CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 giugno 2013, n. 15941
Lavoro – Sospensione per carcerazione preventiva o per custodia cautelare del lavoratore – Diritto alla retribuzione – Perdita – Concorrenza con provvedimento di sospensione cautelare disposto dal datore di lavoro – Principio della cosiddetta priorità della causa sospensiva della prestazione lavorativa
Svolgimento del processo
Con sentenza del 4.4.2007, il Tribunale di Palermo riconobbe il diritto di P.G., dipendente della Agenzia delle Entrate, alla restituito in integrum per il periodo di sospensione cautelare facoltativa dal servizio, sofferta, in pendenza del procedimento penale, dal 5.3.1987 al 16.6.1991, e condannò l’Agenzia al pagamento, in favore del predetto, del trattamento economico che avrebbe percepito nell’indicato periodo temporale, esclusi indennità e compensi per servizi di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario, nella misura eccedente la sanzione inflittagli a seguito di procedimento disciplinare (multa pari a quattro ore di retribuzione). A seguito di gravame dell’Agenzia e di appello incidentale del P., in accoglimento per quanto di ragione di quest’ultimo, la Corte di appello di Palermo, con sentenza del 9.4.2010, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, dichiarava che la decorrenza iniziale della restituito in integrum fosse quella del 4.10.1986 e confermava le ulteriori statuizioni.
Rilevava la Corte che al P. non spettava alcuna restituzione quanto al periodo in cui era stato sottoposto alla custodia cautelare in carcere, attesa l’assoluta impossibilità per lo stesso, durante la sospensione conseguente alla custodia cautelare, di rendere la prestazione lavorativa, con esclusione del diritto alla retribuzione per il periodo di detenzione, per effetto dell’interruzione del nesso di corrispettività che connotava il rapporto di lavoro.
Respingeva il gravame dell’Agenzia, osservando che, pur non applicandosi al caso considerato, in ragione della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, l’art. 27 c.c.n.l. Comparto Ministeri 1994-1997 – che disciplinava l’ipotesi della automatica perdita di efficacia ex tunc della sospensione cautelare in pendenza di procedimento penale, allorché fosse intervenuta sentenza definitiva di assoluzione o proscioglimento con formula piena, prevedendo il conguaglio di quanto corrisposto nel periodo di sospensione con quanto dovuto al lavoratore se fosse rimasto in servizio – continuasse ad operare il principio di cui all’art. 26 comma 2° c.c.n.l. richiamato. Quest’ultimo, analogamente a quanto previsto dall’art. 96 T.U. n. 3 del 1957, stabiliva che, quando il procedimento disciplinare si concludeva con la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, il periodo dell’allontanamento cautelativo dovesse essere computato nella sanzione, ferma restando la privazione della retribuzione con riguardo agli effettivi giorni di sospensione irrogati. Riteneva che tale disposizione sancisse un principio di carattere generale, che dovesse valere a maggior ragione quando, a conclusione del procedimento disciplinare, fosse stata irrogata, come nella specie, la sanzione ancor più lieve della multa pari a quattro ore di retribuzione. Riteneva fondata la censura relativa alla data di decorrenza della restituzione, retrodatata al 4.10.1986, epoca della cessazione della custodia cautelare, che aveva comportato la commutazione della sospensione cautelare da obbligatoria in facoltativa.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’Agenzia, con unico motivo di impugnazione. Resiste con controricorso il P., che propone ricorso incidentale, anch’esso affidato ad unico motivo.
