CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 giugno 2013, n. 15926
Lavoro subordinato – Estinzione del rapporto – Licenziamento per giusta causa – Regalo al dipendente proveniente dal fornitore – Mancata comunicazione agli organi di vigilanza del datore – Proporzionalità della sanzione
Svolgimento del processo
1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 15 aprile 2009) – in accoglimento di F. G. A. s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Torino n. 3092 del 22 settembre 2008 – respinge le domande proposte da P. S. con il ricorso introduttivo del giudizio.
La Corte d’appello di Torino, per quel che qui interessa, precisa che:
a) al S. è stato intimato il licenziamento per avere ricevuto in omaggio da un fornitore un’agenda contenente al suo interno cinque buoni di benzina per un valore complessivo di 50 euro, in violazione del codice etico;
b) il fatto contestato è stato scoperto a distanza di tempo in seguito ad una indagine riguardante i comportamenti di numerosi dipendenti, la quale ovviamente “ha richiesto i tempi necessari per addivenire al possesso di tutti gli elementi” atti a contestare le diverse condotte, come ha osservato la società;
c) diversamente da quanto ritenuto dal Giudice di primo grado, la suddetta condotta è da ritenere di per sé violativa non solo del dovere di diligenza (art. 2104 cod. civ.), ma anche del dovere di fedeltà (art. 2105 cod. civ.) che incombono sul lavoratore e quindi idonea a ledere irreparabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro;
d) come risulta dalle produzioni documentali e non è contestato, il lavoratore era impiegato di VI livello col ruolo di Specialista di Gestione Iniziative dell’Ente Ingegneria di Produzione e si occupava della preparazione dei progetti di disinvestimento macchinari e attrezzature;
e) il S. aveva, quindi, contatti abituali con i trasportatori e i fornitori, come la P. s.p.a.;
f) è pertanto evidente che la ricezione di un regalo non consentito dalla P., senza averlo segnalato ai superiori, anche per le modalità dell’erogazione e la natura dell’oggetto (facilmente occultabile), a prescindere dal modesto valore economico, deve considerarsi lesivo della fiducia riposta nel lavoratore da parte del datore di lavoro, tenuto conto delle mansioni da questi svolte, caratterizzate da un margine di relativa discrezionalità e dì autonomia nell’indicazione dei fornitori;
g) si tratta della violazione di doveri di facile comprensione riconducibili all’esigenza di evitare l’insorgenza di conflitti di interesse e che, come tali, non richiedono la predisposizione di norme particolari come il codice etico;
h) comunque, quello contestato è un comportamento espressamente vietato e inoltre si deve tenere conto della giurisprudenza di legittimità secondo cui la violazione dei dovere di fedeltà deve essere valutata anche alla luce del disvalore ambientale che essa assume in virtù della posizione professionale del lavoratore e del potenziale carattere diseducativo del suo comportamento per gli altri dipendenti.
2.- Il ricorso di P. S. domanda la cassazione della sentenza per sei motivi; resiste, con controricorso, F. G. A. s.p.a.
Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
I – Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. in riferimento agli artt. 156 e ss. cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla intempestività della contestazione disciplinare.
A corredo del motivo si formula un quesito di diritto nel quale si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe nulla perché affetta dal vizio di omessa o insufficiente motivazione su una circostanza decisiva, rappresentata dalla tempestività della contestazione disciplinare,
Il ricorrente rileva, in particolare, che, sul punto, la Corte territoriale si è limitata – con “tautologica affermazione” – a precisare che il tempo intercorso tra la commissione del fatto e la contestazione è dipeso dalla necessità di effettuare un’indagine relativa a numerosi dipendenti che ha “ovviamente richiesto i tempi necessari per addivenire al possesso di tutti gli elementi atti a contestare le condotte”.
Il ricorrente soggiunge che la contestazione è stata effettuata circa un anno dopo il fatto e che la F. G. non ha dato alcuna giustificazione al riguardo, mentre un ritardo cosi ampio non può essere giustificato di per sé, come sembra ipotizzare la Corte territoriale, solo per la pretesa riferibilità degli addebiti a più soggetti.
2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e dell’art. 23 CCNL Metalmeccanici.
