Suprema Corte di Cassazione sez. penale sentenza n. 15006 del 2 aprile 2013
RITENUTO IN FATTO
1. La difesa di O. E. e M. I. propone ricorso avverso la sentenza del 01/12/2011 della Corte d’appello di Roma con la quale è stata confermata la condanna loro inflitta in relazione al reato di cui all’art. 348 cod. pen. in qualità di responsabili del centro “omissis” di Frosinone.
2. Con il primo motivo dl ricorso si deduce violazione di legge penale ed omessa motivazione, anche in relazione alla valutazione delle prove, assumendo che i ricorrenti, titolari di un centro estetico, non avevano posto in essere atti tipici della professione di medico dietista, in quanto si limitavano a somministrare ai loro clienti consigli sullo stile di vita, e di natura alimentare, in assenza di qualsiasi prescrizione o esecuzione di esami diagnostici.
Anche volendo ricondurre tali attività tra quelle caratteristiche, e non tipiche, della professione medica mancherebbe per integrare il reato il requisito della modalità di esercizio in via continuativa e professionale.
Nella specie le condotte degli interessati non possedevano tali caratteristiche, né vi era stata esibizione di titoli o di insegne equivoche nei locali dove si esercitava l’attività.
Si rileva inoltre contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui ha preso atto della minore portata accusatoria delle dichiarazioni rese in dibattimento dal clienti rispetto a quanto dichiarato precedentemente, omettendo di dare conto, anche al solo fine di superarle, delle contrarie attestazioni contenute nella consulenza tecnica di parte, acquisita agli atti su istanza della difesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile, riproponendo eccezioni di fatto superate nelle pronunce di merito che risultano congruamente e logicamente motivate, e prive di elementi dl contraddittorietà.
2. In particolare nella valutazione delle prove,sono state sottoposte ad esame le dichiarazioni dei clienti del centro gestito dalla coppia, che hanno posto in evidenza il tipo di controlli cui erano sottoposti, nonché l consigli alimentari loro dispensati, dichiarazioni che hanno trovato chiara conferma nelle risultanze delle schede personali rinvenute nel locale ove per ciascuno di essi erano annotati tipologia, quantità e qualità nutrienti degli alimenti assunti.
Il complesso degli elementi cosi acquisiti ha condotto ad accertare lo svolgimento da parte degli odierni ricorrenti, rispettivamente commercialista naturopata e psicologa di attività quali: qualificazione dei bisogni nutritivi; verifica di corretta assunzione di alimenti; controllo su intolleranze alimentari, tipiche del medico chirurgo specializzato in scienze dell’alimentazione, azioni tutte precedute da anamnesi e richieste dl esami del sangue, che venivano poi interpretati dagli odierni ricorrenti e sulla base dei quali erano redatti i programmi alimentari.
Tali condotte, svolte in maniera sistematica sui clienti del centro gestito dai ricorrenti, evidenziano lo svolgimento della complessiva attività riservata a|l’esperto in scienza dell’alimentazione, e contraddicono in fatto l’allegata non continuità del compimento di atti, anche solo non tipici, ma meramente caratteristici dell’attività.
Sul punto le allegazioni difensive contenute in ricorso si limitano a riproporre la propria versione dei fatti, senza confrontarsi con le acquisizioni testimoniali e la documentazione raccolta nel corso del giudizio, la cui valutazione risulta nelle pronunce di merito esaustiva, coerente e priva di contraddizioni.
La mancata analisi della consulenza tecnica di ufficio prodotta nel corso del giudizio di primo grado, cui si era fatto richiamo in atto di appello, non vizia la sentenza d’appello, atteso che l’autonomia di tale accertamento rispetto al tema del decidere risulta già chiaramente tracciata nella sentenza di primo grado, e non superata dalle allegazioni difensive contenute nell’atto di impugnazione di merito, poiché è evidente l’ambito astratto, e riferito ad un diverso centro gestito dalla coppia nel quale si muoveva tal accertamento, a fronte delle diverse emergenze di fatto acquisire presso il centro sottoposto a controllo da parte degli inquirenti, le cui risultanze hanno dato origine al presente procedimento.
L’oggettivo vuoto motivazionale sul punto raggiunge pertanto un elemento di fatto di natura non dirimente, privo del caratteri di decisività per quanto già illustrato nella pronuncia di primo grado, e risulta inidoneo conseguentemente a viziare l’argomentazione contenuta nella pronuncia impugnata.
3. All’accertamento di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del grado e ciascuno della somma indicata in dispositivo in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di € 1.000 favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 28/02/2013.
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