CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 luglio 2013, n. 17205
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Fallimento – Dichiarazione di fallimento – Procedimento – Audizione dell’imprenditore -Notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza ex artt. 136 e seguenti cod. proc. civ. – Necessità – Ricorso alle formalità di cui all’art. 143 cod. proc. civ. – Condizioni – Mancanza – Conseguenze – Rimessione degli atti al primo giudice – Fondamento
Svolgimento del processo
Con sentenza del 26 marzo 2010 la Corte di appello di Milano dichiarava la nullità della sentenza dichiarativa del fallimento di “La nuova alba cooperativa sociale a r.l.” pronunziata dal Tribunale di Lecco in data 26 novembre 2009, su istanza della Banca Credito Valtellinese Società Cooperativa. In particolare, la Corte di appello osservava che la notifica dell’istanza di fallimento e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza era stata effettuata senza esito alla società presso la sede sociale di Lecco e, successivamente, ai sensi dell’art. 145 c.p.c, al suo amministratore M. C., presso la sua residenza di Olbia, ove la notifica non aveva luogo in quanto l’ufficiale giudiziario, in occasione dell’accesso in data 9 ottobre 2009, riferiva che il M. non viveva più in loco da tempo; che successivamente la notifica veniva eseguita, ai sensi dell’art. 143 c.p.c, presso il Comune di Olbia, individuato quale comune di ultima residenza del notificando; che, tuttavia, quest’ultima notifica doveva ritenersi nulla in quanto dalla relata dell’ufficiale giudiziario non risultava l’effettuazione di alcuna ricerca per accertare che l’assenza del destinatario presso la sua residenza di Olbia non fosse solo precaria, ma si configurasse come una vera e propria irreperibilità oggettiva con il trasferimento del notificando per luogo ignoto.
Il fallimento propone ricorso per cassazione, deducendo tre motivi. M. C., La nuova alba cooperativa sociale a r.l. e la Banca Credito Valtellinese Società Cooperativa non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il fallimento deduce la violazione degli artt. 143, 160, 162 c.p.c, degli artt. 15, 16 e 18 l. fall nonché il vizio di motivazione, lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto la nullità della notificazione, considerato che l’ufficiale giudiziario già in data 27 marzo 2009 aveva tentato senza esito la notifica al M., nella sua residenza di Olbia, di un atto di precetto del Credito Valtellinese ed aveva riferito che il M. «di fatto non risiede in loco, dove rinvengo una casa disabitata che viene locata per le vacanze estive»; in tale situazione, poiché in sede di reclamo il M. aveva ribadito di risiedere in Olbia all’indirizzo ove era stata tentata inutilmente la notifica, non poteva rimproverarsi all’ufficiale giudiziario di non avere accertato ove il notificando avesse trasferito la sua residenza né di non avere rinvenuto il M.. Nella fattispecie, invece, era palese una scorrettezza della società e del suo amministratore, che con i loro comportamenti si erano resi irreperibili ed avevano reso impossibile la notificazione con la conseguenza che, considerata l’esigenza di una rapida instaurazione della procedura fallimentare, si poteva prescindere da una notificazione della convocazione nelle forme previste dall’art. 143 c.p.c.