A corredo del motivo si formula un quesito di diritto nel quale si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe nulla perché avrebbe violato le suindicate norme le quali – a tutela del lavoratore incolpato -prescrivono che tra i fatti e la contestazione disciplinare vi sia un vincolo di immediatezza e che il datore di lavoro abbia lo specifico onere di dimostrare le ragioni che hanno determinato l’eventuale ritardo della contestazione.
3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalladescrizione delle mansioni del S. ai fini della rilevanza dei comportamenti posti a base del licenziamento.
Si sostiene che la Corte torinese ha affermato la natura incontestata delle mansioni del lavoratore, mentre in realtà si è limitata a fare propria la descrizione effettuata dalla F. G. senza svolgere alcuna compiuta istruttoria al riguardo, specialmente sul punto relativo “ai contatti abituali con i trasportatori ed i fornitori tra i quali P. s.p.a,”, che è stato da subito contestato e non ha trovato alcun riscontro probatorio.
D’altra parte, l’analisi soggettiva ed oggettiva dei fatti ha portato ad escludere qualsiasi condotta di favoritismo che potesse arrecare pregiudizio alla società, la quale non ha offerto alcuna prova testimoniale o documentale al riguardo.
In questo quadro la sanzione espulsiva non poteva non considerarsi sproporzionata, come affermato nella sentenza di primo grado.
4.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla pretesa gravità della condotta.
Con il quinto motivo, sempre in relazione alla pretesa gravità della condotta, si sostiene, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., che l’affermazione della sussistenza della giusta causa del licenziamento sia avvenuta con violazione e falsa applicazione delle norme di diritto o di contratti o accordi collettivi che sanciscono il principio di proporzionalità tra fatto e sanzione disciplinare.
Si rileva che – tanto più “a fronte di una condotta neppure tipizzata nel CCNL Metalmeccanici e nel codice disciplinare e, anzi, ontologicamente difforme da quelle ivi tipizzate” -la Corte d’appello ha ritenuto che la mancata segnalazione ai superiori del regalo ricevuto abbia leso irreparabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, senza fare alcun riferimento alla contrattazione collettiva e senza considerare che l’interessato, nel ricorso introduttivo del giudizio, ha precisato che la consegna del dono (un’agenda contenente al suo interno buoni benzina per un valore di euro 50) era avvenuta nei locali di lavoro e aveva coinvolto tutto il team del ricorrente e che, in particolare, il superiore in grado era a conoscenza dell’episodio.
Si aggiunge che l’unica censura che può essere mossa al S. è quella della violazione delle disposizioni aziendali del codice etico per la mancata comunicazione al “Compliance Officer/Organismo di vigilanza”.
Peraltro, essendo quello di cui si tratta un episodio isolato, la sanzione espulsiva è da considerare senz’altro eccessiva soprattutto nei confronti di un dipendente che in oltre 30 anni di lavoro non ha ricevuto alcuna sanzione.
5- Con il sesto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalla pubblicazione del codice disciplinare, con particolare riferimento alla condotta contestata.
Si rileva che – nonostante una specifica doglianza del lavoratore e una generica difesa sul punto della società – la Corte torinese non ha motivato sul rispetto delle garanzie formali di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, con particolare riguardo all’onere di affissione del codice disciplinare e alla riconducibilità allo stesso della condotta oggetto della contestazione.
II – Esame delle censure
6.- I primi due motivi di ricorso – da trattare congiuntamente perché connessi – sono inammissibili.
Entrambi i motivi si riferiscono, con diversa prospettazione, alla questione della intempestività della contestazione disciplinare in oggetto e fanno riferimento al passo della motivazione nel quale la Corte torinese ha precisato che il fatto contestato è stato scoperto a distanza di tempo in seguito ad una indagine riguardante i comportamenti di numerosi dipendenti, la quale ovviamente “ha richiesto i tempi necessari per addivenire al possesso di tutti gli elementi” atti a contestare le diverse condotte, come ha osservato la società.
