Corte di Cassazione sentenza n. 17329 del 11 ottobre 2012
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – RAPPORTO DI LAVORO ALLE DIPENDENZE DI UNA SOCIETA’ DI CAPITALI – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – DISCIPLINARE – DI DIRIGENTE
massima
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In tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di una società di capitali, come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo di gestione e quella di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di un siffatto rapporto tra la società e il socio titolare della maggioranza del capitale sociale, neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista per la validità delle deliberazioni dell’assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell’organo assembleare all’esercizio del potere gestorio e non essendo ragionevole considerare di per sé irrilevante, al fine di escludere il rapporto di subordinazione, la partecipazione diretta del lavoratore all’organo investito di un siffatto potere e ritenere invece ostativa la partecipazione indiretta e mediata alle scelte societarie attraverso il potere di nominare i soggetti che hanno il compito di effettuarle, ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro con la società quando il socio (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell’organo amministrativo) abbia di fatto assunto, nell’ambito della società, l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione.
Le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, secondo e terzo comma, della legge n. 300 del 1970, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa, ed anche nel caso in cui il dirigente sia stato dequalificato – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole), sia se, a base del detto recesso, ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso, dovendosi far riferimento, in mancanza di una specifica disciplina, ai criteri di cui all’art. 2099, secondo comma, cod. civ. Ove, peraltro, il lavoratore, seppure nominativamente indicato quale dirigente (e con attribuzione di un omologo trattamento), non rivesta nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo ai dirigenti convenzionali e, dunque, sia qualificabile come pseudo-dirigente, all’applicazione delle garanzie procedurali previste dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori devono seguire le conseguenze previste, secondo le norme ordinarie, per qualsiasi lavoratore subordinato.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza parziale n. 3143/08, pronunciando sul ricorso proposto da S. A. nei confronti della società S. C. spa, in ordine alla sentenza n. 9272/2006 dell’8-11 maggio 2006 emessa dal Tribunale di Roma, respingeva il quarto motivo di ricorso, quale censura circa la mancata pronuncia in ordine alle istanze risarcitorie e disponeva, con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio.
1.1. Con la successiva sentenza definitiva n. 5614/09, del 30 marzo 2010, la Corte d’Appello di Roma accoglieva l’impugnazione proposta dal S. in ordine alla suddetta sentenza del Tribunale di Roma, per quanto di ragione, e, in parziale riforma della gravata sentenza, dichiarava nullo, ex art. 3 della legge n. 108 del 1990, l’impugnato licenziamento e, per l’effetto, ordinava l’immediata reintegrazione dell’appellante nel posto di lavoro precedentemente occupato; condannava la società appellata al risarcimento del danno patito dal S. che liquidava in misura pari alle retribuzioni non percepite dall’atto del licenziamento e sino al terzo anno successivo al recesso stesso, oltre interessi di legge e rivalutazione a far tempo dalla data del licenziamento per le prime cinque mensilità, sino al soddisfo gli interessi, sino alla data della pronuncia le rivalutazione; dalle singole scadenze per le mensilità successive.
2. Il S. aveva impugnato dinanzi al Tribunale il licenziamento irrogatogli, premettendo, tra l’altro, quanto segue:
che la società convenuta era controllata da S. S. e da suo figlio P. (Amministratore delegato della convenuta) che detenevano, attraverso la spa S. S. & C, il 47 per cento delle azioni, e da F. S. S. e dai suoi quattro figli, tra cui esso ricorrente, che detenevano, tramite la S. srl, il 43 per cento delle azioni, mentre il residuo 10 per cento del capitale era costituito da azioni proprie della società;
che aveva prestato attività lavorativa per la S. C. spa dal 1° dicembre 1992 all’8 luglio 2003, rivestendo, sino al 30 novembre 2004, la qualifica di quadro inquadrato al 7° livello CCNL per l’industria edilizia, e di dirigente dal 1° dicembre 2004;
di essere stato responsabile della direzione sviluppo dei mercati e affari speciali e di seguire le operazioni di finanza e progetto;
che, nonostante l’impegno e i risultati ottenuti, il ricorrente incontrava l’ostilità dell’amministratore delegato nell’esercitare il proprio ruolo di consigliere, in ragione dell’intento di acquisire il controllo della società convenuta;
che il “progetto di scalata” determinava uno svuotamento dei poteri degli altri membri del CdA e il licenziamento dei soggetti appartamenti alla cordata rivale;
che contestualmente alla denuncia all’autorità giudiziaria per gli asseriti abusi dell’A.D., nella gestione della società, venivano licenziati, oltre al ricorrente, altri due fratelli F. S. e C. S. e M. T., senza alcuna reale giustificazione;
che l’opposizione di esso ricorrente all’AD consisteva nel legittimo esercizio delle funzioni del CdA;
che esso ricorrente, nella seduta del 27 maggio 2003, si rifiutava di approvare il bilancio 2002 per l’inadeguatezza ed inaffidabilità delle informazioni fornite al CdA, non avendo potuto esaminare e controllare la documentazione sociale.
che il bilancio, in data 3 luglio 2003, veniva approvato dall’assemblea, nonostante la propria opposizione e quella di altri soci;
che in data 8 luglio 2007 veniva licenziato.
