Corte di Cassazione sentenza n. 16094 del 27 aprile 2012
RAPPORTO DI LAVORO – MOBBING – MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA – RESPONSABILITA’ CIVILE
massima
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Le pratiche persecutorie (mobbing) realizzate dal datore di lavoro ai danni del lavoratore, e finalizzate alla sua emarginazione, possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo se il rapporto tra i detti soggetti assuma natura para-familiare, se risulti cioè caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita condivise, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di garanzia.
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Fatto Diritto
Con sentenza in data 25/11/2010 la Corte di Appello di L’Aquila in parziale riforma della decisione, con la quale il Tribunale di Pescara aveva dichiarato I.A. colpevole dei reati di maltrattamenti in danno di calunnia in danno di R.A. ex art.572 cp. e di ex art.368 cp. e condannato alla pena di giustizia oltre al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, dichiarava n.d.p. nei confronti del predetto, perché estinti entrambi i reati per prescrizione, confermando le statuizioni civili.
Si contestava all’imputato di avere, nella qualità di vice presidente dell’ATER maltrattato ripetutamente la dipendente R.A., invalida civile, portatrice di handicap, assumendo nei suoi confronti comportamenti offensivi, ostili e umilianti, facendola oggetto di disposizioni, pretestuosamente severe al solo fine di metterla in difficoltà, creandole una condizione di vita all’interno dell’ufficio di assoluto disagio, produttiva di ansia e di ripetuti malesseri. In Pescare fino al febbraio 2004.
Si addebitava inoltre di avere con denuncia-querela in data 22/1/2003 incolpato, pur sapendolo innocente, C.S. del reato di calunnia per avere presentato a suo dire una falsa denuncia per diffamazione.
In motivazione la corte di merito condivideva la ricostruzione della vicenda operata in prime cure, nonché i rilievi e le argomentazioni del giudice di primo grado a sostegno del giudizio di colpevolezza, passando in rassegna tutti gli episodi, di cui l’imputato si era reso responsabile, sintomatici del suo intento di sottoporre a sofferenze fisiche e morali la parte offesa, nonché valorizzando gli elementi e le circostanze di fatto convergenti e rilevanti ai fini della falsa incolpazione, dando atto tuttavia che era decorso il termine di cui al combinato disposto degli artt.157-159-160 cpp. nella nuova formulazione data dalla legge n.251/2005.
Contro tale decisione ricorre l’imputato a mezzo del suo difensore, che a sostegno della richiesta di annullamento, pur non rinunciando alla prescrizione, con il primo motivo denuncia la inosservanza o erronea applicazione della legge penale in riferimento all’art.572 cp., sollecitando un controllo di legittimità sulla motivazione circa la sussistenza delle condizioni di cui all’art.129/2 cpp., e sostenendo che nel caso in esame sussistevano solo atti di mobbing, irrilevanti sul piano penale, onde il reato di maltrattamenti non poteva ritenersi integrato, perché difettava il necessario rapporto intersoggettivo, ricoprendo lo I. una carica meramente politica, priva di poteri direttivi o disciplinari nei confronti della parte offesa. Con il secondo motivo lamenta la carenza o manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla mancata risposta alle numerose doglianze, mosse nei motivi di appello, che miravano a scardinare l’intero impianto accusatorio sia in ordine al reato di maltrattamenti, la cui condotta persecutoria non era riscontata da alcun elemento obiettivo, sia in ordine alla calunnia, dal quale esulava il profilo soggettivo, essendo la frase incriminata gli andicappati li metterei tutti nella camera a gas” non rivolta alle persone presenti.
Il primo motivo di ricorso è fondato.
E’ stato affermato nella giurisprudenza di questa Sezione che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione – c.d. mobbing – possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma carattere parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (da ultimo Cass.Sez.VI 22/9/2010-13/1/2011 n. 685 Rv. 249186; 6/2/2009-26/6/2009 n. 26594 Rv.244457).
Nelle fattispecie analizzate dalle sentenze suindicate la Corte di legittimità aveva escluso la sussistenza del reato in relazione alle vessazioni subite dalla dipendente ad opera di un dirigente di azienda di grandi dimensioni e in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal capo squadra nei confronti di un operaio.
A tale principio questo collegio intende attenersi, non essendovi motivi per dissociarsene, giacché dalla lettura della sentenza impugnata non sembrano desumersi nel caso in esame le condizioni e i presupposti del rapporto di natura parafamiliare intercorso tra la dipendente R.A. e l’imputato nella qualità di Vice Presidente dell’azienda ATER, presso la quale la prima prestava servizio come centralinista.
A parte le dimensioni dell’azienda datrice di lavoro, non emerge che tra i due vi fosse rapporto gerarchico e che l’imputato avesse poteri disciplinari nei confronti del personale.
Si impone pertanto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art.572 cp., perché il fatto non sussiste, formula questa che a norma dell’art.129/2 prevale su quella dell’estinzione del reato E’ destituita di fondamento e va pertanto rigettata la censura di cui al secondo motivo, non riconducibile ai casi di ricorso disciplinati dall’art.606/1 cpp., trattandosi di doglianza non consentita, volta, come essa appare, a sollecitare, con argomenti in fatto, come tali preclusi in questa sede, una declaratoria di insussistenza del reato di calunnia in luogo di quella di estinzione dello stesso, pur in assenza della prova evidente di innocenza dell’imputato ai sensi del già cit.art.129/2.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art.572 cp., perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso.
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