere in ciò condizionato dalla formula adottata dalla parte medesima e tenuto conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e delle eventuali precisazioni formulate in corso di causa – e si sia, quindi, nel pronunciare su di essa, attenuto ai limiti della domanda come interpretata (Cass. n. 27285/2006).

10.- Nella specie, la Corte territoriale, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, ha ritenuto che la domanda di accertamento della nullità dei licenziamenti e di condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro contenesse implicitamente quella di accertamento della nullità delle cessioni dei contratti di lavoro e di accertamento dell’obbligo della società di riammettere al lavoro i ricorrenti, e, così decidendo, non ha evidentemente immutato i fatti posti a fondamento della domanda, né ha introdotto nel giudizio una diversa causa petendi, essendo questa pur sempre costituita dalla asserita illegittimità della interruzione dei rapporti di lavoro (da qualificare, secondo l’assunto dei lavoratori, come atto di recesso da parte del datore di lavoro). Il primo motivo del ricorso principale deve essere pertanto respinto.

11- Anche il secondo motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex multis Cass. n. 8040/2006), la legittimazione ad causam dal lato passivo (o legittimazione a contraddire) costituisce un presupposto processuale, cioè una condizione affinché il processo possa giungere ad una decisione di merito, e consiste nella correlazione tra colui nei cui confronti è chiesta la tutela e la affermata titolarità, in capo a costui, del dovere (asseritamente violato), in relazione al diritto per cui si agisce, onde il controllo del giudice al riguardo si risolve nell’accertare se, secondo la prospettazione del rapporto controverso data dall’attore, il convenuto assuma la veste di soggetto tenuto a “subire” la pronuncia giurisdizionale.

Nel caso in esame, i lavoratori hanno chiesto che venisse accertata la simulazione del contratto stipulato tra la società (omissis) e la (omissis), che fosse accertata l’illegittimità dei licenziamenti e che venisse ordinato alla (omissis) (ora (omissis)) di reintegrare gli stessi nel posto di lavoro; e tanto è sufficiente a far ritenere sussistente la legittimazione passiva della (omissis), e cioè del soggetto nei cui confronti è chiesta la tutela e che i ricorrenti assumono aver violato il diritto per cui agiscono in giudizio.

12.- Il terzo e il quarto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi tra loro, sono infondati. Questa Corte ha già affermato (cfr. ex plurimis Cass. n. 6452/2009) che per “ramo d’azienda”, come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e (come affermato anche dalla Corte di Giustizia, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00 Temco) consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo, il cui accertamento presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, e così dell’eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, dell’avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima e dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 c.c., che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto, comportando la sostituzione di uno dei soggetti contraenti e necessitando, per la sua efficacia, del consenso del lavoratore ceduto (nello stesso senso, Cass. n. 19740/2008, Cass. n. 19740/2008, Cass. n. 2489/2008, Cass. n. 22125/2006).

Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che, nel caso di specie, non era stata dimostrata la sussistenza di una valida cessione ex art. 2112 c.c., non potendo affermarsi che lo stabilimento di (omissis), così come ceduto all’atto del trasferimento, costituisse un autonomo ramo d’azienda; e ciò in quanto, in base alle risultanze testimoniali, era emerso che “mancava in realtà la presenza di un autonomo impulso organizzativo tale da permettere alla struttura di funzionare autonomamente sul mercato, impulso organizzativo che è fatto di personale qualificato e responsabile delle varie funzioni, di dati e di know how, e non solo di macchinari, per realizzare in concreto un produzione che fosse indipendente da mere commesse ricevute dalla cedente, dirette esclusivamente a colmare temporaneamente il deficit di autonoma capacità produttiva dello stabilimento che era stato ceduto”. Alla “assenza di una autonoma e compiuta realtà organizzativa” si era aggiunta, inoltre, “l’assenza dell’elemento più importante per connotare la capacità produttiva, consistente nell’avviamento”. Ed invero, era emerso, a conferma di quanto sopra, che lo stabilimento di (omissis) era privo di un’effettiva autonomia commerciale e amministrativa, dipendendo, per l’attività commerciale, dagli uffici della sede centrale e, per quella amministrativa, dallo stabilimento di (omissis), e che, anche a causa del fatto che nella cessione delle attività non era stato compreso un considerevole numero di matrici (necessarie alla produzione che veniva svolta nello stabilimento), l’attività produttiva era proseguita per un certo periodo di tempo (e cioè fino alla data del fallimento della cessionaria) quasi esclusivamente in virtù del fatto che “la cedente aveva stipulato un contratto con la cessionaria, di validità triennale, per la trasformazione di 3000 tonnellate di materiale”.