3. Il Tribunale rigettava il ricorso.
4. Ricorre per la cassazione delle statuizioni della Corte d’Appello la società S. C. spa, prospettando nove motivi di ricorso.
5. Resiste con controricorso e ricorso incidentale, articolato in tre motivi S. A..
6. Al ricorso incidentale la società resiste con controricorso.
7. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
8. All’udienza pubblica la società ha depositato note in replica alle conclusioni del P.G., che erano state formulate chiedendo il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente va disposta la riunione dei giudizi, in quanto proposti nei confronti della medesima sentenza.
1.1. Con il primo motivo di ricorso, è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in riferimento all’art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, all’art. 1345 ed all’art. 1324 c.c..
La Corte d’Appello riteneva che le iniziative del S., come azionista, in sede giudiziaria, avevano influenzato il rapporto di lavoro dirigenziale, con conseguente carattere ritorsivo del licenziamento.
Invece, le ragioni di quest’ultimo andavano rinvenute nei contrasti interni e turbative al corretto funzionamento delle strutture e delle attività aziendali.
La sentenza, quindi, aveva esteso l’area di tutela del licenziamento discriminatorio, pur inteso nella sua accezione più ampia, atteso che la Corte d’Appello non accertava motivi illeciti in quanto contrari a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, all’art. 1345 c.c., nonché all’art. 1119 c.c.
Ad avviso della ricorrente sussisteva un operato del S., nella qualità di dirigente del settore estero della S. C., idoneo a far venir meno il rapporto fiduciario con l’amministratore delegato, in quanto il dirigente contestava i dati del bilancio 2002 in relazione ad elementi relativi alle società estere. Esso datore di lavoro, nell’irrogare il licenziamento teneva conto di più ragioni: del conflitto di interessi, dell’attacco all’amministratore delegato, della turbativa al corretto svolgimento dell’attività scoiale. Pertanto, era errata l’applicazione dell’art. 1345 c.c., non sussistendo la rilevanza esclusiva e determinate del motivo illecito nella decisone del recesso, ascritto dalla Corte d’Appello a motivi ritorsivi.
2.1.1 suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente, in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.
Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che questa sia, è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418 c.c., comma 2, artt. 1345 e 1324 c.c..
Esso costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta.
Siffatto tipo di licenziamento è stato ricondotto dalla giurisprudenza di questa Corte, data l’analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dalla legge n. 604 del 1966, art. 4, dalla legge n. 300 del 1970, art. 15, e dalla legge n. 108 del 1990, art. 3 – interpretate in maniera estensiva -, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitone di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (cfr., Cass., n. 17087 del 2011).
Ciò posto, va ribadita la regola che l’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinale la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio.
In ordine alla verificare che il recesso sia stato motivato esclusivamente da un intento ritorsivo, occorre considerare che si tratta di una valutazione che attiene al merito della decisione e che quindi non può essere riformulata in sede di giudizio di legittimità, salvo vizi di motivazione (Cass., n. 6282 del 2011).
Nella fattispecie in esame, la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi con congrua motivazione.
Ed infatti, afferma il giudice di secondo grado che dalla contestazione formulata al S. nell’atto della risoluzione del suo rapporto di lavoro, a firma dell’Amministratore delegato, si evinceva la natura ritorsiva del licenziamento stesso. Ed infatti, nella stessa era affermato che le iniziative ostruzionistiche, di non collaborazione e di dichiarato “attacco” poste in essere nei confronti della mia persona e del ruolo da me legittimamente ricoperto, hanno generato contrasti interni e turbative al corretto funzionamento delle strutture e dell’attività aziendale, rendendo impossibile la normale prosecuzione del tuo rapporto di lavoro con la società.
Ancor prima, nella stessa comunicazione, occorre rilevare che l’AD esponeva che le vicende societarie degli ultimi tempi, scaturite dalle ingiuste iniziative e dai comportamenti conflittuali da assunti dal S. nei confronti suoi e della società, lo inducevano a ritenere che erano venute meno le ragioni fondamentali, irrinunziabili, del rapporto fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale.
