Corte di Cassazione sentenza n. 1670 del 24 gennaio 2013
TRIBUTI ERARIALI INDIRETTI (RIFORMA TRIBUTARIA DEL 1972) – IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO (I.V.A.) – TERRITORIALITA’ DELL’IMPOSTA – CESSIONI ALL’ESPORTAZIONE, OPERAZIONI ASSIMILATE, SERVIZI INTERNAZIONALI O CONNESSI – IN GENERE
massima
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In tema di IVA, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti, recuperando l’imposta non versata, la non imponibilità – ai sensi dell’art. 41, comma 1, lett. a), prima parte, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427 – della cessione intracomunitaria di beni a titolo oneroso, per difetto del presupposto dell’introduzione dei beni ceduti nel territorio di altro Stato membro, grava sul cedente la prova dei fatti costitutivi del diritto, che intende far valere in giudizio, di fruire della deroga agevolativa rispetto al normale regime impositivo; né è sufficiente, a tal fine, la prova di aver richiesto ed ottenuto la conferma della validità del numero di identificazione attribuito al cessionario da altro Stato membro, ex art. 50, commi 1 e 2, del decreto legge citato, e di avere indebitamente indicato tale numero nella fattura emessa ai sensi dell’art. 46, comma 1, del medesimo testo normativo, trattandosi dell’adempimento di obblighi formali prescritti per agevolare il successivo controllo ed evitare atti elusivi o di natura fraudolenta, ed occorrendo invece – avuto riguardo alla espressa previsione dell’art. 41, comma 1, lett. a), del d.l. n. 331 del 1993, secondo cui la cessione non imponibile si realizza mediante il trasporto o la spedizione dei beni nel territorio di un altro Stato membro – la prova dell’effettiva destinazione dei beni ceduti nel territorio dello Stato membro in cui il cessionario è soggetto di imposta.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Nucleo di Polizia tributaria del Piemonte redigeva processo verbale di contestazione nei confronti della Centro computer Caravesano 3 C s.r.l. contestava la fatturazione di merci asseritamente destinate all’esportazione in favore della Global Trading GMBH con sede in Germania ma in realtà movimentate esclusivamente in Italia. Venivano quindi emessi nei confronti della società contribuente due avvisi di accertamento relativi agli anni 1999 e 2000 per il recupero dell’IVA con ulteriore irrogazione di sanzioni.
La CTP di Torino accoglieva i ricorsi proposti dalla società contribuente con due sentenze che la Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, nell’accogliere l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, previa riunione dei relativi procedimenti, riformava. 2. Osservava il giudice di appello che rispetto alla questione agitata dalla società contribuente e cioè alla spettanza del regime di non imponibilità ai fini IVA per la cessione effettuata nei confronti della società Global Trading GMBH, gravava sulla società contribuente la presunzione di cessione intranazionale prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53, comma 1, sicché incombeva sulla società l’onere di provare l’avvenuta esportazione, postulando il D.L. n. 331 del 1993, art. 41, comma 1, e art. 50, comma 2, l’effettivo perfezionamento di tutte le operazioni di esportazione, delle quali assumeva la responsabilità il cedente beneficiario “dell’esenzione IVA”.
2.1.Aggiungeva che era necessaria la prova, da fornire con ogni mezzo, purché dotata del carattere di certezza ed
incontrovertibilità, dell’effettiva movimentazione del bene con partenza dall’Italia ed arrivo in uno Stato membro, qualunque fossero le modalità del trasporto e spedizione utilizzati dal cedente, dal cessionario o da terzi per loro conto delle cessioni, fra le quali anche l’attestazione di pubbliche amministrazioni del Paese di destinazione circa l’avvenuta presentazione delle merci in dogana. 2.2 Secondo la CTR, inoltre, la sola circostanza che le fatture e le bolle di accompagnamento indicassero la natura di operazione intracomunitaria non consentiva l’applicazione del regime di cui all’art. 41 cit., risultando ascrivibile alla società contribuente una responsabilità di tipo omissivo, non potendosi desumere dalle circostanze di fatto evidenziate dalla stessa il diritto al beneficio ed anzi risultando che gli accorgimenti posti in essere dalla società contribuente non erano stati idonei ad evitare o prevenire la condotta fraudolenta dell’acquirente.
3. La società contribuente ha proposto ricorso per Cassazione affidato tre motivi. L’Agenzia delle Entrate ha depositato controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo la società contribuente ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53, evidenziando che il giudice di appello aveva erroneamente richiamato tale disposizione, non controvertendosi nel procedimento sull’esistenza della vendita, compiutamente dimostrata dalla contabilità e dalle fatture emesse, ma dell’applicabilità o meno del regime IVA disposto dal D.P.R. n. 633, art. 21 comma 6, e D.L. n. 331 del 1993, art. 46.
