Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. unico della legge 340/1976 e dell’art. 6 della legge 404/1977, dell’art. 2230 c.c. e degli artt., 1362 e 1364 c.c. e il vizio di motivazione.
I ricorrenti sostengono:
– che i principi richiamati dalla Corte di Appello non sarebbero applicabili se il committente è un privato per il quale invece opererebbe il divieto di derogare ai minimi tariffari di cui alla L. 404/1977;
– che la previsione di una prestazione professionale gratuita sarebbe nulla qualora non fosse espressione diretta e immediata della volontà del professionista di rinunciare ai propri compensi e tale rinuncia espressa non potrebbe rinvenirsi nella previsione contrattuale contenuta nella scrittura privata richiamata dalla Corte di Appello nella quale, invece non si sarebbe inteso sottoporre a condizione il diritto al compenso del professionista;
Formulando il quesito ex art. 366 bis c.p.c. (attualmente abrogato, ma applicabile ratione temporis) chiede se la clausola contrattuale che condizioni il pagamento del compenso per la prestazione del professionista architetto o ingegnere al verificarsi di un evento futuro e incerto sia sempre valida ed efficace a prescindere alla natura del committente quale privato o pubblica amministrazione, ovvero ai sensi dell’articolo unico della L. 5/5/1976 n. 340 come interpretato in via autentica dall’art. 6 della L. 1/7/1977 n. 404, che sancisce l’inderogabilità dei minimi della tariffa professionale di ingegneri e architetti, sia valida ed efficace unicamente nell’ambito del rapporto professionale tra professionista privato e committente pubblica amministrazione.
1.1 Il motivo è infondato e al quesito occorre rispondere affermando che la clausola che condiziona il compenso del professionista ingegnere o architetto ad un evento futuro e incerto non è affetta da nullità anche se la prestazione professionale è resa ad un soggetto privato.
A questa conclusione si giunge alla luce dei principi espressi da questa Corte a sezioni unite (Cass. SS.UU. 19/9/2005 n. 18450), che, pur applicati in una fattispecie nella quale il committente era una pubblica amministrazione, sono pienamente applicabili anche nel caso in cui il committente sia un soggetto privato. Occorre premettere che l’articolo unico della legge n. 340 del 1976 stabiliva che “I minimi di tariffa per gli onorari a vacazione, a percentuale ed a quantità, fissati dalla legge 2 marzo 1949, n.143, o stabiliti secondo il disposto della presente legge, sono inderogabili. L’inderogabilità non si applica agli onorari a discrezione per le prestazioni di cui ali ‘articolo 5 del testo unico approvato con la citata legge 2 marzo 1949, n. 143.’
L’art. 6 L. 404 del 1977 ha poi stabilito che ‘L’articolo unico della legge 5 maggio 1976, n. 340, deve intendersi applicabile esclusivamente ai rapporti intercorrenti tra privati’.
Peraltro nel richiamato precedente di questa Corte a sezioni unite, con riferimento alla specifica problematica della condizione sospensiva che condiziona il diritto al compenso del professionista, in motivazione ha affermato i seguenti principi:
a) le parti di un rapporto contrattuale ben possono prevedere, nell’esercizio dell’autonomia privata, che l’efficacia di un’obbligazione nascente dal contratto resti condizionata, in senso sospensivo o risolutivo, ad un evento futuro ed incerto (artt. 1322 – 1353 c.c.).
b) tale principio deve trovare applicazione anche con riguardo alla specifica clausola contrattuale volta a condizionare il diritto al compenso, spettante al professionista (nella specie era condizionato al finanziamento di un’opera pubblica);
c) nella disciplina delle professioni intellettuali il contratto costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso, mentre la relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è dato ricorrere, ai sensi dell’art. 2233 c.c. soltanto in assenza di pattuizioni al riguardo e pertanto le limitazioni al potere di autonomia delle parti e la prevalenza della liquidazione in base a tariffa possono derivare soltanto da leggi formali o da altri atti aventi forza di legge riguardanti gli ordinamenti professionali;
d) il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva resistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe;
e) nella normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullità eventuali clausole in deroga alle tariffe e, sul piano logico, le norme sull’inderogabilità dei minimi tariffari sono contemplate non a tutela di un interesse generale della collettività ma di un interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio non è configurabile – in difetto di un’espressa previsione normativa in tal senso – il ricorso alla sanzione della nullità, dettata per tutelare la violazione d’interessi generali.
f) il principio d’inderogabilità è diretto ad evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignità della professione (sicché la sua violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi.
g) queste considerazioni risultano ancor più valide quando il diritto al compenso vantato dal professionista non forma oggetto di una rinunzia espressa già in sede di stipula del contratto col quale l’incarico professionale è affidato, ma con apposita clausola viene condizionato inserendosi quindi nel complessivo assetto d’interessi perseguito dalle parti col negozio posto in essere.
h) in tali casi non può neppure affermarsi che le parti abbiano voluto un negozio a titolo gratuito. Il contratto d’opera professionale resta (normalmente) oneroso, ma in esso è introdotto per volontà dei contraenti un elemento ulteriore, cioè un evento che condiziona il pagamento del compenso al finanziamento dell’opera, in assenza del quale quest’ultima non può essere eseguita.
In conclusione, dal principio di inderogabilità della tariffa professionale non deriva la nullità (non prevista) della clausola, liberamente pattuita, che condiziona il pagamento al verificarsi di una condizione.