Con motivazione adeguata, quindi, che non disattende il riparto dell’onere della prova, in quanto, neh’attribuire il suddetto significato alla lettera di licenziamento, tiene conto dei fatti allegati dal ricorrente, peraltro non contestati dalla società, circa l’assetto societario ed il ricorso all’autorità giudiziaria da parte del S. come azionista (né rileva nell’ambito della ratio deciderteli l’esito positivo o negativo dei relativi giudizi), la Corte d’Appello riteneva che le iniziative per cui veniva irrogato il licenziamento si riferivano al S. come azionista, e che le stesse non dovevano influenzare il rapporto di lavoro dirigenziale, come invece si era verificato, con conseguente carattere oggettivo ritorsivo del licenziamento, così nullo per essere tale motivo illecito l’unico determinante del soggetto al negozio.
Ed infatti, come questa Corte ha avuto modo di affermare, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di una società di capitali, come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo di gestione e quella di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di un siffatto rapporto fra la società e il socio titolare della maggioranza del capitale sociale, neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista per la validità delle deliberazioni dell’assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell’organo assembleare all’esercizio del potere gestorio e non essendo ragionevole considerare di per sé irrilevante, al fine di escludere il rapporto di subordinazione, la partecipazione diretta del lavoratore all’organo investito di un siffatto potere e ritenere invece ostativa la partecipazione indiretta e mediata alle scelte societarie attraverso il potere di nominare i soggetti che hanno il compito di effettuarle, ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro con la società quando il socio (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell’organo amministrativo) abbia di fatto assunto, nell’ambito della società, l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione (Cass., n. 21759 del 2007), fattispecie non verificatasi nel caso in esame, ove comunque il S. era socio di minoranza.
Pertanto come ritenuto dalla Corte d’Appello le condotte poste in essere dal socio/dirigente della società, nell’esercizio dei poteri connessi alla qualità di socio non possono legittimare il licenziamento, sussistendo, diversamente, la contrarietà del motivo, di carattere determinante, alle disposizioni che disciplinano l’esercizio dei diritti sociali.
3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta omessa motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, avendo la sentenza omesso di motivare sulla circostanza per la quale, secondo la società ricorrente, la motivazione del licenziamento faceva riferimento a svariati episodi di tentata violazione, da parte del dirigente, delle disposizioni di sicurezza interne (è richiamato doc. 20 del fascicolo di primo grado).
3.1. Il motivo è inammissibile in ragione della genericità, anche con riguardo al richiamo, non meglio precisato, ad atti del fascicolo di primo grado, e mancanza di autosufficienza, non essendo fatta specificazione dei citati episodi e della specifica deduzione degli stessi dinanzi al giudice di appello al fine di valutarne la rilevanza e il prospettato vizio di motivazione.
4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 2697 c.c.
Assume la ricorrente che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’onere della prova del fattore discriminatorio grava sul lavoratore. Nella specie, invece, il carattere ritorsivo del licenziamento veniva ritenuto tale non sulla base di prove offerte dal S., ma ritenendo che lo stesso risultasse per tabulas dalla interpretazione della motivazione del licenziamento.
4.1. Il motivo non è fondato in ragione delle argomentazioni poste alla base del rigetto del primo e del secondo motivo di ricorso.
5. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione di norme di diritto per errata applicazione dell’art. 3 della legge n. 108 del 1990 e dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Omessa motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.
Ad avviso della ricorrente; se nessun intento ritorsivo, di cui all’art. 3 della legge ” n. 108 del 1990, era ravvisabile nel licenziamento in esame, come dedotto con il primo motivo di ricorso, e se non poteva ritenersi sussistente il motivo illecito esclusivo determinante di cui all’art. 1345 c.c., ugualmente illegittima e non conforme al diritto era la disposta reintegrazione del dirigente, secondo i principi enunciati da Cass. n. 15749 del 2002 e n. 7338 del 2005.
5.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che la non applicabilità della legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, ai licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro menzionati dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, art. 4, non si estende ai licenziamenti discriminatori, quale che sia il numero dei dipendenti e la categoria alla quale appartengono (Cass., n.20500 del 2008). Tale giurisprudenza ha sancito, poi, che l’art. 3, comma 2, della medesima legge n. 108 del 1990, espressamente accomuna nella disciplina protettiva anche i dirigenti.