4.2 Con il secondo motivo la società contribuente ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, artt. 41, 46 e 50, assumendo che l’assenza di violazioni in tema di fatturazione o di registrazione e di collusione in un’operazione fraudolenta ad essa società ascrivibile – circostanze mai contestate alla società contribuente – unitamente al pieno rispetto delle prescrizioni di legge, avrebbero dovuto indurre il giudice di appello ad accogliere le difese dalla stessa spiegate, non potendosi gravare sulla medesima una responsabilità oggettiva di tipo omissivo, anche considerando che il richiamo alla possibilità di fornire l’attestazione da parte della dogana del passaggio dei beni, espressamente evocata dalla CTR, non poteva più dirsi attuale dopo l’abolizione degli uffici di dogana a livello intracomunitario. 5. Con il terzo motivo la società contribuente ha dedotto omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in quanto il giudice di appello, richiamando un precedente di questa Corte (Cass. n. 4098/2000) in realtà riguardante una vicenda diversa da quella esaminata, aveva affermato in capo al cedente l’onere di dimostrare la prova dell’esportazione attraverso l’attestazione di pubbliche amministrazioni del paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana, omettendo così di considerare che dall’I gennaio 1993 erano stati aboliti, a livello intracomunitario, i controlli doganali e che nessun adempimento ulteriore avrebbe potuto compiere la società contribuente che, d’altra parte, lo stesso giudice di appello avrebbe dovuto specificamente indicare.
6. I tre motivi meritano un esame congiunto, stante la loro stretta connessione.
6.1 Occorre muovere dalla premessa che il giudice di appello ha fatto corretta applicazione del quadro normativo di riferimento che disciplina il sistema delle operazioni intracomunitarie, prevedendo il beneficio della non imponibilità per i casi in cui le cessioni abbiano le caratteristiche indicate dal D.L. n. 331 del 1993, art. 41, fra queste specificamente sottolineando il requisito della effettiva movimentazione del bene “con partenza dall’Italia ed arrivo in uno Stato membro, indipendentemente dal fatto che il trasporto o la spedizione siano effettuati dal cedente, dal cessionario o da terzi per loro conto” – pag. 5 sent. impugnata-.
6.2 Ha pure aggiunto la CTR che, in assenza dei presupposti indicati dall’art. 41 cit., “la cessione viene assoggettata all’imposta nel territorio dello Stato, per effetto della presunzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, citato art. 53”.
6.3 Ora se anche tale ultimo riferimento non appare direttamente rilevante – e sul punto la motivazione va corretta da ed integrata da questa Corte ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c. – il giudice di appello si è perfettamente uniformato agli insegnamenti espressi da questa Corte in ordine al tema dei presupposti richiesti alla società contribuente per usufruire del beneficio della non imponibilità delle operazioni intracomunitarie, alla stregua dei quali l’onere di provare l’esistenza dello scambio intracomunitario (cioè l’effettivo trasferimento del bene nel territorio di altro Stato membro) grava sul contribuente cedente, che emette la fattura e non applica l’imposta nei confronti del cessionario (D.L. n. 331 del 1993, art. 50, comma 1), dichiarando che l’operazione non è imponibile (D.L. n. 331 del 1993, art. 46, comma 2); ciò proprio in ragione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., secondo il quale l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è a carico di chi invoca la deroga – cfr., da ultimo, Cass. n. 13457/2012 e, in precedenza, Cass. 20575/11, Cass. 3603/09 e Cass. 21956/10, -. 6.4 Pienamente corretto, poi, è risultato il riferimento, compiuto dal giudice di appello, al carattere indefettibile del trasferimento in altro Paese interno all’UE per usufruire della non imponibilità, avendo già questa Corte sottolineato che l’elemento della movimentazione fisica dei beni oggetto di cessione nel territorio dello Stato membro del cessionario deve costituire elemento strutturale della fattispecie normativa, cosicché la sua mancanza impedisce il riconoscimento dello stesso carattere “intracomunitario” della operazione – Cass. 13457/2012, cit. -.
6.5 Quanto al tema delle modalità con le quali il cedente possa offrire la prova che i beni ceduti siano entrati nel territorio delle Stato membro a cui appartiene il cessionario, al quale la società contribuente si è richiamata sostenendo l’erroneità del riferimento – operato dalla CTR – all’attestazione del passaggio dei beni in dogana, ormai non più operante a livello di operazioni intra UE, giova rammentare che secondo la giurisprudenza resa dalla Corte di Giustizia spetta al fornitore di beni provare che sono soddisfatte le condizioni di applicazione dell’art. 28 quater, punto A, lett. a), comma 1, cit., della sesta direttiva, comprese quelle imposte dagli Stati membri per assicurare una corretta e semplice applicazione delle esenzioni e prevenire ogni possibile frode, evasione fiscale o abuso (v., segnatamente, Corte giust. 7 dicembre 2010, R, punto 46), poi chiarendo che l’articolo 22, paragrafo 8, della stessa direttiva, nella versione risultante dall’art. 28 nonies, di quest’ultima, riconosce agli Stati membri la facoltà di adottare provvedimenti diretti ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e ad evitare le frodi, purché, in particolare, non eccedano quanto è necessario per conseguire siffatti obiettivi (v., in tal senso, Corte Giust. 27 settembre 2007, Collè e, punto 26, e R, cit., punto 45). 6.7 Tali principi sono stati pienamente ribaditi da Corte Giust. 27 settembre 2012, causa CM587/10, Vogtlandische Straben -, Tief – und Rohrleitungsbau GmbH Rodewisch, ove si è nuovamente riconosciuto che gli Stati membri hanno la facoltà di esigere dai fornitori di beni di produrre la prova che l’acquirente è un soggetto passivo, che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso dallo Stato di partenza della spedizione o del trasporto dei beni di cui trattasi, purché i principi generali del diritto e, in particolare, il requisito di proporzionalità, siano rispettati.
