Corte di Cassazione sentenza n. 14874 del 06 luglio 2011
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – LICENZIAMENTO DISCIPLINARE – IMMEDIATEZZA DELLA CONTESTAZIONE – CRITERI DI VALUTAZIONE IN GENERALE
massima
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In tema di licenziamento disciplinare, nel valutare l’immediatezza della contestazione occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione. Ne consegue che l’aver presentato a carico di un lavoratore denunzia di un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro non consente al datore di attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 1/29.10.2008, la Corte di appello di Perugia, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato dalla G. spa nei confronti di S.P. in data 9.4.2001 e condannava l’U.F. spa (quale incorporante della G.) al pagamento in favore dello stesso dell’indennità sostitutiva del preavviso e della relativa incidenza sul TFR e dell’indennità supplementare, oltre ad accessori di legge.
Osservava in sintesi la corte territoriale che il licenziamento era stato comminato in violazione del principio della tempestività della contestazione, atteso che, già nel luglio del 1999, la Banca dell’U. aveva disposto una verifica ispettiva, in esito alla quale erano stati evidenziati gli affidamenti concessi dal S.P. alla società T. srl oltre i limiti di fido e senza le necessarie autorizzazioni e travalicando i limiti propri del direttore generale, e che lo stesso Presidente della società, nella seduta del consiglio di amministrazione del 29.3.2000, aveva difeso puntigliosamente l’operato del direttore generale (circostanze che dimostravano che la G. era pienamente a conoscenza della esposizione debitoria della società T. ben prima dell’ulteriore verifica del febbraio 2001) e che, comunque, faceva difetto anche la giusta causa del recesso, essendo l’incremento della esposizione debitoria della società T. non solo conosciuto dagli organi sociali, ma anche avallato dagli stessi.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’U.F. spa con sette motivi.
Resiste con controricorso e ricorso incidentale S.P.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la società ricorrente lamenta violazione dell’art. 435 c.p.c. ed evidenzia, al riguardo, che l’atto di impugnazione era stato notificato all’appellato ben oltre il termine di dieci giorni prescritto dalla norma, sebbene tale termine dovesse ritenersi perentorio.
Con il secondo motivo la società ricorrente lamenta vizio di motivazione osservando come la corte territoriale, con motivazione illogica, avesse valutato l’attuato proposito del direttore generale e distrarre l’attenzione dell’organo amministrativo dalla deroga arbitraria ai limiti assegnati dagli organi amministrativi per la concessione del credito ed il conseguente ritardo con cui gli amministratori avevano percepito tale situazione quale causa giustificativa del comportamento dello stesso.
Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 2396 c.c. e 13 del CCNL per i dirigenti di istituti di credito, nonché ai sensi del numero 5 dello stesso testo, la società ricorrente si duole che la corte territoriale avesse omesso di esaminare la peculiare posizione e responsabilità del S.P., che, nel suo ruolo di direttore generale, era il reale protagonista della gestione dell’impresa, in grado di esprimere un rilevante condizionamento sull’operato degli altri amministratori.
Con il quarto motivo la società ricorrente lamenta ancora vizio di motivazione evidenziando come la corte territoriale avesse da un lato valutato come “poco incisive” le informazioni fornite dal dirigente agli amministratori in ordine agli esorbitanti finanziamenti arbitrariamente concessi alla società T., dall’altro avesse qualificato il direttore generale come un “mero esecutore di ordini”.
Con il quinto motivo, la ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la sentenza impugnata per non aver tenuto conto dei principi relativi all’immediatezza della contestazione, da valutarsi, in realtà, con riferimento alla natura dell’inadempimento e al suo perdurare nel corso del tempo.
Col sesto motivo la ricorrente censura ancora la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione osservando come il giudice di merito avesse omesso di valutare la ricorrenza, nel caso, dei presupposti per la conversione del licenziamento intimato per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo, con conseguente disapplicazione della disciplina legale e contrattuale.
Con l’ultimo motivo, infine, la ricorrente si duole che non era stato considerato come il giustificato motivo dovesse essere valutato nella particolare configurazione che lo stesso assume nei rapporti con i dirigenti, tanto più con i dirigenti apicali e con quelli la cui responsabilità gestionale li assimila agli amministratori.
2. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, l’intimato, prospettando violazione dell’art. 2110 c.c. e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., osserva, con riferimento alla richiesta di pagamento della retribuzioni per il periodo di malattia, che la corte di merito non aveva tenuto in considerazione che quest’ultima era sorta prima del licenziamento e che, pertanto, l’efficacia dell’atto di recesso era rimasta sospesa sino alla cessazione del periodo morbigeno, con conseguente diritto del lavoratore alle retribuzioni inerenti all’intero periodo di malattia.
3. I ricorsi vanno preliminarmente riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
4. Il primo motivo del ricorso principale è infondato.
Costituisce giurisprudenza acquisita che il termine di dieci giorni assegnato all’appellante dal nuovo rito del lavoro per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione non è perentorio; la sua inosservanza non comporta, perciò, alcuna decadenza, sempreché resti garantito all’appellato uno spatium deliberandi non inferiore a quello legale prima dell’udienza di discussione affinché lo stesso possa apprestare le sue difese (v. ad es. da ultimo Cass. n. 21358/2010; Cass. n. 26498/2010).