Peraltro, come recentemente ribadito da questa Corte (Cass., n. 897 del 2011) nel richiamare Cass., S.U., n. 7880 del 2007, le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, secondo e terzo comma, legge n. 300 del 1970, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa, ed anche nel caso in cui il dirigente sia stato dequalificato – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole), sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valicabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso, dovendosi far riferimento, in mancanza di una specifica disciplina, ai criteri di cui all’art. 2099, secondo comma, c.c.. Ove, peraltro, il lavoratore, seppure nominativamente indicato quale dirigente (e con attribuzione di un omologo trattamento), non rivesta nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo ai dirigenti convenzionali e, dunque, sia qualificabile come pseudo-dirigente, all’applicazione delle garanzie procedurali previste dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori devono seguire le conseguenze previste, secondo le norme ordinarie, per qualsiasi lavoratore subordinato.
Pertanto nella statuizione della Corte d’Appello non sono ravvisabili i dedotti vizi.
6. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta violazione di norme di diritto per errata applicazione dell’art. 112 e dell’art. 346 c.p.c.
La sentenza impugnata avrebbe affermato che la decisone del Tribunale aveva ignorato la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970.
Tale circostanza, anche se sembrava estranea alla ratio deciderteli, non poteva essere rilevata d’ufficio, e non aveva costituito oggetto dell’appello.
6.1. Il motivo è inammissibile in quanto la dedotta affermazione costituisce un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, e pertanto non costituente “ratio decidendi” della medesima.
7. Con il settimo motivo di ricorso è prospettata contraddittoria ed insufficiente motivazione su punti essenziali ai fini del decidere.
La ricorrente aveva prospettato al giudice di secondo grado precise argomentazioni che escludevano il carattere ritorsivo del licenziamento e che confutavano gli argomenti dedotti dal S..
In particolare aveva dedotto che molto prima del licenziamento A. S., unitamente a F. S. S., aveva chiesto l’annullamento della delibera consiliare del 31 ottobre 2001 e della delibera consiliare del 7 novembre 2001, domande rigettate dal Tribunale di Roma. Tuttavia a ciò non era seguito alcun licenziamento. Il licenziamento non poteva neppure ricollegarsi alle prese di posizione di A. S. contrarie all’approvazione del bilancio dell’anno 2002, in quanto le stesse si erano già manifestate nella seduta del CdA del 27 maggio 2003 (quando il bilancio era stato già approvato), mentre il licenziamento era stato intimato il 7 agosto 2003, senza alcun richiamo a tali prese di posizione. Né potevano assumere rilievo, in merito, i licenziamenti intimati nell’anno 2002 a C. S. e F. S..
7.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Come questa Corte ha più volte affermato (ex multis, Cass., n. 6288 del 2011), il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
Nella specie la Corte d’Appello, con congrua motivazione, non adeguatamente censurata dalla ricorrente, ha valutato le deduzioni istruttorie ritenendo provato il nesso causale tra l’attività di azionista ed il licenziamento, come si è sopra detto, nell’esaminare il primo ed il secondo motivo di ricorso. Non possono, dunque, trovare ingresso le doglianze della ricorrente che si traducono nella richiesta, inammissibile nel giudizio di legittimità, di una nuova valutazione del merito della controversia.
8. Con l’ottavo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione su punti essenziali ai fini del decidere.
La sentenza sarebbe viziata in quanto avrebbe operato una sorta di fictio, assumendo il licenziamento irrogato al S. per la qualità di azionista e non per l’operato di dirigente che ledeva il rapporto fiduciario.
8.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato, in ragione delle argomentazioni poste a fondamento del rigetto del primo e del secondo motivo di ricorso.
9. Con il nono motivo di ricorso è dedotta contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto decisivo della controversia.
La sentenza impugnata sarebbe contraddittoria nel ritenere che il carattere ritorsivo del licenziamento sarebbe stato confermato dalle ordinanze, intervenute a seguito di denuncia ex art, 2409 c.c. presentata dal S., mentre dette ordinanze avevano rigettato il ricorso ex art. 2409 c.c.
9.1. Anche il suddetto motivo, come il sesto, è inammissibile in quanto ha ad oggetto un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, e pertanto non costituente “ratio decidendi” della medesima.
10. Con il primo motivo del ricorso incidentale è dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
La Corte d’Appello limitava al triennio la condanna risarcitoria in ragione della mancata dimostrazione di eziologia della inoccupazione del dirigente dopo tale tempo rispetto al licenziamento.
In tal modo, riteneva che il S. con il proprio comportamento non avesse limitato i danni derivanti dal licenziamento.
