CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 giugno 2013, n. 15010
Lavoro – Lavoro subordinato – Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro – Mansioni – Ius variandi del datore – Divieto di variazioni in peius.
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Napoli, F.C., premesso di essere dipendente delle Poste Italiane dal 1989 con inquadramento nella VI categoria di cui alla ex Amministrazione delle Poste poi confluita nell’area operativa del c.c.n.l. del 1994, di aver svolto fin dalla data di assunzione compiti di perito ed anche, dall’1/1/1997, funzioni di coordinamento del Gruppo tecnico operativo denominato E.T.M.; di aver subito, con il trasferimento disposto in data 2/1/1998 presso l’Agenzia S.C. di Eboli ed i successivi spostamenti presso altri sportelli nonché con l’affidamento di compiti meramente ripetitivi e del tutto elementari, un vero e proprio demansionamento, chiedeva la reintegra nelle precedenti mansioni svolte ed il risarcimento del danno. Il Tribunale, con sentenza del 27/10/2003 accoglieva la domanda e la decisione veniva confermata dalla Corte di appello di Napoli con decisione del 3 luglio 2008. Riteneva la Corte territoriale che l’istruttoria svolta in primo grado avesse confermato gli assunti attorei essendo emersa una chiara violazione del disposto di cui all’art. 2103 cod. civ.. Escludeva, poi, che rassegnazione del C. ai compiti di sportelleria fosse da mettere in relazione con la esternalizzazione del servizio di manutenzione ed assistenza svolto dal gruppo tecnico operativo denominato E.T.M., essendo quest’ultima avvenuta nel 1999 e dunque quando il demansionamento del lavoratore si era già verificato. Riteneva, poi, la piena legittimità dell’ordinanza istruttoria con la quale il Tribunale aveva dichiarato la società decaduta dai propri mezzi istruttori e non esercitabili, ex art. 437, comma secondo, cod. proc. civ., i poteri istruttori d’ufficio per sopperire ad una decadenza della parte. Quanto al danno, riteneva che nessuna censura la società avesse mosso alla decisione di prime cure secondo la quale l’assoluta disomogeneità delle mansioni di nuova assegnazione e la durata dell’inadempimento datoriale fossero elementi significativi della sussistenza di tale danno.
Riteneva, infine, corretta la quantificazione equitativa di tale danno come operata dal Tribunale.
Avverso questa pronunzia la Poste Italiane S.p.A. propone ricorso per cassazione, con quattro motivi.
Resiste l’intimato F.C. con controricorso illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società denuncia: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.)”. Lamenta che la Corte di appello non ha tenuto conto del fatto che era stato lo stesso C. a chiedere di essere trasferito dal gruppo E.T.M.. Evidenzia che tale circostanza era decisiva per comprendere come mai Poste Italiane avesse deciso una diversa applicazione del Costanzo ancor prima che la società E. assumesse in pienezza ed autonomia il servizio di manutenzione degli impianti di meccanizzazione.
2. Il motivo è infondato.
Si osserva, infatti, che anche una richiesta di trasferimento non giustifica l’assegnazione a mansioni inferiori, non integrando un preventivo assenso allo svolgimento di tali mansioni inferiori.
Peraltro, nello specifico, detta circostanza risulta oltremodo irrilevante sol che si consideri che la tesi datoriale, come si rileva dalla sentenza impugnata, è stata basata sull’avvenuta esternalizzazione del servizio di assistenza e manutenzione degli impianti di meccanizzazione postale e, dunque, su un fatto – che, a dire dell’azienda, imponeva la riorganizzazione – diverso rispetto a quello dal quale ora si pretende di far derivare argomenti a sostegno del preteso vizio motivazionale.
3. Con il secondo motivo la società denuncia: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia e con riguardo agli artt. 37, 41, 43 e 44 del c.c.n.l. Poste 26/11/2004 ed all’accordo integrativo del 23/5/1995 (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.)”. Si duole del fatto che la Corte territoriale, ritenendo le mansioni di nuova assegnazione, inferiori rispetto a quelle precedenti non abbia tenuto conto della circostanza che, per scelta delle parti contrattuali, vi erano stati gli accorpamenti delle precedenti categorie in aree, prevedendosi espressamente la fungibilità tra settori operativi anche in funzione di una maggiore crescita professionale e disponendosi espressamente che il personale addetto a mansioni tecniche potesse essere chiamato a svolgere mansioni di gestione.
4. Con il terzo motivo la società denuncia; “Omessa, insufficiente contraddittoria motivazione punti decisivi della controversia (art. 360, n. 5 cod. proc. civ.).”. Si duole della rilevanza attribuita dalla Corte partenopea ai compiti di coordinamento del gruppo di lavoro svolti dal C. prima del trasferimento presso la sportelleria ed evidenzia che tale coordinamento rientra nella declaratoria dell’area operativa ma non è elemento imprescindibile delle mansioni in essa contenute.
5. Il secondo e terzo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
In termini generali questa Corte ha più volte affermato che, in tema di riclassificazione del personale, la parte datoriale non può limitarsi ad affermare semplicemente la sussistenza di un’equivalenza convenzionale tra le mansioni svolte in precedenza e quelle assegnate a seguito dell’entrata in vigore della nuova classificazione, dovendo per contro procedere ad una ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine della salvaguardia, in concreto, del livello professionale acquisito, e di una effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità professionali del dipendente (ex multis, Cass. 11 novembre 2009, n. 23877).