II ricorrente sostiene che la sentenza sarebbe “nulla” perché: 1) viziata da “omessa o insufficiente motivazione sul punto suindicato (primo motivo); 2) si porrebbe in contrasto con il principio di tempestività della contestazione di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 e all’art. 23 CCNL cit., che “postula un vincolo di immediatezza tra fatti e contestazione ovvero uno specifico onere probatorio in capo al datore di lavoro” (secondo motivo).
6.1.- Dal punto di vista dell’impostazione delle censure, va ricordato che, secondo consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:
a) sulla base del combinato disposto degli artt. 156, secondo comma, 161, secondo comma, e 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., nonché dell’art. 118, primo comma, disp. art. cod. proc. civ. la sentenza può considerarsi radicalmente nulla solo quando è assolutamente inidonea al raggiungimento dello proprio scopo, che è quello di costituire tra le parti un accertamento potenzialmente definitivo relativo al caso concreto dedotto in giudizio (vedi, per tutte: Cass. 27 marzo 2007, n. 7516; Cass. 27 gennaio 2006, n. 1729);
b) ai fini del rapporto tra le istanze delle parti e la pronuncia del giudice, agli effetti dell’art. 112 cod. proc. civ,, si devono distinguere due diversi tipi di vizi: 1) la nullità della sentenza per error in procedendo, censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., ove il giudice del merito abbia omesso del tutto di pronunciarsi su una domanda od un’eccezione ritualmente proposta; 2) il vizio di motivazione, censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., laddove, invece, il giudice si sia pronunciato sulla domanda o sull’eccezione, ma senza prendere in esame una o più delle questioni giuridiche sottoposte al suo esame nell’ambito di quella domanda o di quell’eccezione (tra le tante: Cass. 11 maggio 2012, n. 7268);
c) di regola, nel giudizio di cassazione, è contraddittoria la contestuale denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e ciò comporta l’inammissibilità del motivo di ricorso (ex multisi Cass. 15 luglio 2007, n. 15882);
d) tale contraddittorietà può venire meno (e con essa l’inammissibilità del motivo di ricorso) solo laddove non possa ragionevolmente stabilirsi se la sentenza impugnata abbia o meno esaminato la censura mossa dalla parte e, di conseguenza, non possa stabilirsi se l’abbia rigettata con una motivazione carente ovvero l’abbia del tutto trascurata (Cass. 11 novembre 2008, n. 27009);
e) è, viceversa, ammissibile la denunzia, in un unico articolato motivo d’impugnazione, ovvero in motivi separati, dei vizi di violazione di legge e di motivazione, riferiti al medesimo fatto controverso in ordine al quale si assume che vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto (Cass. SU 31 marzo 2009, n. 7770; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698);
f) in linea generale, l’erronea sussunzione nell’uno piuttosto che nell’altro motivo di ricorso del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, comporta l’inammissibilità del ricorso (Cass. 11 maggio 2012, n. 7268).
6.2.- Dai suddetti principi si desume, in primo luogo, l’assoluta ultroneità del riferimento al vizio di “nullità” della sentenza, impropriamente configurato come derivabile da vizi di motivazione (nel primo motivo) o da violazione di norme di legge e/o della contrattazione collettiva (nel secondo motivo).
Va, però, precisato che tale richiamo erroneo assume una valenza negativa maggiormente significativa solo con riguardo al primo motivo nel quale – a partire dalla rubrica, contenente un espresso rinvio agli artt. 156 e ss. cod. proc. civ., “in relazione” all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ- i suddetti due distinti vizi, vengono prospettati, addirittura in combinazione, in riferimento al medesimo inconveniente denunciato.
Ciò non si verifica, invece, per il secondo motivo che – al pari di tutti gli altri motivi del ricorso – contiene un riferimento improprio alla “nullità” della sentenza soltanto nel relativo quesito di diritto, senza che sia rinvenibile la medesima contraddizione – logico-giuridica – nella rubrica e nella argomentazione del motivo, cui va data la prevalenza in base al principio di conservazione degli atti.
