CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 giugno 2013, n. 14636
Lavoratore socialmente utile – Rapporto di lavoro subordinato – Configurabilità – Esclusione.
Svolgimento del processo
Con sentenza dell’1/10710 – 26/10/10 la Corte d’appello di Ancona, accogliendo parzialmente il ricorso proposto dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Fermo che l’aveva condannato a corrispondere a C. C. la differenza tra quanto versatole a titolo di compensi per lo svolgimento di lavori socialmente utili e quanto dovutole in base al trattamento retributivo previsto per il personale dipendente di pari livello, ha disposto che l’importo dovuto a titolo di interessi legali sui crediti dell’appellata venisse portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno da svalutazione monetaria, confermando nel resto la gravata decisione.
La Corte ha spiegato che l’istruttoria aveva consentito di accertare che alla lavoratrice erano state fatte svolgere mansioni del tutto estranee a quelle previste nel progetto dei lavori socialmente utili e che non erano assimilabili nemmeno al novero dei servizi tecnici integrati della pubblica amministrazione per i quali l’art. 2 del D.lvo n. 81/2000 aveva ammesso l’utilizzazione. Inoltre, per quella parte del lavoro che si discostava per contenuto ed orario dalla prestazione socialmente utile trovava applicazione la norma di cui all’art. 2126 c.c. che non poteva ritenersi esclusa dalla natura previdenziale del rapporto dei lavoratori socialmente utili. Infine, versandosi in ipotesi di retribuzione collegata al pubblico impiego, non poteva non operare il divieto di cumulo di interessi legali e rivalutazione monetaria di cui all’art. 16, comma 6, della legge n. 412/1991, per cui gli interessi maturati sugli importi riconosciuti dovevano essere detratti dal credito eventualmente spettante a ristoro del maggior danno da svalutazione monetaria. Per la cassazione della sentenza propone ricorso il Ministero della Giustizia che affida l’impugnazione ad un solo motivo di censura.
Resiste con controricorso C. C. la quale deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con un solo motivo di censura la difesa del Ministero della Giustizia denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 del d.lgs n. 81/2000, dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’insufficienza della motivazione circa un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., assumendo che le mansioni svolte dalla controparte rientravano, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, nel settore dei lavori socialmente utili di cui all’art. 1 del d.lgs n. 468/97 e agli artt. 2 e 3 del d.lgs n. 81/2000, oltre che nei progetti, ministeriale e di Corte d’appello, regolarmente approvati dal Ministero del Lavoro. La stessa difesa aggiunge che la normativa in esame aveva previsto che, allo scopo di creare opportunità occupazionali per i lavoratori già impiegati in lavori socialmente utili, le amministrazioni potevano far fronte a proprie esigenze istituzionali per l’esecuzione di servizi aggiuntivi (art. 10 D.lgs n. 468/97), per cui era normale che la controparte fosse stata chiamata a lavorare a fianco del personale di ruolo e che avesse svolto incombenze e compiti amministrativi di supporto al funzionamento degli uffici giudiziari. Pertanto, era da considerare erronea l’affermazione della Corte in ordine alla ritenuta estraneità delle mansioni fatte svolgere alla controparte rispetto al progetto di riferimento, affermazione che era anche insufficientemente motivata in quanto mancava l’indicazione degli elementi atti a chiarire le ragioni per le quali detti compiti non erano riconducibili al progetto dei lavori socialmente utili ed in quale misura la medesima lavoratrice sarebbe stata adibita a tali mansioni giudicate diverse. Il ricorso è fondato.
Occorre, infatti, ricordare che l’art. 14 della legge n. 451 del 19 luglio 1994, di conversione del D.L. n. 299 del 1994, disponeva che ai lavori socialmente utili presso le pubbliche amministrazioni potevano essere avviati o i titolari di trattamento straordinario di integrazione salariale, dell’indennità di mobilità, ovvero i disoccupati di lunga durata (di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 25, comma 5). Per i primi il compenso per l’opera prestata era pari alla prestazione previdenziale in godimento (cassa integrazione o indennità di mobilità), salvo il diritto ad un compenso integrativo per il lavoro ulteriore svolto. Per i disoccupati che non godevano di alcuna prestazione previdenziale si stabilì (comma 4 del citato art. 14) la somma di L. 7.500 orarie.