Il motivo è infondato. Si deve premettere che nel caso in esame la legge fallimentare trova applicazione ratione temporis nella formulazione dettata dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal successivo decreto correttivo, mentre naturalmente non trovano applicazione le rilevanti novità in tema di notificazione dettate dall’art. 17 del d.l. n. 179/2012, applicabili solo ai procedimenti che saranno introdotti dopo il 31 dicembre 2013. Nel predetto regime applicabile ratione temporis il procedimento per la dichiarazione di fallimento è stato compiutamente disciplinato con riferimento alla fase relativa alla instaurazione del contraddittorio attraverso la previsione della notificazione al debitore del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza (l. fall., art. 15, comma terzo). Inoltre, poiché dopo la riforma, durante il procedimento prefallimentare, «il tribunale, ad istanza di parte, può emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa», si deve ritenere che non possano più essere invocate quelle esigenze di sollecita instaurazione della procedura che nel precedente regime potevano giustificare l’esonero del tribunale «dall’adempimento di ulteriori formalità, ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di oggettiva irreperibilità dell’imprenditore debba imputarsi a sua stessa negligenza ed a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico» (così, e plurimis, con riferimento alla precedente disciplina, Cass. ord. 8 febbraio 2011, n. 3062 in conformità ad una consolidata giurisprudenza che aveva recepito le indicazioni della Corte costituzionale, con la sentenza 16 luglio 1970, n. 141, in punto di salvaguardia della riserva di compatibilità). Si deve, pertanto, ritenere che la notificazione al debitore deve necessariamente avvenire nelle forme di cui all’art. 136 c.p.c. e ss., salvo il caso, nella specie non verificatosi, che il presidente del tribunale, nell’ipotesi di abbreviazione dei termini per ragioni di urgenza, disponga «che ricorso e decreto di fissazione dell’udienza siano portati a conoscenza delle parti con ogni mezzo idoneo, omessa ogni formalità non indispensabile alla conoscenza degli stessi» (l. fall., art. 15, comma quinto).
Una volta stabilito che nella notificazione dell’istanza di fallimento e del decreto di convocazione devono essere seguite le forme del codice di rito, salvo che non ricorra l’ipotesi da ultimo ricordata, deve trovare applicazione il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c, per le persone irreperibili, presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (e plurimis Cass. 2 dicembre 2003, n. 18385). Nella specie di tali ricerche non vi è menzione nella relazione dell’ufficiale giudiziario, che -, in occasione del tentativo di notifica presso la residenza del notificando nel Comune di Olbia sì è limitato a riferire che il M. non viveva più in loco da tempo. Da ciò consegue la nullità della notificazione e, per violazione del contraddittorio, la nullità della sentenza emessa in data 26 novembre 2009 dal Tribunale di Lecco.
Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, il fallimento deduce la violazione degli artt. 143, 160, 162, 354 c.p.c. e 18 l. fall, lamentando che la Corte di appello, dichiarata la nullità della sentenza per la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, aveva omesso di disporre la rimessione delle parti al Tribunale di Lecco.
Il motivo è fondato. Prima della riforma, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «il giudice d’appello che dichiari la nullità della pronuncia dichiarativa di fallimento (…) non deve disporre la rimessione al primo giudice, in quanto la detta nullità travolge tutti gli atti consequenziali, incluso il giudizio di cognizione di primo grado ed il giudizio di secondo grado, senza far salvi situazioni, fatti od effetti riferibili alla fase prefallimentare – caratterizzata dalla natura inquisitoria e non paragonabile ad un processo di cognizione ordinaria – che possano valere come vincoli assoluti per il giudice, dovendosi accertare i presupposti del fallimento con riferimento ai fatti ed alle circostanze soggettive ed oggettive esistenti all’epoca della relativa dichiarazione» (Cass. 8 gennaio 1994, n. 145; Cass. 2 agosto 1990, n. 7760). Tale principio, tuttavia, non può più essere predicato dopo la riforma (in senso contrario, tralaticiamente, Cass. ord. 13 settembre 2011, n. 18762, non massimata sul punto). La legge fallimentare, nella formulazione dettata dal legislatore del 1942, delineava un sistema fortemente permeato dalla ufficiosità della dichiarazione di fallimento; in tale sistema il ricorso del creditore poteva essere ricondotto nell’alveo delle iniziative sollecitatorie dell’esercizio del potere ufficioso. Coerentemente, pertanto, la dichiarazione di nullità della sentenza di fallimento non comportava la necessità di rimettere gli atti al primo giudice, poiché il tribunale era nella condizione, dopo l’annullamento della sentenza, di valutare se promuovere o meno il procedimento per una nuova dichiarazione di fallimento. Soltanto a ridosso della riforma tale sistema era stato messo in crisi dalla giurisprudenza costituzionale che, sia pure con una pronunzia tout court di rigetto (Corte cost. 15 luglio 2003, n. 240) aveva fissato, a salvaguardia del principio di terzietà ed imparzialità del giudice, limiti alla ufficiosità.