6.3.- Alla suddetta considerazione va aggiunto, per quel che riguarda il secondo motivo, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte che il Collegio condivide, nel giudizio relativo all’impugnazione del licenziamento disciplinare la deduzione, da parte del lavoratore ricorrente, della tardiva contestazione degli addebiti e la non immediatezza della sanzione integra una domanda specifica, fondata su elementi e circostanze diverse rispetto alla domanda di impugnazione del recesso datoriale nel merito. Tale domanda, pertanto, deve essere formulata fin dal ricorso introduttivo del giudizio e non può essere, invece, avanzata per la prima volta in appello, perché determinerebbe la, non consentita, introduzione nel processo di un nuovo tema di indagine che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, quali delineati nel ricorso introduttivo del giudizio (vedi, tra le altre: Cass. 16 aprile 1999, n. 3810; Cass. 3 luglio 2003, n. 11699; Cass. 12 giugno 2008, n. 15795; Cass. 9 marzo 2011, n. 5555).
Ne consegue che il S. avrebbe dovuto – in ossequio al principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – dimostrare di avere ritualmente prospettato la questione dell’immediatezza della contestazione disciplinare.
Invece nel ricorso non vi è alcun elemento idoneo a considerare tale onere assolto e neppure nella memoria depositata in prossimità dell’udienza tale aspetto viene chiarito, nonostante gli specifici rilievi formulati al riguardo dalla F. G. A., fin dal controricorso.
7.- Per ragioni analoghe a quelle da ultimo esposte è inammissibile anche il terzo motivo.
Con tale motivo, come si è detto, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe nulla per omessa o insufficiente motivazione circa la descrizione delle mansioni del S. ai fini della rilevanza dei comportamenti posti a base del licenziamento, per avere la Corte torinese affermato apoditticamente la natura “incontestata” delle mansioni del lavoratore, mentre in realtà tale asserzione deriverebbe dalla acritica adesione del Giudice di appello alla descrizione delle mansioni effettuata dalla F. G., non supportata dallo svolgimento di alcuna compiuta istruttoria al riguardo, specialmente sul punto relativo “ai contatti abituali con i trasportatori ed i fornitori tra i quali P. s.p.a.”, che è stato da subito contestato e non avrebbe trovato alcun riscontro probatorio.
Va ricordato al riguardo che per “diritto vivente”:
a) ai fini dell’adeguata motivazione della sentenza, secondo le indicazioni desumibili dal combinato disposto dagli artt. 132, secondo comma, n. 4, 115 e 116 cod. proc. civ., e necessario che il raggiunto convincimento del giudice risulti da un esame logico e coerente di quelle che, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo, mentre non si deve dar conto dell’esito dell’esame di tutte le prove prospettate o comunque acquisite (Cass. 4 marzo 2011, n. 5241; Cass. 27 luglio 2006, n. 17145);
b) comunque, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicché la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).
D’altra parte, è altrettanto pacifico che, nel giudizio relativo all’impugnativa del licenziamento per giusta causa, l’individuazione delle mansioni del lavoratore è uno degli elementi che il Giudice del merito è chiamato a considerare al fine di stabilire se la mancanza del lavoratore sia stata tanto grave da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva, nell’ambito della completa valutazione del comportamento del prestatore, in tutti i suoi aspetti.
Ne deriva – a fronte di una motivazione che sul punto appare plausibile – l’attuale ricorrente avrebbe dovuto – in ossequio all’anzidetto principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – offrire a questa Corte specifici elementi per consentire di verificare la sussistenza del vizio denunciato, mentre ciò non è avvenuto.
8.- Il quarto e il quinto motivo – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono, invece, da accogliere, per le ragioni di seguito precisate.
Con tali motivi si contesta la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte torinese – con motivazione insufficiente e contraddittoria – ha ritenuto che il comportamento contestato al S. -consistente dell’avere ricevuto, in occasione delle festività natalizie, in omaggio da un fornitore della F. (la P. s.p.a.) un’agenda contenente al suo interno cinque buoni di benzina per un valore complessivo di 50 euro – sia stato idoneo di per sé a ledere irreparabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, in considerazione della mancata segnalazione del fatto ai superiori, delle modalità dell’erogazione del regalo, della natura dell’oggetto (facilmente occultabile), nonché del disvalore ambientale da ascrivere alla condotta stessa in virtù della posizione professionale del lavoratore e del potenziale carattere diseducativo del suo comportamento per gli altri dipendenti a prescindere dal modesto valore economico del dono.