13.- La ricorrente ha contestato le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, osservando che l’eventuale mancanza di autonoma e specifica clientela non è sufficiente, di per sé, ad escludere la configurabilità di una cessione di ramo d’azienda, ex art. 2112 c.c. e che comunque il giudice d’appello non avrebbe preso in considerazione diversi elementi in base ai quali avrebbe dovuto concludere non solo per la sussistenza della clientela e dell’avviamento del ramo d’azienda, ma anche per la sussistenza di una autonoma struttura commerciale e, in definitiva, di un vero ed autonomo ramo d’azienda.

14.- Tali censure non possono tuttavia trovare accoglimento. In primo luogo, diversamente da quanto dedotto dalla ricorrente, non è affatto vero che la Corte d’appello abbia escluso l’esistenza di una valida cessione di azienda “per il solo fatto … della mancanza di clientela tra gli elementi oggetto di cessione”, che anzi, come si è detto, la Corte territoriale ha preso in esame un serie di elementi connessi tra loro (sia sul piano commerciale che sul versante organizzativo) per inferirne che, all’assenza di una “autonoma e compiuta realtà organizzativa”, si era “aggiunta” quella dell’elemento dell’avviamento. Quanto alle censure attinenti ai vizi della motivazione, deve osservarsi anzitutto che, come questa Corte ha già precisato (cfr. Cass. n. 2427/2004), non è ipotizzabile un vizio della motivazione nel caso in cui la contraddizione denunziata riguardi non già più proposizioni contenute nella sentenza impugnata, tra loro inconciliabili, ma le valutazioni contrastanti compiute dal giudice di primo grado e da quello di seconde cure. Diversamente argomentando, infatti, dovrebbe pervenirsi alla conclusione che sono indiscriminatamente viziate per contraddittorietà della motivazione tutte le sentenze di appello che abbiano valutato le risultanze di causa in modo difforme rispetto a quanto ritenuto dal primo giudice. Devono pertanto ritenersi inammissibili tutte quelle censure con le quali si sottolinea il contrasto tra le affermazioni contenute nella prima sentenza (favorevole all’attuale ricorrente) e quelle contenute nella sentenza di appello (non condivise dalla ricorrente).

15.- Nè è rilevante, per giungere ad una diversa conclusione, che il giudice d’appello abbia diversamente valutato solo alcune delle risultanze di causa, piuttosto che tutte, o che abbia assegnato la prevalenza ad alcuni piuttosto che ad altri mezzi di prova; dovendo ribadirsi, al riguardo, che, come è stato più volte affermalo da questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. Ciò comporta che il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata debba giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito, ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da risultare sostanzialmente incomprensibile o equivoca.

Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ricorre, dunque, soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorché il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009, Cass. n. 17477/2007, Cass. n. 15489/2007, Cass. n. 7065/2007, Cass. n. 1754/2007, Cass. n. 14972/2006, Cass. n. 17145/2006, Cass. n. 12362/2006, Cass. n. 24589/2005, Cass. n. 16087/2003, Cass. n. 7058/2003, Cass. n. 5434/2003, Cass. n. 13045/97, Cass. n. 3205/95). E tutto ciò a prescindere dalla considerazione che, come questa Corte ha pure ripetutamente affermato, in tema di prova spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. ex plurimis, Cass. n. 16499/2009).

16.- Nella specie, la società ricorrente, lungi dal denunciare lacune o effettive contraddizioni logiche nella motivazione che sorregge l’accertamento di fatto sul quale è fondata la decisione impugnata, si è limitata a prospettare – inammissibilmente – una diversa ricostruzione dei medesimi fatti, proponendone un giudizio valutativo parimenti diverso (e finendo, in sostanza, per privilegiare il contenuto di alcuni dati, di carattere prevalentemente formale, rispetto a quelli ritenuti dalla Corte d’appello più idonei a sorreggere la motivazione); dal che consegue il rigetto delle relative censure.

17.- Anche il quinto e il sesto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per riguardare problematiche strettamente connesse, sono infondati.