La medesima legge ha previsto che l’utilizzazione dei lavoratori non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro, non implica la perdita del trattamento straordinario di integrazione salariale e non comporta la cancellazione dalle liste di collocamento o dalle liste di mobilità.
Successivamente, col decreto legge n. 510 del 1996, convertito nella legge n. 608 del 1996, all’art. 1, comma 3, fu operata la sostituzione del quarto comma del predetto art. 14 della legge n. 451/94 nei seguenti termini: “I soggetti di cui al comma 1 che non fruiscono di alcun trattamento previdenziale possono essere impegnati nell’ambito del progetto per non più di dodici mesi e per essi può essere richiesto, a carico del fondo di cui al comma 7, un sussidio non superiore a L. 800.000 mensili. Il sussidio è erogato dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e per esso trovano applicazione le disposizioni in materia di mobilità e di indennità di mobilità. Ai lavoratori medesimi può essere corrisposto, dai soggetti proponenti o utilizzatori, un importo integrativo di detti trattamenti, per le giornate di effettiva esecuzione delle prestazioni.”
Si stabilì ancora con l’art. 20 della legge n. 196 del 1997 che detto compenso fosse a carico del Fondo per l’occupazione di cui al decreto legge n. 148 del 1993, art. 1, comma 7, convertito nella legge n. 236 del 1993. In seguito con il D.Lgs. n. 468 del 1997, art. 8, comma 3, si reiterò la previsione che per i lavoratori utilizzati nella attività di lavori socialmente utili non percettori di trattamenti previdenziali competeva un importo mensile di L. 800.000 erogato dall’lnps. Anche se un importo integrativo fu erogato dal Ministero, in ogni caso è indubbio che la parte essenziale del compenso per l’opera prestata era a carico del Fondo per l’occupazione e materialmente erogata dall’lnps, onde non è configurabile alcun rapporto di lavoro subordinato, neppure di fatto, non essendo previsto per legge alcuna controprestazione economica a carico del soggetto beneficiario. Pertanto, in assenza di un elemento fondamentale caratterizzante la fattispecie, il rapporto mai potrebbe essere ricondotto nell’alveo del lavoro subordinato. Ebbene, sulla base di tali premesse, questa Corte ha avuto modo di affermare di recente (Cass. Sez. 6 – Lav. Ordinanza n. 9811 del 14/6/2012) che “in tema di lavori socialmente utili, l’art. 1 del d.lgs. n. 468 del 1997, riferendosi alle attività inerenti la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva, non reca un’elencazione tassativa, sicché non eccede tale ambito e non identifica un rapporto di lavoro subordinato, neppure di fatto ex art. 2126 cod. civ., la prestazione resa in favore di un ente pubblico (nella specie, Ministero della Giustizia) da un soggetto assegnato a progetto L.S.U e percettore di assegno INPS, mancando un elemento imprescindibile della fattispecie legale del lavoro subordinato, qual è il pagamento del compenso da parte del beneficiario della prestazione.”
D’altronde, tale principio era stato già espresso da questa Corte con la sentenza n. 21155 del 13/10/2010, allorquando si era precisato che “in tema di lavori socialmente utili, l’art. 1 del d.lgs. n. 468 del 1997, nel ricomprendere in tale ambito le attività che hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva, mediante l’utilizzo di particolari categorie di soggetti, non reca un’elencazione tassativa di attività, né le previsioni della contrattazione collettiva che destinano risorse al sostegno delle iniziative rivolte a migliorare la produttività, l’efficienza e l’efficacia dei servizi hanno diretta incidenza sulla ricomprensione di analoghe iniziative fra le attività inerenti ai lavori socialmente utili”.
In quel caso era stato ritenuta espletabile, attraverso l’impiego di lavoratori socialmente utili, l’attività volta al miglioramento della funzionalità degli uffici comunali, con conseguente rigetto della domanda di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con un ente locale, proposta sul presupposto dell’illegittimo ricorso ai lavori socialmente utili, effettuato per attività non previste dalla normativa di riferimento e per far fronte, sostanzialmente, a carenze di organico.
Quindi, una volta esclusa nella fattispecie la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato, non può venire in applicazione la norma dell’art. 2126 cod. civ.
Pertanto, il ricorso va accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rigetto dell’originaria domanda, non rendendosi necessari, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., ulteriori accertamenti di fatto.
La particolarità della questione trattata induce la Corte a ritenere compensate tra le parti le spese dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Spese compensate.
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