8.1.- Va ricordato, al riguardo, che secondo costanti e condivisi orientamenti di questa Corte:
a) ai fini vagliare la sussistenza della giusta causa del licenziamento – cioè di una mancanza del lavoratore tanto grave da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva – il giudice del merito deve effettuare la valutazione – istituzionalmente demandatagli – sulla base del complessivo comportamento del prestatore, da esaminare sia nel suo contenuto oggettivo – ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate – sia nella sua portata soggettiva, e, quindi, con riferimento alte particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, agli effetti e all’intensità dell’elemento volitivo dell’agente (tra le tante: Cass. 1 marzo 2011, n. 5019; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2720);
b) in particolare, nel giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione del licenziamento per giusta causa all’illecito commesso – da effettuare sulla base della valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in tutti i suoi connotati oggettivi e soggettivi – si deve tenere conto del fatto che, a tutela del lavoratore, il suo inadempimento deve essere vagliato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (vedi, tra le tante: Cass. 14 gennaio 2003, n. 444; Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743; Cass. 24 luglio 2006, n. 16864; Cass. 25 febbraio 2005, n. 3994; Cass. 22 marzo 2010, n. 6848);
c) in materia di licenziamento disciplinare, ai fini della configurabìlità della violazione da parte del dipendente del dovere di diligenza, di cui all’art. 2104 cod. civ., è necessaria una specifica allegazione e valutazione (Cass. 7 aprile 2004, n. 6813; Cass. 14 marzo 1995, n. 2951), che può essere implicita solo in presenza di comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, come quei comportamenti per i quali non è necessaria la specifica inclusione nel codice disciplinare aziendale, in quanto per essi il potere sanzionatorio datoriale -che può tradursi anche nell’intimazione del recesso per giusta causa o giustificato motivo soggettivo – deriva direttamente dalla legge (Cass. 23 agosto 2006, n. 18377; Cass. 18 giugno 1996, n. 5583; Cass. 18 settembre 2009, n. 20270; Cass. 14 settembre 2009, n. 19770);
d) il dovere di fedeltà, sancito dall’art. 2105 cod. civ., si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi. Nell’ipotesi di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per assunta violazione del suddetto dovere di fedeltà, di regola, incombe al datore di lavoro l’onere di riscontrare rigorosamente i comportamenti attraverso i quali si sarebbe realizzata l’infedeltà del dipendente e, pertanto, la gravità della condotta di inaffidabilità tale da legittimare la sanzione del licenziamento (Cass. 19 aprile 2006, n. 9056; Cass. 29 novembre 2012, n. 21253);
e) ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l’assenza (o la modesta entità) di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro è irrilevante solo ove il comportamento tenuto dal lavoratore abbia determinato il venir meno del requisito della fiducia, cioè se ne sia accertata la idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto sintomatico di un certo atteggiarsi del lavoratore stesso rispetto agli obblighi assunti (vedi, tra le tante: Cass. 14 marzo 1997, n. 4212; Cass. 16 settembre 2002, n. 13536; Cass. 7 aprile 2003, n. 5434);
f) d’altra parte, il “disvalore ambientale” che la condotta del lavoratore licenziato per giusta causa può assumere, in riferimento alla violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà, è rinvenibile solo nell’ipotesi in cui, in virtù della posizione professionale rivestita dal lavoratore stesso nell’ambito dell’impresa, il suo comportamento possa assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi (Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208), il che comunque presuppone che si tratti di un comportamento connotato dall’idoneità a minare irreparabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.
8.2.- La Corte d’appello di Torino si è discostata dai suindicati principi e ciò rileva in questa sede.
Infatti, per “diritto vivente”, “l’operazione valutativa compiuta dal giudice del merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119, cod. civ. che, in tema di licenziamento reca una “norma elastica”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, che esige il rispetto di criteri e principi ricavabili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali sino alla disciplina particolare (anche stabilita dai contratti collettivi), in cui si colloca la fattispecie. In particolare, l’operazione valutativa non è censurabile, se il giudice di merito abbia applicato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell’interesse del lavoratore,tutelato dall’art. 4, Cost, con l’interesse del datore di lavoro, tutelato dall’art. 41, Cost., bilanciamento che, in materia di licenziamento disciplinare, si riassume nel criterio dettato dall’art. 2106, cod. civ., della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all’infrazione contestata, conformandosi altresì agli ulteriori standard valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale” (vedi, per tutte: Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208).
