Corte di Cassazione sentenza n. 16744 del 29 luglio 2011
RAPPORTO DI LAVORO – MATRIMONIO E DIVORZIO – DIVORZIO – ASSEGNAZIONE DI QUOTA DEI REDDITI DI LAVORO – TFR
massima
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In tema di divorzio, il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro compete solo al coniuge non passato a nuove nozze, e a cui – in forza della sentenza di divorzio o di un successivo provvedimento modificativo – spetti un assegno divorzile, mentre non è sufficiente che egli, in astratto, versi nelle condizioni per ottenerlo e neppure, in concreto, che percepisca un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse con l’ex coniuge, atteso che quello di divorzio può anche essere concordato dalle parti, ma assume tale natura, con gli effetti giuridici conseguenti, solo attraverso la pronuncia del giudice, a seguito di una domanda di divorzio congiunto ovvero a seguito della formulazione, nel giudizio di divorzio, di conclusioni conformi.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ex art. 737 cod. proc. civ. la signora C. M. chiedeva al Tribunale di Messina, ai sensi dell’art. 9, terzo comma, legge 898/1970 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), l’accertamento del diritto a percepire, quale ex-coniuge del defunto F.D., una quota della pensione di reversibilità, da liquidare sulla base della durata legale del matrimonio, di anni 30 e mesi otto, tenuto conto della sua mancanza di reddito.
Resisteva alla domanda la signora F.C., coniuge di seconde nozze del F.
Con provvedimento emesso il 13 aprile 2006 il Tribunale di Messina dichiarava inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 9, ottavo comma, legge n. 898/1970, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio.
Motivava che la signora M. aveva già ottenuto, in unica soluzione, la corresponsione dell’indennità di mantenimento concordata con l’ex coniuge: onde non poteva considerarsi titolare di un assegno divorzile, presupposto del riconoscimento della pensione di reversibilità.
In accoglimento del successivo reclamo, la Corte d’appello di Messina con decreto 22 gennaio 2007 attribuiva alla signora M. la somma di € 600,00 mensili, ordinandone il versamento diretto da parte dell’INPDAP; salva la ripetizione degli arretrati nei confronti della signora C. Compensava fra le parti le spese dei due gradi di giudizio.
Avverso il decreto, notificato il 20 febbraio 2007, la signora C. proponeva ricorso per cassazione, articolato in due motivi e notificato il 18 aprile 2007.
Deduceva 1) la violazione di legge, per carenza del presupposto della titolarità di un assegno divorzile ex art. 5, legge 898/1970; 2) la violazione dell’art. 9, terzo comma, legge 1° dicembre 1970, n. 898 , nella liquidazione eccessiva della quota di pensione di reversibilità spettante all’ex-coniuge. Resisteva con controricorso la signora M.
All’udienza del 24 maggio 2011, il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente deduce il difetto del presupposto della titolarità di un assegno divorzile, ex art. 5, legge n. 898/1970.
Il motivo è infondato.
La Corte d’appello di Messina ha dato atto dell’attribuzione alla M. di un assegno divorzile a carico del defunto sig. F.; la cui liquidazione è stata concordata tra le parti in forma onnicomprensiva, con salvezza espressa dei diritti relativi alla pensione di reversibilità.
E’ quindi certo il riconoscimento giudiziale della titolarità dell’assegno, elevato dalla norma invocata a presupposto per l’attribuzione di una quota della pensione di reversibilità (Cass., sez. I, 28 maggio 2010, n. 13108; Cass., sez. I, 1° agosto 2008, n.21002); mentre resta irrilevante, ai fini che qui interessano, la modalità solutoria del debito, una tantum, espressamente consentita dallo stesso art. 5, ottavo comma, legge n. 898/1970, in via alternativa all’ordinaria corresponsione periodica.
La correttezza dell’interpretazione normativa, da parte della corte territoriale, trova altresì conferma, a contrario, nella diversa disposizione di cui al successivo art. 9-bis, legge cit., nel quale la periodicità del pagamento assurge, invece, a requisito per l’attribuzione all’ex-coniuge superstite, in stato di bisogno, di un assegno a carico dell’eredità. La difforme disciplina trova la sua ratio nella diversità soggettiva dei debitori. Nei soli confronti dell’ex-coniuge onerato – e non pure dell’ente previdenziale – l’onnicomprensività del versamento in unica soluzione dell’assegno divorzile estingue, infatti, ogni debito, non lasciando spazio a successive pretese sul suo patrimonio personale, neppure post mortem.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione di legge nella liquidazione in misura eccessiva della quota di pensione di reversibilità.
Il motivo è infondato.
La corte territoriale ha fatto corretta applicazione dell’art. 9, legge n. 898/1970, tenendo conto della durata del rapporto matrimoniale fino alla sentenza di scioglimento dei matrimonio; a nulla rilevando l’effettiva convivenza, o no, mantenuta dai coniugi prima di tale data.
Al riguardo si richiama il principio che il contributo dato dall’ex-coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune non cessa automaticamente con il venir meno della convivenza e con l’instaurarsi dello stato di separazione, di fatto o legale Corte costituzionale 24 gennaio 1991, n. 23: che, sulla base di tale premessa, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis, legge 1° dicembre 1970 n. 898, riguardante la fattispecie finitima del diritto dell’ex-coniuge ad una percentuale fissa dell’indennità di fine-rapporto, ancorato dalla norma alla durata del matrimonio, anziché a quella dell’effettiva convivenza).
Per il resto, le ulteriori argomentazioni difensive tendono a introdurre un riesame nel merito della determinazione concreta della quota di pensione di reversibilità attribuita alla M. che, oltre ad essere inammissibile in questa sede, non è riconducibile, neppure in astratto, alla censura di violazione di legge prospettata, attenendo piuttosto ad un vizio di motivazione.
Il ricorso è dunque infondato e va respinto, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese processuali, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali, liquidate in complessivi € 1700,00, di cui € 1500,00 per onorari, oltre le spese generali e accessori di legge;
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
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