CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 luglio 2013, n. 17590
Lavoro – Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Richiesta di aspettativa prima della scadenza – Previsione del contratto collettivo nazionale di lavoro
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domandai S. B., proposta nei confronti della società E.I. di cui era dipendente, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto. La predetta Corte poneva a base del decisum il rilievo fondante secondo il quale il licenziamento doveva ritenersi illegittimo in quanto la società non aveva tenuto conto che la lavoratrice, precedentemente alla scadenza del comporto, aveva presentato, a norma dell’ art. 19 del CCNL metalmeccanici, richiesta di aspettativa. Quanto all’aliunde perceptum la Corte territoriale rilevava che la società “non aveva fatto allegazioni precise circa eventuali rapporti di lavoro intrattenuti dalla lavoratrice oltre quello dalla stessa dichiarato al giudice”.
Avverso questa sentenza la società E.I. ricorre in cassazione sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la parte intimata che deposita, altresì, procura a nuovo difensore.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la società ricorrente, deducendo “vizio di motivazione”, sostiene che la sentenza difetta di chiarezza e completezza argomentativa.
Rileva il Collegio che la critica per come articola è inammissibile.
Invero il ricorrente investendo genericamente e nella sua totalità la sentenza di appello rilevando una carenza generale della relativa motivazione non indica in alcun modo su quale fatto storico o normativo controverso e decisivo per il giudizio vi sarebbe omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.
Questa Corte ha avuto modo di precisare che il motivo di ricorso con cui – ai sensi dell’art. 360, n. 5 cpc così come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 cod. civ., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo (Cass. 5 febbraio 2011 n. 2805 e Cass. 27 luglio 2012 n. 13457). Diversamente non avrebbe alcun significato la nuova formulazione del richiamato n. 5 dell’ art. 360 cpc e l’esplicito riferimento ivi contenuto non più al “punto” bensì al “fatto”.
Né può sottacersi che la denuncia della insufficienza delle argomentazioni di diritto sviluppate in sentenza non è censurabile ex art. 360, n. 5, cpc in quanto il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, n. 5, cpc può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche; in questo secondo caso, che invece ricade nella previsione dell’art. 360, n. 3, cpc il vizio di motivazione in diritto non può avere rilievo di per sé, in quanto esso, se il giudice del merito ha deciso correttamente le questioni di diritto sottoposte al suo esame, supportando la sua decisione con argomentazioni inadeguate, illogiche o contraddittorie, o senza dare alcuna motivazione, può dar luogo alla correzione della motivazione da parte della Corte di Cassazione (per tutte, Cass. 6 agosto 2003 n. 11883 e Cass 9 giugno 200 6 n. 13435).
Con la seconda censura la società, allegando violazione e falsa applicazione dell’art. 19 del ccnl metalmeccanici in relazione all’art. 2110 c.c., richiama giurisprudenza di questa Corte formatasi in tema di comporto ed afferma che il diritto alla aspettativa successiva va esercitato al momento della scadenza del comporto in quanto non esiste il dovere di preannunciare al lavoratore l’ intenzione di non licenziare o di sollecitare il lavoratore a prendere l’ aspettativa.
Con la terza critica la società, prospettando violazione e falsa applicazione del codice civile materia d’interpretazione del contratto (artt. 1362 e ss c.c.) in relazione all’art. 19 disc. Spec. Parte I del CCNL metalmeccanici, argomentando diffusamente sulla gerarchia delle regole interpretative, assume che “la semplice lettura dell’articolo evidenzia: se non c’è malattia non c’è tutela; non esiste la regola mandando due righe prima dell’estate a valere per il futuro e vediamo ma occorre che lo stato morboso sia sussistente, documentato e comunicato in coerenza temporale con il periodo di conservazione del posto”.
Con la quarta censura la società assumendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto – art. 1375 c.c. – richiama la sentenza di questa Corte n. 14490 del 2000 e rileva che “l’aspettativa non è uno scudo contro il recesso ma a favore della malattia e solo in caso di gravità accertato o da accertare a carico dell’eccipiente”.
Ritiene la Corte che detti motivi vanno tratti unitariamente in quanto investono tutti direttamente ed indirettamente la interpretazione fornita dalla Corte del merito della declaratoria contrattuale relativa all’aspettativa di cui all’art. 19 del CCN denunciato.
Osserva, preliminarmente, questo giudice di legittimità che i motivi in parola sono al limite della ammissibilità in quanto l’esposizione degli stessi è alquanto generica si che non è consentita l’immediata e sicura individuazione dell’errore in cui secondo la società ricorrente sarebbe consistita la lamentata violazione di norma di legge (Cfr. per tutte Cass. 6 luglio 2007 n. 15263).
Tenendo presente i limiti propri di censure di tal genere, dove la critica più che dedotta dalle argomentazioni poste a base delle stesse va ricostruita attraverso in iter sostanzialmente logico-intuitivo,rileva il Collegio che siffatte censure sono infondate.