Ora, la Corte territoriale, ha effettuato la valutazione – istituzionalmente demandatagli -della condotta addebitata al lavoratore ai fini del licenziamento per giusta causa senza prendere adeguatamente in considerazione il complessivo comportamento del prestatore di lavoro sia nel suo contenuto oggettivo sia nella sua portata soggettiva e senza, conseguentemente, motivare in modo adeguato e corretto la propria decisione sulla ritenuta idoneità del comportamento stesso a giustificare la massima sanzione espulsiva.
In particolare, la Corte torinese:
1) ha affermato, in modo apodittico, che la suddetta condotta sia da ritenere di per sé violativa non solo del dovere di diligenza (art. 2104 cod. civ.), ma anche del dovere di fedeltà (art. 2105 cod. civ.) che incombono sul lavoratore e quindi idonea a ledere irreparabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro;
2) non ha adeguatamente contestualizzato il fatto, in quanto ha posto in rilievo le modalità dell’erogazione (buoni benzina “nascosti” in una agenda) e la natura dell’oggetto (“facilmente occultabile”), mentre ha considerato recessiva la circostanza che si trattasse di un dono natalizio, che la stessa società P., come altre società fornitrici, era solita fare a funzionari e dirigenti della F. (come risulta dalla stessa sentenza) all’interno degli stabilimenti e quindi “alla luce del sole”, come avvenuto anche nella specie, tra l’altro, per tutto il team del S.;
3) a tale ultimo riguardo, la Corte territoriale ha attribuito rilievo determinante alle “dimensioni” del dono – in confronto con “panettoni e bottiglie di spumante”, regalati ad altri dipendenti – senza considerare che un simile argomento avrebbe potuto essere utilizzato ove il regalo di piccole dimensioni fosse stato realmente prezioso, mentre appare del tutto improprio nella specie, visto che il valore del regalo fatto al S. non è dissimile a quello dei doni “più ingombranti”, genericamente richiamati dalla Corte territoriale (senza indicazioni di marche e/o prezzi);
4) quanto alla posizione del S. nell’azienda, la Corte territoriale ha sottolineato che il lavoratore – essendo impiegato di VI livello col ruolo di Specialista di Gestione Iniziative dell’Ente Ingegneria di Produzione e occupandosi della preparazione dei progetti di disinvestimento macchinari e attrezzature – si trovava “ai massimi livelli della categoria impiegatizia” e “godeva di un margine di relativa discrezionalità e di autonomia nella indicazione dei fornitori” – come la P. s.p.a. – e nella valutazione del loro operato;
5) la Corte, però, non ha posto in rilievo che: a) in oltre trenta anni di lavoro alle dipendenze della F. il S. non ha ricevuto alcuna sanzione, come risulta anche dall’attuale ricorso e non è contestato dalla controricorrente; b) il margine di discrezionalità riconosciuto al lavoratore era solo “relativo”; e) comunque – proprio nella prospettiva adottata dalla Corte torinese di attribuire al S. una notevole autonomia (peraltro del tutto sfornita di adeguata giustificazione), con corrispondente percezione di un adeguato trattamento retributivo – il valore venale del dono avrebbe dovuto considerarsi del tutto inidoneo a ingenerare il “sospetto di tendere a realizzare una captatio benevolentiae quanto meno imbarazzante”.
Le anzidette erronee premesse hanno portato la Corte territoriale ad affermare – sempre in contrasto con i su riportati principi – che: a) la ricezione di un regalo non consentito dalla P., senza averlo indicato ai superiori, a prescindere dal modesto valore economico, deve considerarsi lesivo della fiducia riposta nel lavoratore da parte del datore di lavoro, tenuto conto delle mansioni da questi svolte, trattandosi della violazione di doveri di facile comprensione riconducibili all’esigenza di evitare l’insorgenza di “conflitti di interesse” e che, come tali, non richiedono la predisposizione di norme particolari come il codice etico; b) quello contestato al S. è un comportamento espressamente vietato, tanto più che in base alla giurisprudenza di legittimità, la violazione del dovere di fedeltà deve essere valutata anche alla luce del disvalore ambientale che essa assume in virtù della posizione professionale del lavoratore e del potenziale carattere diseducativo del suo comportamento per gli altri dipendenti.