Su tale punto, tuttavia, nessuna eccezione era stata sollevata dalla società, per cui il giudice di secondo grado non avrebbe potuto pronunciare d’ufficio in merito, trattandosi di fattispecie sussumibile nel disposto dell’art. 1227, secondo comma, c.c..
10.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
L’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte sull’art. 1227 c.c., si può riassumere nei seguenti principi (Cass., n. 5862 del 2010, n. 9898 del 2005).
Tale articolo contiene ai commi 1 e 2 due distinte norme che regolano fattispecie diverse: il comma 1 regola il concorso del danneggiato nella produzione del fatto dannoso ed ha come conseguenza una ripartizione di responsabilità, rappresentando un’ipotesi particolare della più generale previsione del concorso di più autori del fatto dannoso (art. 2055 c.c.), nel quale uno dei coautori è lo stesso danneggiato. Il comma 2 contempla una situazione, del tutto diversa, di danno causato dal solo debitore, e quindi non concerne problemi di nesso causale, ma solo di estensione o di evitabilità del danno; si tratta di conseguenze dannose che si sono effettivamente verificate, ma che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la ordinaria diligenza.
Quanto al contenuto dell’ordinaria diligenza esigibile, l’art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche ad evitare le conseguenze dannose. La norma, che onera il danneggiato ad uniformarsi ad un comportamento attivo ed attento dell’altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa “evitabilità” del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell’art. 1175 c.c., applicabile ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un’apprezzabile sacrificio a suo carico.
Il limite alla esigibilità del comportamento attivo è costituito dalla “ordinaria” e non “straordinaria” diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell’evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, come esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici. In applicazione degli esposti principi, questa Corte ha affermato che il lavoratore, licenziato senza giusta causa, deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre, ex art. 1127 c.c., il pregiudizio subito.
La sentenza impugnata ha applicato correttamente tali principi, non avendo il S. dedotto di avere allegato e provato di aver collocato sul mercato del lavoro la propria attività lavorativa e nel ritenere, comunque, in base a quello che si può ritenere un criterio presuntivo, che per un arco di tempo significativo, quale quello di tre anni, sussistesse il nesso eziologico tra licenziamento e inoccupazione.
11. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 1727 e 2729 c.c., in relazione alla statuizione delle richieste risarcitone formulate dal S..
Il ricorrente incidentale deduce di aver prospettato ai giudici di merito di avere subito a causa del licenziamento danni all’onore e al decoro alla reputazione personale e professionale e alla personalità morale. Tali richieste risarcitone avrebbero dovuto essere decise in base all’art. 115 c.p.c., potendo il giudice porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza e per presunzioni.
11.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Ed infatti, grava sul lavoratore l’onere della prova dei danni asseritamente subiti, potendo il giudice, fermo il suddetto onere della prova, in presenza di precise allegazioni, liquidarlo equitativamente mediante il ricorso alla prova presuntiva.
Va, altresì osservato, che il carattere ingiurioso del licenziamento, che, in quanto lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, dà luogo al risarcimento del danno, non si identifica con la mancanza di giustificatezza dello stesso, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso del datore di lavoro, le quali vanno rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio (Cass., n. 6845 del 2010).
12. Con il terzo motivo d’impugnazione il S. ha dedotto, in ordine alla statuizione oggetto della sentenza parziale, il vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c..
Esso ricorrente incidentale, aveva dedotto in appello di avere subito, a causa del licenziamento, i suddetti danni.
In merito, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la ritenuta legittimità del licenziamento assorbiva le questioni risarcitone. Ad avviso del S., in tal modo, la Corte d’Appello avrebbe violato l’art. 112 c.p.c. dal momento che lo stesso non aveva censurato l’omessa pronuncia sulle istanze risarcitone ma piuttosto riproposto le stesse dinanzi al giudice di appello.
12.1. Il motivo non è fondato. Ed infatti come affermato dal giudice di appello, che ha poi esaminato le richieste risarcitone (con statuizione su cui il ricorrente ha articolato il secondo motivo di ricorso), nel momento in cui ha accolto l’impugnazione del licenziamento, il giudice di primo grado, correttamente, faceva conseguire, al rigetto di tale domanda, l’assorbimento delle istanze risarcitone.
13. Pertanto, entrambi i ricorsi devono essere rigettati.
14. In ragione della parziale reciproca soccombenza, le spese di giudizio sono compensate tra le parti in ragione di un terzo sull’intero liquidato come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa tra le parti le spese di giudizio in ragione di un terzo. Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese di giudizio in misura dei residui due terzi, liquida le spese in complessivi euro quarantacinque per esborsi, euro seimila per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA.
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