CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 giugno 2013, n. 16337
Lavoro sommerso – Omessa iscrizione libro paga e matricola – Dichiarazione di terzi – Valore della prova – Pienezza – Sussistenza
Svolgimento del processo
A seguito di controllo effettuato in data 8-6-2002 da Funzionari dell’INPS di Forlì presso il ristorante “da L.” in Cesenatico, gestito dalla “Z. e M.” snc, dal quale era risultato che quest’ultima aveva adibito al lavoro quattro dipendenti senza provvedere all’obbligatoria registrazione degli stessi sul libro matricola e sul libro paga, l’Agenzia delle Entrate di Cesena provvedeva – ex art. 3, comma 3, L. 23-4-2002 n. 73 – ad irrogare, nei confronti della detta società, sanzione amministrativa pecuniaria per la complessiva somma di euro 16.148,16.
La CTP di Forlì rigettava il ricorso proposto dalla società avverso il predetto atto di irrogazione sanzioni.
Con sentenza depositata l’11-4-2006 la CTR di Bologna accoglieva l’appello della contribuente in ordine alla richiesta subordinata dalla stessa formulata; in particolare la CTR, premesso che la Corte Costituzionale con sentenza 144 del 12-4-2005 aveva dichiarato l’incostituzionalità del detto art. 3 L. 73/2002 nella parte in cui lo stesso non consentiva al datore di lavoro di provare che il rapporto irregolare avesse avuto inizio successivamente al primo gennaio dell’anno in cui era stata constatata la violazione, affermava che, nella fattispecie in esame, la contribuente aveva sufficientemente dimostrato (sia con la produzione della copia autentica del libro matricola sia con le dichiarazioni acquisite a verbale dagli stessi Funzionari INPS) che i lavoratori in questione avessero effettivamente iniziato il rapporto in un periodo successivo al primo gennaio dell’anno in corso; di conseguenza, le sanzioni di che trattasi dovevano essere applicate e riferite solo a quanto effettivamente accertato, e quindi, per i lavoratori M. e Ma., per la giornata dell’8-6-2002, e, per i lavoratori P. e C., per il giorno 1°-6-2002.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’Agenzia, affidato a quattro motivi; resisteva con controricorso la società, che presentava anche memoria ex art 378 cpc.
Motivi della decisione
Con la memoria ex art. 378 cpc la società evidenziava che con sentenza 130/08, avente efficacia in tutti i processi in corso, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, d lgs 546/92, nella parte in cui attribuiva alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni irrogate da Uffici Finanziari anche laddove dette sanzioni conseguivano alle violazioni di disposizioni non aventi natura tributaria; nel caso di specie, pertanto, concernente sanzioni in tema di lavoro irregolare e quindi non aventi natura fiscale, le sentenze di primo e di secondo grado dovevano considerarsi “tamquam non essent”.
Siffatta argomentazione, con la quale la società sostanzialmente eccepiva un difetto sopravvenuto di giurisdizione, è infondata
Come, invero, affermato dalla Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 24883/2008, la possibilità di rilevare ed eccepire il difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del giudizio (art. 37 cpc) deve tener conto dei principi costituzionali di economia processuale e di ragionevole durata del processo, in base ai quali il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, in particolare, quest’ultimo può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, salvo ipotesi particolari (espressamente riportate nella su menzionata sentenza), non ricorrenti nel caso di specie (cfr. Cass. 26873/2009; v anche Cass. 26019/2008, 29523/2008; 1417/2012; 5704/2012).
Ciò posto, ritiene questa Corte, aderendo a principio ormai consolidato, che la pronuncia della Corte Costituzionale, pur essendo dotata ex sé di efficacia retroattiva, non estende i suoi effetti e non può incidere su una situazione già esaurita, quale appunto (come detto) il giudicato implicito sulla giurisdizione formatosi a seguito della decisione di merito pronunciata in primo grado e non impugnata in sede d’appello in punto di difetto di giurisdizione (in senso conforme: Cass. 6966/2013; 2594/2012; 24405/2011; 3200/2010; 28545/2008).
Venendo, quindi, al merito, con il primo motivo l’Agenzia, deduceva -ex art. 360 nn. 3 e 4 cpc- violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3, D.L. 12/2002 vigente ratione temporis, nonché degli artt. 7 dlgs 546/92, 115 e 116 cpc e 2927 c.c. (rectius: 2729 c.c.); al riguardo, precisato che le date riportate a verbale quali giorni di inizio dell’attività irregolare (8-6-2002 per i lavoratori M. e Ma. e 1-6-2002 per i lavoratori P. e C.) erano quelle dichiarate dai lavoratori stessi, rilevava che erroneamente la CTR aveva ritenuto che siffatte dichiarazioni costituissero piena prova, idonea a superare la presunzione di cui all’art. 3 L. 73/2002; dette dichiarazioni, invero, non potevano costituire prova testimoniale per il divieto di cui all’art. 7 d.lgs 546/92 e non potevano che avere valore di elementi indiziari, di per sé soli inidonei a fondare la decisione; concludeva, quindi, ponendo a questa Corte il seguente quesito di diritto: “se, ai sensi e per gli effetti dell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 546 del 1992, il valore da attribuire a dichiarazioni di terzi prodotti in semplice forma scritta nel giudizio tributario non possa mai essere quello della piena prova, e sia, al contrario, solo quello, neppure di prova presuntiva, ma solo di mero indizio, e se, nel contempo, il giudice tributario, che attribuisca alle predette dichiarazioni il valore di piena prova, non violi le disposizioni del processo civile, applicabili al processo tributario, che impongono al giudice di situare a base del proprio libero convincimento solo elementi che siano dalla legge della legge stessa considerati quali prove”.
Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, l’Agenzia deduceva – ex art. 360 n. 3 cpc – violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. per avere la CTR attribuito valore di prova privilegiata al verbale INPS, estendendo erroneamente l’efficacia di cui all’art. 2700 c.c. al contenuto sostanziale delle dichiarazioni delle parti, in particolare la circostanza della immissione al lavoro dei dipendenti rispettivamente in data 8-6-2002 e 1°-6-2002 non poteva costituire fatto avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale, in quanto era stato semplicemente riportato dagli ispettori come mera dichiarazione di parte, sulla cui esattezza non poteva ritenersi formata alcuna prova ed anzi (provenendo da soggetto del rapporto irregolare) era da ritenersi scarsamente attendibile; concludeva ponendo a questa Corte il seguente quesito: se, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2700 c.c., i verbali redatti dal pubblico ufficiale facciano fede fino a querela di falso per quanto riguarda la provenienza dal pubblico ufficiale che li ha redatti ed i fatti che quest’ultimo attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati da lui compiuti, mentre, per le altre circostanze di fatto che il verbalizzante segnali di aver accertato nel corso dell’inchiesta per averle apprese “de relato” o in seguito ad ispezione dì documenti, la legge non attribuisca alcun valore probatorio precostituito, neppure di presunzione semplice”.
Siffatti motivi sono inammissibili ex art. 366 bis, cpc, (applicabile nel caso di specie perché la sentenza impugnata è stata depositata in data 11 aprile 2006, quindi nel vigore dello stesso, introdotto a decorrere dal 2-3-2006 con il D Lg.vo n. 40 del 2006, ed abrogato, ma solo dal 4 luglio 2009, con l’art. 47, primo comma, lett. d) della legge n. 69 del 2009), in quanto si concludono con un quesito di diritto astratto e non pertinente con la fattispecie concreta.
Al riguardo va, invero, rilevato che nel caso di specie la CTR, contrariamente a quanto evidenziato nei detti quesiti, non ha attribuito alle dichiarazioni di terzi in questione valore di piena prova né ha riconosciuto a dette dichiarazioni valore probatorio privilegiato, ma, al contrario, ha valutato le complessive risultanze processuali e, in esito, ha ritenuto superata la presunzione di legge (inizio del periodo di lavoro dal 1° gennaio dell’anno del controllo) non solo in base alle dichiarazioni acquisite a verbale ma (come riconosciuto, peraltro, dallo stesso ricorrente nel successivo motivo di ricorso) anche attraverso la produzione in copia dei libri matricola; in sostanza l’Agenzia, con la prospettazione di cui sopra, intende sostituire all’interpretazione delle prove esposta dalla CTR una propria valutazione, sicché, anche per tale aspetto, le censure appaiono inammissibili.
Con il terzo motivo l’Agenzia denunciava ex art. 360 n. 5 vizio motivazionale, per non essersi la CTR avveduta “che è assolutamente illogico riconoscere alle dichiarazioni rese dai terzi di essere stati assunti il giorno dell’ispezione, insieme alla constatata regolarizzazione del lavoro avvenuta il primo giorno utile, l’efficacia di evitare la sanzione in questione”; al riguardo soggiungeva che, a meno di non voler pervenire ad una interpretatio abrogans della norma in questione, non poteva essere consentito al lavoratore di dichiarare di essere stato assunto al momento del controllo e con ciò evitare al datore di lavoro l’applicazione della sanzione dall’inizio dell’anno.
Con il quarto motivo l’Agenzia denunciava ex art. 360 n. 5 cpc altra assoluta illogicità motivazionale per avere la CTR annullato la sanzione anche per l’ulteriore prova costituita dalla produzione dei libri matricola, senza invece considerare che quest’ultimi (come desumibile dalla circostanza che al momento dell’accesso la società era risultata sprovvista della documentazione in questione) erano stati compilati successivamente all’intervenuta rilevazione dell’irregolarità commessa.
Siffatti motivi sono inammissibili per violazione dell’art. 366 bis c.p.c.
La complessiva doglianza è, infatti, materialmente priva del “momento di sintesi”, richiesto in tutte le ipotesi di vizio sussumibile nel n. 5 dell’ art. 360 c.p.c.; ed invero, per costante e condiviso principio di questa Corte, nel caso previsto dall’articolo 360, primo comma, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo del ricorso per Cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, sia la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, sia le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, sia un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), e cioè un’indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo e che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (conf. Cass. n. 8897 del 2008; 2652/2008; v. anche Cass. 24253/2011, secondo cui “è inammissibile, ai sensi dell’art. 366 bis cod proc. civ., per le cause ancora ad esso soggette, il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, qualora non sia stato formulato il cd. quesito di fatto, mancando la conclusione a mezzo dì apposito momento di sintesi, anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, attesa la “ratio” che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze deflative del filtro di accesso alla S.C , la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito”).
In conclusione, pertanto, il ricorso va rigettato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dei compensi di lite relativi al presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 2.200,00, di cui euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.
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