Motivi della decisione
L’Agenzia denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 27 c.c.n.I. 1994/1997 del Comparto Ministeri, ex art. 360, n. 3, c.p.c, osservando che la sentenza impugnata non ha tenuto conto nel debito conto la differenza tra l’istituto di cui all’art. 27 del c.c.n.I. indicato, che regola la sospensione cautelare in caso di procedimento penale – e presuppone espressamente la pendenza di quest’ultimo – e quello di cui all’art. 26 del CCNL, che regolamenta la sospensione cautelare in caso di procedimento disciplinare, e non ha considerato che analoga distinzione operava anche durante la vigenza del T.U. n. 3/57, laddove la restituito in integrum per la sospensione cautelare disposta in dipendenza del procedimento penale di cui all’art. 91, parte prima, era regolamentata dall’art. 97 comma 1, il cui testo è identico a quello dell’art. 27 c.c.n.I. 1994/97 e non dall’art. 96, che disciplinava la restituito in integrum per la sospensione cautelare disposta anche prima che fosse esaurito o fosse iniziato il procedimento disciplinare di cui all’art. 92 del T.U. Osserva che erroneamente la Corte di Appello, dopo avere correttamente ritenuto inapplicabile al caso in esame l’art. 27 del c.c.n.I., in ragione della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, ha, poi, erroneamente ritenuto che andasse disposta, in favore del dipendente, la restituzione per il periodo di sospensione facoltativa dal servizio sulla base dell’art. 26 comma 2 del medesimo c.c.n.I.. Assume che non può essere ritenuta corretta l’estensione dei principi affermati dall’art. 26 del c.c.n.I. e che il giudice del gravame ne ha fatto utilizzo in via analogica in modo assolutamente preclusogli, attesa l’esistenza di una norma che regola proprio la vicenda in esame, caratterizzata da un provvedimento di sospensione cautelare facoltativa adottata in pendenza di un procedimento penale per fatti che, ove accertati, avrebbero comportato l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento. Nel caso di specie, all’esito del giudizio penale non era stato del tutto acclarato che l’interruzione del sinallagma tra prestazione di lavoro e retribuzione non fosse dipesa da colpa del dipendente e proprio in quanto l’art. 27, comma 7, del contratto collettivo costituisce eccezione alla regola, non se ne può ammettere una interpretazione estensiva. D’altronde, il P. – afferma la ricorrente -, per ottenere la restituito in integrum, avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione e rivendicare un’assoluzione con formula piena, né possono addossarsi alla P.A. gli oneri della restituzione per la mancata adozione della sanzione espulsiva proprio perché la sentenza di prescrizione non è equiparabile a quella di condanna .
Con il ricorso incidentale, il P. lamenta, invece, violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 27 del c.c.n.l. Comparto Ministeri, nella parte in cui – secondo quanto si legge nella sentenza della Corte di Appello di Palermo – gli stessi, come interpretati erroneamente, non legittimerebbero la restituito in integrum in favore del lavoratore anche per il periodo in cui lo stesso sia rimasto in custodia cautelare in carcere. Assume che nessun discrimine sussista tra sospensione obbligatoria e sospensione facoltativa e richiama copiosa giurisprudenza amministrativa secondo la quale la conclusione del procedimento penale in senso favorevole all’imputato implica che il rapporto riprende il suo corso a tutti gli effetti dal momento in cui è stato sospeso e che spetta la corresponsione degli stipendi per l’intero periodo di sospensione cautelare sofferta, ivi compresi i periodi trascorsi in regime di detenzione per misure di custodia cautelare.
I ricorsi vanno, preliminarmente, riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Il ricorso principale è infondato.
La materia di cui qui si tratta fu disciplinata dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) ed è attualmente regolata dal contratto collettivo di comparto del 16.5.1995.
A norma del capoverso del cit. D.P.R. n. 3, art. 96, se la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio viene inflitta all’impiegato per durata inferiore alla sospensione cautelare sofferta o se viene inflitta una sanzione minore o se il procedimento disciplinare si concluda con il proscioglimento dell’impiegato, l’Amministrazione deve corrispondere tutti gli assegni non percepiti, per il tempo eccedente la durata della punizione. Tale disposizione non prevedeva, dunque, l’ipotesi della sospensione cautelare disposta in pendenza del procedimento penale, ma la giurisprudenza riteneva che essa fosse nondimeno applicabile, riconoscendo il diritto dell’impiegato sospeso alla “restitutio in integrum” economica dopo la definizione del procedimento penale, anche con sentenza di condanna (v., Cass. 19169/2006 riferita ad un c.c.n.l. del 1996 ma per una sospensione disposta nel 1994; Cons. Stato, Ad. plen. 2 maggio 2002, n.4). Nel caso di specie, l’Amministrazione invoca il sopravvenuto art. 27 c.c.n.l. del 1995 cit., il quale prevede espressamente la sospensione cautelare in caso di procedimento penale, ma riduce la previsione di restitutio in integrum ai soli casi di assoluzione con formula piena e così lascia priva di disciplina l’ipotesi di condanna o di proscioglimento dell’imputato con altre formule, come quella di non doversi procedere per prescrizione del reato.