6.8 Quanto al contenuto di siffatto onere, al quale pure la società contribuente ha fatto riferimento, finendo con il ritenere che essendosi la stessa pienamente uniformata alle prescrizioni di legge- regolarità contabile, assenza di controlli alla dogana, ormai venuti meno dal gennaio 1993 – l’effettivo trasferimento del bene nel territorio di altro Stato membro avrebbe dovuto formare oggetto di un onere di prova negativa gravante sul Fisco e non gravare sul contribuente, appare ancora una volta utile ricordare come questa Corte, evocando le più recenti risoluzioni emanate dall’Agenzia delle Entrate(Risoluzione 28 novembre 2007, n. 345/E, Risoluzione 15 dicembre 2008, n. 477/E), ha chiarito che mentre può certamente escludersi che il cedente sia tenuto a svolgere attività investigative sulla movimentazione subita dai beni ceduti dopo che gli stessi siano stati consegnati al vettore incaricato dal cessionario – deve invece affermarsi il dovere del predetto di impiegare la normale diligenza richiesta ad un soggetto che pone in essere una transazione commerciale e, quindi, di verificare con la diligenza dell’operatore commerciale professionale le caratteristiche di affidabilità della controparte – Cass. n. 13457/2012 -, dovendo questi procurarsi mezzi di prova adeguati alle necessità, capaci se non di dimostrare, quanto meno di non lasciare dubbi circa l’effettività dell’esportazione e circa la sua buona fede in ordine a tale dato.
6.9 Ciò, peraltro, nella consapevolezza che la concreta individuazione delle condotte che il cedente deve tenere (o astenersi dal tenere), perché lo si possa giudicare in buona fede nell’esecuzione di una cessione intracomunitaria non conclusasi con l’effettivo trasferimento dei beni ceduti nello Stato membro di destinazione attiene a valutazioni riservate al giudice di merito in quanto inevitabilmente legate alle specifiche caratteristiche di ciascuna vicenda – Cass. 8132/11 – ma comunque soggette al controllo di logicità e di adeguatezza – in altri termini di correttezza – che la Corte è deputata a svolgere sulla motivazione dell’accertamento di fatto.
6.10. Spetta invece a questa Corte specificare che il tipo di prova adeguato, in questi casi, non è quello diretto ad escludere la prova della malafede, ma è quello che in prima battuta è diretto a provare l’effettività dell’esportazione e, qualora sia invece provato e ammesso che tale esportazione non vi è stata, a provare che il cedente è stato tratto in inganno nonostante avesse adottato le opportune cautele per evitare tale aggiramento.
6.11 Orbene, nel caso di specie il giudice di appello ha evidenziato che gli elementi offerti dalla società contribuente – assenza di segnalazioni pregresse in capo all’acquirente, puntualità dei bonifici bancari a saldo della merce, apparente assenza di comportamenti equivoci dei vettori – non consentiva di ritenere assolto l’onere probatorio di cui si è detto.
6.12 Così facendo, non pare che il giudice di appello sia incorso nel prospettato vizio di motivazione, apparendo evidente che il riferimento all’eventuale deposito dell’attestazione circa l’avvenuta presentazione della merce in dogana costituiva un’esplicitazione, a titolo meramente esemplificativo, dell’onere di provare la movimentazione della merce espressamente e chiaramente espresso dalla CTR. Ragion per cui la doglianze esposte dalla parte ricorrente si risolvono nel tentativo, vano, di indurre la Corte a rivisitare le valutazioni di merito offerta in modo congruo e, dunque, in questa sede insindacabili.
6.13 Nè può ritenersi viziata la sentenza impugnata per non avere esplicitato in cosa concretamente doveva esplicitarsi tale onere probatorio, una volta che la stessa CTR aveva chiarito che tale prova poteva essere fornita dalla società cedente “con ogni mezzo”. 7. In conclusione, la sentenza impugnata, corretta nei termini di cui alla motivazione, va esente da critica sicché il ricorso va rigettato.
8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in favore dell’Agenzia nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE
Rigetta il ricorso e condanna la società contribuente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 7000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
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