E’ stato anche precisato che l’equivalenza delle mansioni – condizionante, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., la legittimità tanto dello ius varianti operato dal datore di lavoro quanto del riclassamento disposto dalla contrattazione collettiva -costituisce oggetto di un giudizio di fatto che deve essere dal giudice di merito operato volta per volta, incensurabile in cassazione (se sorretto da una motivazione logica, coerente e completa), e va verificata sia sotto il profilo oggettivo, cioè in relazione all’inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sotto il profilo soggettivo, cioè in relazione all’affinità professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono quanto meno armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto di lavoro, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi (cfr. in tal senso Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; id. 8 giugno 2009, n. 13173).
Con specifico riferimento alle vicende delle Poste Italiane, questa Corte ha già in passato evidenziato che il c.c.n.l. ha accorpato mansioni tra loro in precedenza diversificate in unica area operativa definita: “Attività esecutive e tecniche, con conoscenze specifiche, responsabilità personali e di gruppo, con contenuti professionali di parziale o media specializzazione” e comprendente i dipendenti che, impegnati direttamente nel business di base o in attività di supporto, svolgano mansioni – a contatto o meno con la clientela – presupponenti adeguata preparazione professionale con capacità di utilizzazione di strumenti semplici e complessi e richiedenti preparazione tecnico – professionale di parziale o media specializzazione e capacità di autonomia operativa nei limiti dei regolamenti di esecuzione.
Tale assetto contrattuale non ha sopito le controversie in materia di ius varianti e di dequalificazione. Poste Italiane ha sostenuto la piena fungibilità delle mansioni accorpate nella detta area; i lavoratori hanno sostenuto che, pur nell’ambito della stessa area, è inammissibile una dequalificazione in concreto.
Dopo qualche oscillazione, la giurisprudenza di questa Corte si è orientata nel senso favorevole alla tesi dei lavoratori (si veda Cass. 30 luglio 2004, n. 14666 secondo cui: “Con riguardo allo ius variandi del datore di lavoro, il divieto di variazioni in peius opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali. A tal fine l’indagine del giudice di merito deve essere volta a verificare i contenuti concreti dei compiti precedenti e di quelli nuovi onde formulare il giudizio di equivalenza, da fondare sul complesso della contrattazione collettiva e delle determinazioni aziendali. In particolare, le nuove mansioni possono considerarsi equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anzi di arricchire, il patrimonio professionale acquisito con lo svolgimento della precedente attività lavorativa, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze” – cfr. in senso conforme Cass. 11 aprile 2005, n. 7351 -). La tesi ha ricevuto definitiva conferma dalle Sezioni Unite con la sentenza del 24 novembre 2006, n. 25033 la quale ha stabilito che: “Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius varianti da parte del datore di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente”.
Ciò posto, nel caso di specie, la Corte territoriale non si è discostata dagli indicati principi mettendo a raffronto l’attività svolta dal Costanzo prima del provvedimento del 2/1/1998 – mansioni di controllo e manutenzione di complessi impianti di smistamento della posta, diagnosi e riparazione dei guasti e, nel periodo di lavoro a Salerno, anche compiti di coordinamento e controllo del gruppo E.T.M. e di verifica della corretta esecuzione dei lavori affidati – con quella successivamente spiegata – semplici compiti di sportello e mansioni meramente ripetitive richiedenti elementari cognizioni tecniche con sottrazione di ogni funzione di coordinamento e controllo di altro personale – e pervenendo alla conclusione della concreta dequalificazione, sul piano fattuale, del predetto lavoratore in violazione del disposto dell’art. 2103 cod. civ., sotto il profilo che lo svolgimento di attività semplici e meramente ripetitive determinasse l’impossibilità per il dipendente di utilizzare le pregresse capacità professionali ed, eventualmente, di accrescerle, ma anzi importasse necessariamente la progressiva perdita delle capacità già acquisite nei precedenti incarichi.
La Corte territoriale, pertanto, lungi dall’effettuare una ipervalutazione delle mansioni di coordinamento svolte dal lavoratore, ha congniamente motivato, esplicitando le ragioni in base alle quali i nuovi compiti del C. (relativamente all’assegnazione dei quali, peraltro, non risulta dedotta in giudizio alcuna extrema ratio) dovessero ritenersi riduttivi rispetto ai precedenti e non consentissero allo stesso un accrescimento del patrimonio professionale. Di conseguenza, va esclusa la sindacabilità, in sede di legittimità, di tale valutazione dei fatti accertati dal Giudice del gravame in maniera adeguata e con motivazione priva di vizi logici e giuridici.
6. Sulla base delle esposte considerazioni, nelle quali tutte le altre eccezioni o obiezioni devono considerarsi assorbite, in conclusione, il ricorso va rigettato.
7. Per il criterio legale della soccombenza la società ricorrente va condannata al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come in dispositivo tenendo conto del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (che, all’art. 41 stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012) ed avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell’art. 4 del D.M. e delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore di F.C., delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 50,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge, da corrispondersi all’avv. G.R., antistatario.
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