Da quel che si è detto emerge, con chiarezza, che la Corte d’appello, sulla base di una inadeguata ricostruzione del complessivo comportamento del S., ha effettuato una erronea valutazione della proporzionalità della condotta addebitabile al lavoratore – consistente, in realtà, nella sola mancata segnalazione ai superiori della ricezione del dono e, come tale, meritevole di una sanzione, ma adeguata – rispetto alla sanzione espulsiva irrogata, facendo riferimento a concetti quali F irrilevanza del modesto valore economico del danno patrimoniale e il disvalore ambientale della condotta del lavoratore, che trovano applicazione – a certe condizioni – solo con riguardo a comportamenti tenuti dal lavoratore cui sia stato irrogato un licenziamento disciplinare, i quali all’esito della loro complessiva valutazione, si siano dimostrati idonei a ledere in modo irreparabile e definitivo l’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro con il datore di lavoro.
9.- Anche il sesto motivo deve essere accolto.
Come si è detto, la Corte torinese ha ritenuto che quello contestato al S. fosse un comportamento lesivo di doveri di “facile comprensione” riconducibili all’esigenza di evitare l’insorgenza di conflitti di interesse – e che, come tali, non richiedono la predisposizione di norme particolari come il codice etico – e che, comunque, fosse un comportamento espressamente vietato.
Il ricorrente rileva, sul punto, che – nonostante una propria specifica doglianza e una generica difesa, al riguardo, da parte della società – la Corte d’appello non ha motivato sul rispetto delle garanzie formali di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, con particolare riferimento all’onere di affissione del codice disciplinare e alla riconducibilità allo stesso della condotta oggetto della contestazione.
Tale assunto non è smentito dalla controricorrente, la quale sostiene che nella specie “diventa irrilevante la prova dell’effettiva affissione del codice di condotta nei locali dell’impresa e in un luogo accessibile a tutti”, dato il tipo di comportamento addebitato al lavoratore.
Si deve ricordare che – secondo un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte – in tema di sanzioni disciplinari nell’ambito del rapporto di lavoro, il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso nel senso rigoroso, imposto per gli illeciti penali dall’art. 25, comma secondo, Cost., dovendosi, invece, distinguere tra gli illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all’organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste ed inserite, perciò, nel ed. “codice disciplinare” da affiggere ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, e quelli costituiti da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nello stesso codice disciplinare, poiché, in questi ultimi casi che possono legittimare il recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il potere sanzionatorio deriva direttamente dalla legge (Cass. 23 agosto 2006, n. 18377; Cass. 18 giugno 1996, n. 5583; Cass. 18 settembre 2009, n. 20270; Cass. 14 settembre 2009, n. 19770; Cass. 27 gennaio 2011, n. 1926; Cass. 19 agosto 2012, n. 9644).
Poiché, per quel che si è detto, nella specie il comportamento addebitato a giustificazione del licenziamento del S. – diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata – non rientra tra i comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, per esso avrebbe dovuto essere rispettato l’onere di affissione del codice disciplinare e della riconducibilità allo stesso della condotta oggetto della contestazione, mentre non risulta che ciò sia avvenuto e, anzi, dalla stessa impostazione della sentenza impugnata si desume che la Corte territoriale ha ritenuto la fattispecie sottratta all’anzidetto incombente.
III – Conclusioni
10.- In sintesi, il quarto, il quinto e il sesto motivo del ricorso devono essere accolti, per le ragioni dianzi esposte, mentre vanno dichiarati inammissibili il primo, il secondo e il terzo motivo.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Genova, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, in particolare a quelli indicati ai precedenti paragrafi 8 e 9.
P.Q.M.
Accoglie il quarto, il quinto e il sesto motivo di ricorso e dichiara inammissibili il primo, il secondo e il terzo motivo. Cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Genova.