3. I motivi dal secondo al quinto possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi, e vanno rigettati.
Giova, al riguardo, premettere, con riferimento ai requisiti che qualificano la tempestività della contestazione e della sanzione disciplinare, come questa Suprema corte abbia ribadito che il principio tanto dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, quanto della tempestività del recesso, la cui ratio riflette l’esigenza del rispetto della regola della buona fede e correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, oltre che dei principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento del lavoratore incolpato, deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, ad una adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e delle giustificazioni da lui fornite.
Più in particolare, si è affermato che, nel valutare l’immediatezza della contestazione ai fini dell’intimazione del licenziamento disciplinare, occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dallo loro commissione; con la conseguenza che, per esempio, pur nell’ipotesi in cui sia stata presentata a carico di un lavoratore denuncia per un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro, ciò non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti (v. ad es. Cass. n. 1101/2007; Cass. n. 4502/2008).
Ne discende ancora che – per effetto della rilevanza che va riconosciuta, nei limiti indicati, all’obbligo del datore di lavoro di ricostruire i fatti e la loro imputabilità – deve ritenersi che gravi su quest’ultimo l’onere di provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l’accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare (v. sul punto anche Cass. n. 1101/2007; Cass. n. 2023/2006).
Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha accertato che, ben due anni prima del licenziamento, e precisamente “già in data 9 luglio 1999 la Banca dell’U., che era all’epoca la controllante della G., aveva disposto una verifica ispettiva a carico di quest’ultima, in esito alla quale…già erano stati analiticamente evidenziati tutti gli affidamenti concessi alla T. srl, come effettuati oltre i limiti di fido, senza le necessarie autorizzazioni e con travalicamento dei poteri attributi al direttore generale”.
Ha soggiunto la corte territoriale che il verbale di verifica era stato esaminato in data 19.1.2000 dal consiglio di amministrazione della società, che “aveva espressamente ratificato la posizione di sofferenza facente capo anche alla T.” e che, a fronte delle “specifiche contestazioni” sollevate dalla società controllante, il comitato esecutivo aveva, quindi, nella seduta del 29.3.2000, “riconfermato piena fiducia nel S.P. e ne aveva approvato espressamente l’operato”.
In tal contesto, plausibile, e, comunque, priva di alcuna illogicità, appare la conclusione cui è pervenuta la corte di merito, che ha ritenuto di dover escludere che il direttore generale avesse “sistematicamente disinformato” il consiglio di amministrazione, tenuto conto che i componenti del consiglio erano persone esperte del credito bancario e che, comunque, specifiche e puntuali informazioni circa la situazione debitoria della T. e circa l’operato del direttore generale erano state fornite dalla società controllante, la quale aveva evidenziato come quest’ultimo avesse operato “oltre i limiti di fido, senza le necessarie autorizzazioni e con travalicamento dei poteri”.
Il che vale quanto dire che determinale e decisiva è apparsa la circostanza che le mancanze successivamente addebitate all’intimato erano ben da prima note, e comunque ragionevolmente conoscibili, dal datore di lavoro e che, nondimeno, tale situazione non aveva determinato nell’immediato, e per oltre due anni, alcuna reazione da parte dello stesso, laddove il consolidarsi della situazione debitoria della società garantita aveva confermato, ma non certo evidenziato ex novo il peculiare ruolo svolto nell’assunzione del rischio dal direttore generale.
E tale accertamento, che risulta coerente con i principi interpretativi sopra richiamati, assorbe ogni altra censura, anche con riferimento alla specifica e rilevante posizione rivestita dal dipendente all’interno dell’azienda.
5. La corretta applicazione dei principi in tema di tempestività della contestazione e del recesso assorbe, altresì, le censure mosse con gli ultimi due motivi del ricorso, non trovando il licenziamento irrogato giustificazione già alla luce della preliminare valutazione della sua necessaria immediatezza.
6. Non meritevole di accoglimento è anche il ricorso incidentale.
Emerge, infatti, dalla sentenza impugnata che la retribuzione per il periodo di malattia era stata richiesta a decorrere dal 9 aprile 2001 (data del recesso) e “a causa dell’illegittimo licenziamento”; non risulta, per contro, documentato, in conformità al canone di necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione, che la causa petendi del ricorso introduttivo del giudizio (con riferimento al quale viene trascritto solo il petitum) facesse riferimento ad una malattia insorta precedentemente al recesso e non causalmente connessa allo stesso.
L’inammissibilità della censura, precludendo di verificare l’asserita erronea interpretazione della domanda, determina il rigetto del gravame incidentale a tal fine avanzato.
7. Entrambi i ricorsi vanno, pertanto, rigettati. Spese compensate, stante la reciproca soccombenza.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese.
Così deciso in Roma l’8.6.2011.
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