Quest’ultima formula non consente di per sé alcuna conseguenza automatica, di integrale perdita degli assegni o, al contrario, di integrale spettanza. La ricorrente pone, pertanto, a questa Corte la questione del diritto alla retribuzione per il dipendente che non abbia eseguito la sua prestazione per essere stato cautelativamente sospeso a causa di procedimento penale. La questione è stata già recentemente affrontata da questa Corte, che ha rilevato come la stessa debba essere risolta partendo dalle norme del codice civile in materia di effetti patrimoniali sfavorevoli, conseguenti alla mancata esecuzione della prestazione lavorativa e che si distribuiscono nel modo seguente:
a) qualora la mancanza della prestazione sia imputabile al lavoratore, questi perde il diritto alla retribuzione (art. 1460 c.c.) e deve risarcire l’eventuale danno sopportato dal datore di lavoro (art. 1218 c.c.);
b) qualora la mancanza della prestazione sia imputabile al datore di lavoro, creditore in mora, questi dovrà risarcire il danno sopportato dal lavoratore (art. 1207 c.c.), eventualmente nella misura delle retribuzioni dallo stesso perdute;
c) fatti impeditivi della prestazione, non imputabili a nessuna delle due parti del rapporto di lavoro (forza maggiore, factum principis), vengono talvolta considerati ed espressamente disciplinati dal legislatore, che discrezionalmente, distribuisce il rischio (artt. 2110 e 2111 c.c.) (cfr. in tal senso, anche per quanto di seguito osservato, Cass. 14.3.2012 n. 4061). Nel caso di specie la lacuna di previsione del contratto collettivo, che non dispone al di fuori del caso di proscioglimento con formula piena, deve essere colmata in sede di interpretazione-applicazione. Ciò significa che, definito il procedimento penale, la questione va risolta dalla stessa Amministrazione che, in sede di procedimento disciplinare, deve valutare la condotta dell’imputato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi. È, pertanto, errata la tesi qui sostenuta dalla ricorrente, secondo la quale il difetto di prestazione lavorativa giustifica, in ogni caso, la mancata retribuzione in base ad una non meglio specificato “principio generale di corrispettività”.
Né, in questa sede, può ritenersi vincolante una sentenza emessa, in materia, dalla Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione siciliana del 6.6/27.2.2002 ed invocata dalla ricorrente. L’eventualità che il giudizio disciplinare reso dall’Amministrazione porti l’impiegato alla perdita definitiva degli assegni, per il periodo eccedente la durata della punizione, comporta che la misura cautelare si trasforma in parte qua in sanzione disciplinare pecuniaria. Ciò implica la non retroattività della previsione del contratto collettivo, ossia la non applicabilità agli illeciti disciplinari anteriori alla sua entrata in vigore. Tanto basta per il rigetto del ricorso principale (v. Cass. n. 4061/2012 cit).
È, però, anche da osservare che nel caso di specie è stata inflitta all’incolpato la sanzione disciplinare della multa pari a quattro ore di retribuzione. La condotta illecita fu, pertanto, considerata dalla stessa Amministrazione di gravità assai tenue; né ha costituito tema di disputa, nell’attuale processo civile, il rispetto del principio di proporzione (art. 3 cpv., Cost.) tra sanzione e comportamento di cui al capo d’incolpazione.. È rimasta così non motivata, e perciò non giustificata sul piano della legittimità, la sproporzione tra lieve sanzione disciplinare e privazione della retribuzione per più di quattro anni. In termini civilistici, è rimasta priva di riscontro probatorio,o soltanto indiziario, l’imputabilità della mancata prestazione lavorativa al dipendente nell’intero spazio dei quattro anni.
Il dispositivo della sentenza impugnata è, pertanto, sul punto conforme a diritto (art. 384 c.p.c., comma 4). In conclusione, deve essere riaffermato il principio già enunciato con la pronunzia di questa Corte richiamata n. 4061/2012, alla cui stregua “a norma dell’art. 27, comma 7, c.c.n.l. del 1995 cit., quanto corrisposto a titolo di indennità al pubblico impiegato nel periodo di sospensione cautelare dal servizio dev’essere conguagliato con quanto dovuto se il lavoratore fosse rimasto in servizio, solo in caso di proscioglimento con formula piena e perciò non necessariamente in caso di proscioglimento per prescrizione. Questa norma innova rispetto alla precedente (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 96) che permetteva il conguaglio in tutti i casi di proscioglimento disciplinare e, trasformando la sospensione cautelare della retribuzione in provvedimento definitivo ossia sostanzialmente in pena disciplinare: a) non può applicarsi agli illeciti disciplinari commessi prima della sua entrata in vigore; b) per gli illeciti successivi, e qualora venga inflitta la sanzione disciplinare della sospensione per durata inferiore alla sospensione cautelare sofferta, il mancato conguaglio può essere discrezionalmente disposto dall’Amministrazione, con motivazione riferita alla gravità dell’illecito nei suoi elementi oggettive soggettivi”.