Questi principi sono stati anche di recente ribaditi da Cass. 5/10/2009 n. 21235 con la quale si è affermato che il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa ed adeguato all’importanza dell’opera solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l’art. 2233 cod. civ. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di quest’ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non operano i criteri di cui all’art. 36, primo comma, Cost., applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato. La violazione dei precetti normativi che impongono l’inderogabilità dei minimi tariffari (quale, per gli ingegneri ed architetti, quello contenuto nella legge 5 maggio 1976, n. 340) non importa la nullità, ex art. 1418, primo comma, cod. civ., del patto in deroga, in quanto trattasi di precetti non riferibili ad un interesse generale, cioè dell’intera collettività, ma solo ad un interesse della categoria professionale (in senso conforme, Cass. 11/8/2011 n. 17222).
2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 1353 e 1184 c.c. e degli artt. 1362 e 1364 c.c. e il vizio di motivazione.
I ricorrenti lamentano l’erronea interpretazione dell’accordo espresso con la frase ‘Prog. architettonico 320 milioni a 30 gg. dalla concessione edilizia’ perché non introdurrebbe una condizione, ma si limiterebbe a regolare il tempo dell’adempimento e ciò risulterebbe dal tenore letterale della clausola. Formulando il quesito ex art. 366 bis c.p.c. i ricorrenti chiedono se la clausola contrattuale con la quale i contraenti contemplando un evento futuro e incerto abbiano ad esso correlato non l’efficacia del vincolo, ma soltanto il tempo dell’adempimento di una determinata prestazione, sia da qualificarsi come condizione sospensiva della nascita del diritto di credito in capo al creditore con conseguente applicabilità degli artt. 1353 e ss. c.c., ovvero sia qualificabile come modalità temporale dell’adempimento con la conseguente applicabilità della disciplina sul tempo dell’adempimento e con l’ulteriore conseguenza che il termine per l’adempimento debba ritenersi maturato con il verificarsi dell’evento o con la sopravvenuta impossibilità dell’evento.
2.1 Occorre premettere che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., o di motivazione inadeguata ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d1interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. n. 22536 del 2007; Cass. n. 10554 del 2010).
La giurisprudenza richiamata dai ricorrenti effettivamente afferma che qualora i contraenti, contemplando un evento futuro (nella specie, approvazione di un progetto di costruzione da parte dell’autorità competente), abbiano ad esso correlato non l’efficacia del vincolo negoziale, ma soltanto il tempo dell’adempimento di una determinata prestazione (pagamento del compenso al professionista autore del progetto), resta esclusa l’invocabilità dei principi inerenti alla condizione od al termine, quali elementi accidentali del negozio incidenti sulla sua efficacia, e rimane applicabile la disciplina sul tempo dell’adempimento, di cui agli artt. 1183 e segg. c.c., con la conseguenza che il termine per l’adempimento medesimo deve ritenersi maturato sia con il verificarsi dello evento, sia con la definitiva impossibilità del suo verificarsi (nella specie, diniego di detta approvazione), ove la volontà delle parti, alla stregua del loro indicato atteggiamento, vada intesa nel senso dell’equiparazione dell’una e dell’altra situazione (Cass. 24/7/1985 n. 4339 e nello stesso senso Cass. 9/8/2011 n. 17125).
Ma proprio la ricerca della comune volontà delle parti deve portare a individuare la previsione di un termine di adempimento piuttosto che la previsione di una condizione alla quale resta subordinato il pagamento del compenso.
La Corte territoriale, nell’interpretare la clausola ha valorizzato e ritenuto prevalente l’incertezza dell’evento futuro a partire dal quale si stabiliva il termine dilatorio per il pagamento e ha fornito una interpretazione che non appare incompatibile con il tenore letterale della clausola, attesa la sua estrema sinteticità; tale interpretazione, inoltre, non contrasta con i canoni della ragionevolezza ove si consideri che la Corte territoriale ha dato inoltre spiegazione della ragione per la quale gli architetti erano indotti a concordare un compenso esposto al rischio della mancata concessione edilizia, trattandosi di rischio calcolato, tenuto conto dei vantaggi connessi a prospettive di ulteriori e proficue occasioni di lavoro (pag. 8 della sentenza) e dell’ammontare del compenso pattuito per le ulteriori fasi di lavoro (pag. 7 della sentenza).
Questi elementi di fatto, sui quali si è fondata la decisione non sono stati attinti dal motivo che pertanto deve essere rigettato.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono il vizio di motivazione in quanto la Corte di Appello ha fondato la propria decisione sul presupposto che la scrittura informale fosse firmata da tutti e tre gli architetti, mentre era firmata solo dall’architetto J.A. .
3.1 Il motivo è inammissibile. Infatti l’avere ritenuto, contrariamente al vero che la scrittura, prodotta in atti, fosse stata sottoscritta da tutti e tre gli attori invece che da uno soltanto si risolve in una doglianza di travisamento del fatto. In proposito va rilevato che il travisamento del fatto non può costituire motivo di ricorso per cassazione, poiché, risolvendosi in un’inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento (non solo con riferimento alla clausola, ma anche con riferimento all’esistenza di un contratto di prestazione di opera con gli altri due soggetti che non lo avrebbero sottoscritto), in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass. 15/5/1997, n. 4310; Cass. 2/5/1996, n. 4018).
4. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese liquidate come in dispositivo a favore di SIME; non v’è luogo a provvedere sulle spese nei confronti dell’Arciconfraternita che non ha svolto difese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna R..C. , J.A. e D..M. a pagare alla SIME Costruzioni s.r.l. le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 4.500 per compenso oltre Euro 200,00 per esborsi.
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