Innanzitutto osserva la Corte che tutte le questioni afferenti la sussistenza o meno di una malattia durante il periodo di aspettativa in quanto non trattate nella sentenza impugnata devono considerarsi, difettando qualsiasi specificazione da parte della società ricorrente circa lo loro deduzione nel giudizio di merito, nuove e come tali inammissibili in sede di legittimità (Cass. 2 aprile 2004 n. 6542, Cass. Cass. 21 febbraio 2006 n. 3664, Cass. 28 luglio 2008 n. 20518 e da ultimo Cass. 26 marzo 2012 n. 4787).
Tanto precisato ritiene il Collegio che l’interpretazione fornita dal giudice del merito secondo la quale, la declaratoria contrattuale di cui al citato art. 19, che prevede la possibilità da parte del lavoratore di una richiesta di usufruire di un periodo di aspettativa in considerazione del superamento dei limiti di conservazione del posto di lavoro, va intesa nel senso che le parti sociali non hanno subordinato la presentazione dell’ istanza all’avvenuto superamento del periodo di comporto, bensì al suo approssimarsi è conforme ai canoni interpretativi di cui all’ art. 1362 e seg. c.c. Invero in tal senso milita il tenore letterale e la ratio della clausola collettiva che, prescindendo del tutto dalla previsione di termini di decadenza di qualsiasi genere, rende palese la volontà della parti di svincolare la richiesta da qualsiasi ambito temporale. Del resto se la clausola dovesse interpretarsi nel senso che la richiesta è possibile solo quando è scaduto il termine di comporto la stessa non avrebbe alcun significato in quanto non idonea a comportare uno spostamento in avanti del periodo di conservazione del posto di lavoro poiché, appunto, posteriore alla sua originaria scadenza.
Del resto la ratio della declaratoria in questione non può che essere identificata nella esigenza di assicurare al lavoratore un ulteriore periodo di sospensione del rapporto di lavoro, sia pure senza retribuzione e decorrenza di anzianità per nessun istituto (così art. 19 in esame). Gli stessi principi di correttezza e buona fede invocati dalla società ricorrente inducono ad avvalorare la criticata esegesi in quanto all’opposto sarebbe rimesso al mero arbitrio datoriale esercitare o meno il potere di recesso a fronte della presentazione di una richiesta di aspettativa dopo la scadenza del periodo di comporto.
I richiamati criteri, anzi, consentono di ritenere, come affermato dalla Corte del merito, che la richiesta possa essere presentata all’approssimarsi del superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro per evitare, appunto, il verificarsi della scadenza del comporto.
La mancanza nella clausola collettiva di una precisa indicazione temporale fa si che l’esercizio da parte del lavoratore di tale facoltà avvenga, rispetto alla scadenza del comporto in parola, con un anticipo accettabile, secondo i richiamati principi di buona fede e correttezza tenuto conto della specifica posiziono di entrambe le parti del rapporto di lavoro.
La Corte del merito proprio con riferimento alla posizione delle parti del rapporto di lavoro – e cioè considerando la difficoltà del computo del comporto da parte del lavoratore, la previsione contrattuale di chiedere al datore un riepilogo delle assenze, nella specie infruttuosamente chiesto, e la possibilità con gli strumenti forniti dalla tecnologia da parte del datore di avere cognizione in tempo reale della situazione di ogni singolo lavoratore – ha, con giudizio di fatto adeguatamente motivato e come tale sottratto al sindacato di questa Corte, ritenuto tempestiva la richiesta presentata il 30 luglio 2005, “prima che iniziasse il periodo di ferie, ritenendo a ragione che il periodo di comporto sarebbe scaduto il 5 settembre 2005”.
Con il quinto motivo la società ricorrente, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della Legge n. 300 del 1970, denuncia quanto alle conseguenze patrimoniale di cui al richiamato art. 19 che :”il periodo di aspettativa non è stato concesso ma la lavoratrice è rimasta assente godendo delle provvidenze per i dipendenti malati. Se poi si chiede alla Corte (cd al Tribunale) la verifica a mezzo dichiarazioni fiscali alla Agenzie delle entrate è perché le Aziende non hanno mezzi di accertamento quali quelli di cui è dotata la Pubblica Amministrazione. Se ci si ferma alle dichiarazioni della interessata non si ha verifica alcuna. Si omette un accertamento dovuto anche d’ufficio”.
Rileva il Collegio vi a censura è inammissibile per violazione del combinato disposto degli artt. 360, 1° comma, e art. 366, 1° comma n. 4, cpc essendo il motivo generico.
Il motivo è specifico, infatti, solo ed in quanto la relativa censura consente di delimitare esattamente la questione devoluta e non è estranea a tale delimitazione la precisazione “contenutistica” degli esatti termini del devolutum. E’ indispensabile, quindi, una critica adeguata e specifica della decisione impugnata che consenta al giudice di legittimità di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal giudice di secondo grado (Cfr. per tutte Cass. 18 maggio 2005 n, 10420 secondo cui il ricorrente – incidentale, come quello principale – ha l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata).
Nella specie, infatti, le argomentazioni poste a base della critica in esame per la loro evidente genericità non consentono in alcun modo a questa Corte di comprendere l’errore in cui sarebbe incorso il giudice di appello, né di quello che si è inteso devolvere a questa Corte. In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente società al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 50,00 per esborsi ed e 4000,00 per compensi oltre accessori di legge.
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