Il ricorso incidentale del P. è anch’esso infondato. Ritiene questa Corte che il fatto storico della sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere, con conseguente assoluta impossibilità di rendere la prestazione lavorativa, costituisca, come già rilevato in precedenti decisioni di legittimità (cfr. Cass. 26.3.1998 n. 3209, Cass. 16.10.1990 n. 10087, Cass. 9.9.2011 n. 18528), circostanza che supera e si sovrappone alla sospensione cautelare, costituendo una autonoma causa di esclusione del diritto alla retribuzione per il periodo di detenzione, non prevedendo specificamente la normativa del testo unico applicabile una disciplina diversa e più favorevole. Più propriamente, tale conseguenza, come osservato da Cass. 6.9.2006, n. 19169, deriva dal principio generale secondo cui, quando il prestatore non adempia all’obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico dell’adempimento dell’obbligazione di corresponsione della retribuzione, così come per ogni caso di assenza ingiustificata (o non validamente giustificata) dal lavoro (v. Cass. 19169/2006 cit.). Vale rimarcare che gli effetti pregiudizievoli conseguenti alla perdita della retribuzione si riconnettono in tale ipotesi ad un provvedimento della P.A. necessitato dallo stato restrittivo della libertà personale del dipendente, che determina l’adozione di un provvedimento di sospensione cautelare obbligatoria (sospensione d’ufficio) e non ad un comportamento volontario ed unilateralmente assunto dal datore di lavoro come nell’ipotesi di adozione di un provvedimento di sospensione facoltativa durante la pendenza del procedimento penale od anche solo disciplinare nei confronti del dipendente (V. anche, da ultimo, Cass. 5147/2013, relativamente a restituito in integrum limitata alla retribuzione dovuta per il periodo di sospensione cautelare facoltativa). La decisione è pertanto conforme al principio di diritto affermato dalle sentenze di legittimità richiamate, secondo cui lo stato di carcerazione preventiva (o di custodia cautelare) del lavoratore subordinato – non rientrando tra le ipotesi, tutelate dalla legge, di impossibilità temporanea della prestazione, quali la malattia e le altre situazioni contemplate dall’art. 2110 cod. civ.,- comporta la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui si protrae la carcerazione medesima, ed all’ulteriore insegnamento alla cui stregua non può operare, al di fuori delle cause legali di sospensione con diritto alla retribuzione, il principio della priorità della causa di sospensione (per il quale si deve considerare prevalente, ai fini dell’attribuzione di un determinato trattamento retributivo spettante al lavoratore, la causa di sospensione per prima verificatasi) (v. Cass. 18528/2011cit.).
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere confermata in relazione al rigetto anche del motivo di impugnazione incidentale.
La soccombenza reciproca giustifica la compensazione tra le parti delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra le parti le spese di lite del presente giudizio.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 08 giugno 2021, n. 15941 - L'accertamento della non contesta legittimità della iscrizione di ipoteca preclude ogni valutazione in ordine alla regolarità o meno della notifica della cartella di pagamento, atto prodromico…
- MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO - Circolare 05 febbraio 2020, n. 30711 - Modalità e termini di presentazione delle istanze di accesso alle agevolazioni in favore delle piccole e micro imprese localizzate nella zona franca istituita, ai sensi…
- DECRETO LEGISLATIVO 05 novembre 2021, n. 191 - Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2019/1160 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, che modifica le direttive 2009/65/CE e 2011/61/UE…
- Asseverazione non contestuale alla richiesta del titolo abitativo - Articolo 16, comma 1-septies del decreto legge 4 giugno 2013, n. 63 convertito dalla legge n. 90 del 2013 - Risposta 30 giugno 2020, n. 196 dell'Agenzia delle Entrate
- Asseverazione non contestuale al titolo abilitativo - Articolo 16, comma 1-septies, del decreto legge 4 giugno 2013, n. 63 convertito dalla legge n. 90 del 2013 - Risposta 14 luglio 2020, n. 214 dell'Agenzia delle Entrate
- INPS - Circolare 28 settembre 2021, n. 145 - Gestione diretta delle attività di cui all’articolo 10, comma 3, del decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 99. Tutela per eventi di malattia…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- Bancarotta fraudolente distrattiva è esclusa se vi
La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 14421 depositata il 9…
- Per i crediti di imposta di Industria 4.0 e Ricerc
L’articolo 6 del d.l. n. 39 del 2024 ha disposto, per poter usufruire del…
- E’ onere del notificante la verifica della c
E’ onere del notificante la verifica della correttezza dell’indirizzo del destin…
- E’ escluso l’applicazione dell’a
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 9759 deposi…
- Alla parte autodifesasi in quanto avvocato vanno l
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 7356 depositata il 19…