Corte di Cassazione sentenza n. 17348 del 11 ottobre 2012
SICUREZZA SUL LAVORO – MALATTIA PROFESSIONALE – RICOSTITUZIONE DI UNA RENDITA DA MALATTIA PROFESSIONALE – RIDUZIONE DELLA CAPACITA’ LAVORATIVA
massima
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Il diritto alla rendita per infortunio sul lavoro o malattia professionale ha la sua causa nella riduzione della capacità di lavoro. Questo legame causale condiziona non solo la nascita del diritto ma anche il suo successivo sviluppo: l’incremento o il decremento della riduzione della capacità lavorativa determinano (salvi i limiti temporali nei quali è prevista la revisione ex artt. 83 e 137 del D.P.R. n. 1124 del 1965) l’incremento o il decremento della rendita. Ne consegue che al fine di accertare la permanenza del diritto in oggetto assume rilievo esclusivamente la verifica dell’attualità della riduzione della capacità lavorativa, mentre è irrilevante il raffronto tra la situazione esistente al momento della suddetta verifica e la pregressa situazione di riduzione della suddetta capacità.
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FATTO
Con sentenza in data 11-10-2001 il Giudice del lavoro del Tribunale di Bari respingeva il ricorso proposto da (Omissis) nei confronti dell’INAIL volto alla ricostituzione di una rendita da malattia professionale del 65% in luogo del 45% cui era stata ridotta dall’istituto a seguito di revisione.
Il (Omissis) proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.
L’INAIL si costituiva e resisteva al gravame.
Con sentenza depositata il 6-2-2006 la Corte d’Appello di Bari rigettava l’appello e compensava le spese.
Per la cassazione di tale sentenza il (Omissis) ha proposto ricorso con due motivi.
L’INAIL ha resistito con controricorso ed infine ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
DIRITTO
Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articoli 3, 74 e 83 e dell’art. 2697 c.c., deduce che “la revisione operata dall’INAIL è del tutto illegittima poiché non sorretta da alcun sopravvenuto miglioramento delle condizioni cliniche del ricorrente”, non avendo peraltro l’Inail “mai fornito la prova di tale miglioramento” e, tanto premesso, sostiene che “la Corte barese non disponeva di alcun elemento, sul piano probatorio, che potesse indurla a ritenere legittima la riduzione” operata dall’istituto, non essendo emerso alcun rilevante miglioramento dalle risultanze delle CTU espletate in primo e secondo grado, entrambe fondate su una “valutazione empirica e mai confrontata con quella precedente”.
Il motivo è infondato.
Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, “il diritto alla rendita per infortunio sul lavoro o malattia professionale ha la sua causa nella riduzione della capacità di lavoro. Questo legame causale condiziona non solo la nascita del diritto ma anche il suo successivo sviluppo: l’incremento o il decremento della riduzione della capacità lavorativa determinano (salvi i limiti temporali nei quali è prevista la revisione Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, ex articoli 83 e 137) l’incremento o il decremento della rendita. Ne consegue che al fine di accertare la permanenza del diritto in oggetto assume rilievo esclusivamente la verifica dell’attualità della riduzione della capacità lavorativa, mentre è irrilevante il raffronto tra la situazione esistente al momento della suddetta verifica e la pregressa situazione di riduzione della suddetta capacità” (v. Cass. 14-10-2000 n. 13735, Cass. 23-2-2004 n. 3550). Del resto è consolidato il principio secondo cui “il sistema dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è ispirato all’esigenza di adeguare, per quanto possibile, la prestazione all’effettiva misura della riduzione dell’attitudine al lavoro”, con la conseguenza che “in sede giudiziale, sia che si tratti di prima liquidazione, sia che si tratti di revisione, l’oggetto del giudizio verte sull’accertamento dell’effettivo grado di riduzione dell’idoneità lavorativa” (v. Cass. 27-12-2011 n. 28954, Cass. 30-7-2002 n. 11297).
Legittimamente, quindi, la Corte di merito ha incentrato la decisione su tale accertamento.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alle “specifiche contestazioni attinenti il metodo seguito dal consulente d’ufficio per valutare nella misura del 45% la riduzione della capacità lavorativa”.
In particolare il ricorrente in primo luogo lamenta una contraddittorietà tra la valutazione del 45% e la affermazione secondo cui tale dato “è da ritenersi stabilizzato dal 1999, come documentato dalla scintigrafia miocardica”, ciò significando – a suo dire – “che la patologia non era e non è affatto migliorata”.
La censura è palesemente infondata non solo in quanto, come si è detto, è irrilevante il raffronto tra la situazione al momento della revisione e la situazione pregressa, bensì anche perché in effetti non vi è contraddizione alcuna tra l’accertamento de 45% di inabilità all’epoca della revisione della rendita dal 1-6-1997 e l’accertamento della stabilizzazione di tale dato documentata dal 1999.
Il ricorrente lamenta poi insufficienza della motivazione per aver la Corte di merito fatta propria la valutazione del CTU espressamente fondata sulla diagnosi di “cardiopatia ischemica in iperteso in buon compenso farmacologico”, inquadrabile in seconda classe funzionale NYHA, e sulla base della media (45%) della fascia percentuale (41%/50%) prevista dalle tabelle sulla invalidità civile del 1992, in considerazione della mancanza di “specifici elementi che inducano a propendere per la scelta verso il limite più basso o quello più alto”, il tutto senza un raffronto con la pregressa valutazione.
Anche tale censura non merita accoglimento in quanto, come è stato affermato da questa Corte, “in tema di determinazione della riduzione della attitudine al lavoro in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale, sia in sede di prima liquidazione che di revisione della rendita in atto, la scelta dei mezzi e dei metodi di accertamento è affidata al giudizio professionale del consulente tecnico d’ufficio, ed è censurabile in cassazione solo quando dall’esame della consulenza fatta propria dal giudice emerga l’assoluta mancanza di correlazione tra la sintomatologia riscontrata e la diagnosi espressa, o comunque la incongruenza dei mezzi utilizzati per giungere alla diagnosi definitiva” (v. Cass. 30-7-2002 n. 11297).
Del resto, come pure è stato precisato e va qui ribadito, “qualora il giudice di merito fondi la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, affinché i lamentati errori e le lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza è necessario che essi si traducano in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche e scientificamente errate, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali non possa prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, non essendo sufficiente la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni del consulente e quella della parte circa l’entità e l’incidenza del dato patologico; al di fuori di tale ambito, la censura di difetto di motivazione costituisce un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico, che si traduce in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice” (v. fra le altre Cass. 17-4-2004 n. 7341, Cass. 28-10-2003 n. 16223, Cass. 25-6-2004 n. 11894).
Il ricorso va pertanto respinto.
Infine sulle spese non si provvede, ratione temporis, in base al testo originario dell’art. 152 disp. att. c.p.c., vigente anteriormente al Decreto Legge n. 269 del 2003, conv. in Legge n. 326 del 2003, essendo la nuova disciplina applicabile ai soli ricorsi conseguenti a fasi di merito introdotte in epoca posteriore all’entrata in vigore dell’indicato decreto legge (2-10-2003) (v. Cass. 30-3-2004 n. 6324, Cass. 12-12-2005 n. 27323).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.
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