Dopo la riforma, tuttavia, venuta meno la possibilità di una dichiarazione d’ufficio del fallimento, è anche venuta meno qualsiasi possibilità di equiparare l’istanza del creditore ad una mera denuncia-segnalazione. Non vi è più dubbio perciò che con la presentazione del ricorso il creditore esercita una azione (in questa sede non rileva stabilire se l’azione sia meramente processuale e diretta all’attuazione di una giurisdizione obiettiva ovvero abbia un contenuto sostanziale) sulla quale non può mancare una pronuncia giurisdizionale. Da quanto detto consegue che, dichiarata la nullità della sentenza di fallimento, deve trovare applicazione l’art. 383 c.p.c. e si deve stabilire se ricorra o meno una ipotesi nella quale il giudice di appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice, come previsto dall’art. 354 c.p.c. Di tale soluzione non vi sarebbe stato motivo di dubitare nel regime dettato dal d.lgs. n. 5/2006 che qualificava come appello l’impugnazione ex art. 18 1. fall, avverso la dichiarazione di fallimento. Dopo il c.d. decreto correttivo n. 169/2007, che ha qualificato tale impugnazione come reclamo, si pone, invece, il problema, segnalato dalla dottrina, di stabilire se, riscontrata la nullità della dichiarazione di fallimento, la Corte di appello debba rimettere le parti innanzi al tribunale, come previsto dall’art. 354 c.p.c. ovvero debba procedere ad una nuova e piena verifica dei presupposti soggettivi ed oggettivi per la dichiarazione di fallimento in modo da giungere ad una pronunzia nel merito. La soluzione al problema condiziona, naturalmente, il provvedimento che deve essere adottato da questa Corte nel caso in cui, come nella specie, la Corte di appello abbia dichiarato la nullità della sentenza di fallimento senza pronunziarsi nel merito e senza rimettere gli atti al primo giudice.
A favore della rimessione al primo giudice milita, anzitutto, il decisivo rilievo che, anche dopo la riforma, il giudizio innanzi alla Corte di appello, pur essendo caratterizzato da una persistenza dei poteri di ufficio, dei quali è espressione il potere della Corte di assumere «anche d’ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari» (art. 18, comma decimo, l. fall.), non ha una natura pienamente devolutiva, ma resta vincolato ai motivi [art. 18, comma secondo, l. fall.: «il ricorso deve contenere … 3) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni»] (v., con riferimento al regime anteriore alla riforma, Cass. 11 giugno 2004, n. 11079; Cass. 23 maggio 2001, n. 7113) . Ciò implica che dichiarata la nullità della sentenza di fallimento, la Corte di appello non disporrebbe, ove non ne fosse investita attraverso i motivi di appello, dei poteri ufficiosi sul piano probatorio che sono riservati al tribunale e che spaziano su tutti i presupposti del fallimento. Dell’esercizio di tali poteri la procedura per la dichiarazione di fallimento non può fare a meno per il perdurante profilo di interesse pubblico che continua a caratterizzarla, malgrado non sia più prevista l’iniziativa d’ufficio. In secondo luogo, in mancanza di una previsione contraria o incompatibile, si deve ritenere che l’art. 354 c.p.c. sia applicabile anche ai reclami camerali (cfr. Cass. 21 marzo 2001, n. 4037; Cass., 2 aprile 1985, n. 2260).
Con il terzo motivo, ulteriormente subordinato, il fallimento deduce la violazione degli artt. 143, 160, 162, 294 c.p.c. e dell’art. 18 l. fall, nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello, pur rilevata la nullità della notificazione, in assenza di una richiesta di rimessione in termini da parte di C. M., possibile in considerazione dell’effetto devolutivo del reclamo, non avrebbe dovuto annullare la sentenza di fallimento, ma avrebbe dovuto rigettare il reclamo.
Il motivo resta assorbito in quanto espressamente subordinato al rigetto del secondo motivo, che invece è stato accolto.
La sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione al motivo accolto, nella parte in cui non ha disposto la rimessione degli atti al Tribunale di Lecco.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo; accoglie il secondo; dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al Tribunale di Lecco in diversa composizione anche per le spese del giudizio di cassazione.
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