18.- Quanto alla possibilità che il consenso del lavoratore alla cessione del contratto di lavoro possa essere manifestato anche in forma tacita, la giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. ex plurimis Cass. n. 21818/2006, Cass. n. 6349/2001, Cass. n. 12384/99) ha ritenuto che, non richiedendosi per il contratto di lavoro, subordinato o autonomo, una forma tipica – salvo alcune eccezioni -, il consenso alla sua cessione possa anche essere successivo all’atto intervenuto tra cedente e cessionario e possa essere, oltre che espresso, anche tacito, purché venga manifestata in maniera adeguata la volontà di porre in essere una modificazione soggettiva del rapporto, ovvero “attraverso un comportamento inequivocabilmente preordinato a superare il preesistente assetto negoziale” (Cass. n. 21818/2006 cit.).

19.- Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che i comportamenti dei lavoratori non potessero considerarsi come inequivocabilmente diretti a superare il preesistente assetto negoziale, non essendo sufficiente, a tal fine, la circostanza che i lavoratori medesimi avessero fruito del trattamento di fine rapporto all’atto della cessione del contratto, né che avessero continuato la prestazione della propria opera alle dipendenze del cessionario, atteso che, a causa del comportamento iniziale dell’azienda e del concreto succedersi degli eventi, culminati nella completa cessazione dell’attività produttiva, gli stessi non erano stati in grado di esprimere alcuna forma di consenso all’operazione posta in essere dalla società cedente (“nessun consenso avrebbero potuto esprimere i lavoratori né all’atto della formale cessione del ramo d’azienda, operazione che non esigeva manifestazione di consenso, nè posteriormente, atteso che la insussistenza della fattispecie di cui all’art. 2112 c.c. si è nei fatti evidenziata anche nel corso dei due anni successivi, dopo i quali la (omissis) spa ha cessato la produzione, con la fine delle forniture provenienti dalla unica commessa della (omissis), tanto da arrivare, nel maggio del 2005, al fallimento”).

20.- Si tratta, quindi, di una valutazione di merito della Corte d’appello, che può certamente essere oggetto di discussione e presentare margini di opinabilità, ma che altrettanto certamente non è diretta ad escludere che, in termini generali, il consenso del lavoratore ceduto possa essere manifestato anche in forma tacita – ed in particolare con la continuazione dell’attività lavorativa alle dipendenze del cessionario – e non si pone pertanto in contraddizione con l’affermazione della mancanza di una valida cessione di ramo d’azienda e con la conseguente ritenuta nullità della cessione dei contratti di lavoro.

21.- Quanto alle altre doglianze espresse dalla ricorrente con il sesto motivo, si osserva che la Corte di merito non ha ritenuto che l’insussistenza della cessione di ramo d’azienda si sia concretizzata progressivamente nei due anni successivi alla cessione, né che i lavoratori abbiano rifiutato il consenso alla cessione dopo due anni dall’esecuzione dell’accordo, bensì, come sopra rilevato, che i lavoratori, a causa del concreto succedersi degli eventi, non siano stati in grado di esprimere alcuna forma di consenso, né all’atto della cessione, nè in epoca successiva.

22.- È priva di fondamento anche la doglianza relativa all’omesso esame dell’eccezione di decadenza dal diritto di impugnare i licenziamenti, posto che, una volta configurata la vicenda in termini di nullità della cessione del contratto di lavoro, e ritenuto l’obbligo del datore di lavoro di riammettere in servizio i lavoratori, non è evidentemente applicabile la disciplina in tema di licenziamenti, ed in particolare la disposizione di cui alla Legge n. 604 del 1966, art. 6 sull’impugnazione del licenziamento.

23.- Le censure formulate con il settimo motivo possono essere esaminate congiuntamente a quelle espresse con il ricorso incidentale, trattandosi in entrambi i casi di censure relative alle conseguenze risarcitorie.

24.- Il settimo motivo deve ritenersi fondato. Il quesito formulato dalla società ricorrente, come sopra riportato, deve infatti trovare risposta nel principio più volte affermato da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 4677/2006) secondo cui l’obbligo risarcitorio commisurato alla retribuzione non determina l’automatica equivalenza del risarcimento ai compensi retributivi perduti, poiché l’automatismo è invece escluso ove si accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita della retribuzione) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti per prestazioni lavorative svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro (cd. aliunde perceptum).

25.- Accolto il motivo, il difetto di pronuncia della Corte d’appello sul punto pone ora il quesito se alla lacuna decisoria debba rimediarsi attraverso un rinvio al giudice di merito oppure se, in difetto della necessità di ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte possa statuire sulla questione in esame, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.

Benché in passato la Corte abbia talvolta negato il proprio potere di pronunciare su questioni assorbite (o sulle quali i giudici di merito non si siano comunque pronunciati) e di decidere ne merito quando questo comporti la soppressione di un grado di giudizio (Cass. n. 4804/2007, Cass. n. 6784/2003, Cass. n. 15808/2002), più recentemente questa stessa Corte, rimeditando il problema, ha statuito che, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, qualora i giudici di merito non si siano pronunciati su una questione di mero diritto, ossia non richiedente nuovi accertamenti di fatto, e la stessa venga riproposta in sede di legittimità, la Corte, una volta accolto il ricorso e cassata la sentenza impugnata, può decidere la questione purché su di essa si sia svolto il contraddittorio nella stessa fase di cassazione, dovendosi ritenere che l’art. 384 c.p.c., comma 2, come modificato dalla Legge n. 40 del 2006, art. 12, attribuisca alla Corte di cassazione una funzione non più soltanto rescindente, ma anche rescissoria, e che la perdita del grado di merito resti compensata con la realizzazione del principio di speditezza (Cass. n. 25023/2011, Cass. n. 24914/2011, Cass. n. 15778/2011, Cass. n. 5139/2011, Cass. n. 2313/2010).

26.- Nel caso di specie, la questione è stata sollevata dalla ricorrente con il settimo motivo, al quale i controricorrenti hanno ampiamente risposto con il controricorso, sicché la questione medesima, che non necessita di ulteriori accertamenti di fatto, può essere decisa ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.

27.- Alla stregua dei principi che sono stati sopra indicati (punto 24), e tenendo conto delle deduzioni avanzate dalle parti nei rispettivi scritti difensivi, deve pertanto ritenersi che il risarcimento del danno spettante ai lavoratori deve essere diminuito degli importi da essi ricevuti a titolo di retribuzione dalla società (omissis) nel periodo intercorrente tra la data della notifica del ricorso introduttivo (che la Corte di merito ha individuato quale dies a quo dell’insorgenza dell’obbligo di pagamento a carico della (omissis)) e la data della sentenza dichiarativa del fallimento della stessa società (omissis).

28.- Dal risarcimento del danno non possono invece essere detratti gli importi percepiti dai lavoratori a titolo di indennità di mobilità, posto che, secondo l’orientamento di questa Corte (cfr, ex plurimis Cass. n. 18687/2006, Cass. n. 18137/2006), può considerarsi compensativo del danno arrecato al lavoratore con il licenziamento (o, come in questo caso, a seguito della mancata riammissione in servizio) non qualsiasi reddito percepito dal medesimo, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa.

29.- Sulle somme dovute a titolo di risarcimento del danno decorrono gli interessi legali e la rivalutazione monetaria in base alle regole generali dettate in materia di crediti di lavoro dall’art. 429 c.p.c. e art. 150 disp. att. c.p.c.

30.- Non va pronunciata condanna al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, trattandosi di condanna che la legge prevede come accessoria rispetto a quella al risarcimento del danno Legge n. 300 del 1970, ex art. 18, originariamente richiesta dai lavoratori, ma non accolta dalla Corte territoriale (che ha dichiarato, invece, come già detto, la sussistenza del rapporto di lavoro e l’obbligo della società di riammettere i lavoratori in servizio).

31.- Entro questi limiti devono ritenersi fondati e devono essere accolti, quindi, il settimo motivo del ricorso principale e l’unico motivo di quello incidentale.

32.- In considerazione dell’esito globale della lite, si ritiene conforme a giustizia compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità, lasciando ferme le statuizioni sulle spese di lite dei due gradi di merito contenute nella sentenza impugnata.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il settimo motivo del ricorso principale, rigettati gli altri, accoglie per quanto di ragione il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, condanna la società (omissis) spa al pagamento delle retribuzioni, con detrazione delle retribuzioni percepite dalla società (omissis) dalla data della notifica del ricorso di primo grado fino alla data della sentenza dichiarativa del fallimento della stessa società (omissis), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 429 c.p.c.; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione, mantenendo ferme la statuizioni relative alle spese di giudizio dei due gradi di merito contenute nella sentenza impugnata.