CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 luglio 2013, n. 17713
Rapporto di lavoro – Licenziamento – Per giusta causa – Insubordinazione
Svolgimento del processo
1.- La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello di S. T. avverso la sentenza del Tribunale di Siracusa del 20 novembre 2007, di rigetto della domanda del T. diretta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento in tronco intimatogli il 2 marzo 2006 da parte della datrice di lavoro (…) S.S.C. s.r.l. per asserita insubordinazione, consistente nel rifiuto di svolgere il “servizio di permanenza di direzione”.
La Corte d’appello di Catania, per quel che qui interessa, precisa che:
a) in base ad un consolidato indirizzo della giurisprudenza della Corte di cassazione è legittimo il rifiuto da parte del lavoratore di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettantegli, sempre che tale rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e sia conforme a buona fede (vedi Cass. 12 febbraio 2008, n. 3304);
b) per stabilire se, alla base del rifiuto, vi sia un illegittimo esercizio dei poteri datoriali si devono individuare la qualifica e le mansioni attribuite al dipendente;
c) il giudice di primo grado, in applicazione di tali principi, ha individuato come questione fondamentale da risolvere nella presente controversia quella dell’esigibilità o meno del compito di “servizio di permanenza di direzione”;
d) è da condividere la ricostruzione del quadro normativo di riferimento effettuata dal Tribunale per giungere all’affermazione della sussistenza della suddetta esigibilità, ai sensi dell’art. 104 (recte: 107 n.d.r.) CCNL di settore (riguardante la categoria dei Quadri) e della clausola del mansionario aziendale, ove espressamente la suddetta mansione è inserita tra le funzioni attribuite al Quadro-Capo Settore (Business controller);
e) peraltro, ogni contestazione sulla riconducibilità della mansione – “servizio di permanenza di direzione” – di cui si discute alla qualifica di attribuzione può dirsi superata dalle dichiarazioni rese dal T. in sede di interrogatorio libero nella fase cautelare, che hanno natura confessoria;
f) a ciò consegue che nessuna censura può essere proposta in merito alla mancata ammissione, da parte del primo giudice, di alcuni capitoli di prova testimoniale indicati nel ricorso introduttivo del giudizio – di cui, peraltro, sarebbe vietata, nel giudizio di appello, l’ammissione, ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. – nonché con riguardo alla deposizione del teste Cavalieri, comunque non suscettibile di dare adito ad effettivi dubbi di attendibilità;
g) neppure può essere condivisa la censura secondo cui il rifiuto di svolgere la mansione in oggetto sarebbe stato giustificato dall’assunzione della correlativa responsabilità penale;
h) infatti, la eventuale esposizione a responsabilità penale non equivale a subire sicuramente una condanna in sede penale anche per fatti commessi da altri e quindi in un momento diverso da quello in cui il lavoratore si sarebbe trovato di turno a svolgere le mansioni in contestazione;
i) del tutto privo di riscontri probatori è rimasto l’assunto secondo cui, prima del trasferimento a Siracusa, il T. sarebbe stato esentato dallo svolgimento del “servizio di permanenza di direzione” in base ad una prassi aziendale;
l) neanche merita accoglimento la censura secondo cui il comportamento posto in essere non darebbe luogo ad una giusta causa di licenziamento;
m) la datrice di lavoro, ponendo l’accento sulla qualifica del lavoratore, ha ritenuto la sua condotta tale da fare venire meno il vincolo di fiducia che connota il rapporto di lavoro, considerando anche che gli altri dipendenti con pari qualifica avevano accettato di svolgere, a turno, proprio le mansioni che il ricorrente non aveva voluto svolgere;
n) trattandosi di una condotta implicante la violazione del dovere di fedeltà non poteva che essere sanzionata con la sanzione dotata di massima afflittività, a nulla rilevando la brevità dell’arco temporale in cui il rifiuto si era manifestato.
2.- Il ricorso di S. T. domanda la cassazione della sentenza per undici motivi; resiste, con controricorso, SSC S.S.C. s.r.l.
Motivi della decisione
I – Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Il ricorso è articolato in undici motivi.
1) Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 415, 420 e 421 cod. proc. civ., nonché falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ.
Si contesta; a) la decisione della Corte d’appello di ritenere – a fronte del solo interrogatorio libero del lavoratore – esaurita la istruttoria della causa e di non ammettere gli articolati mezzi di prova proposti; b) la attribuzione, da parte della Corte territoriale, di valore confessorio all’interrogatorio non formale reso dal ricorrente ex art. 420 cod. proc. civ. su cui poggia la statuizione secondo cui la richiesta di prova in appello non è ammissibile ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ.; c) la statuizione di sussistenza della giusta causa del licenziamento perché basata soltanto sulla mansione accessoria di espletamento del servizio di direzione di permanenza, prescindendo da una valutazione unitaria delle prestazioni del lavoratore e del suo comportamento.
2) Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 246 cod. proc. civ.
Si censura la sentenza impugnata perché la Corte d’appello (al pari del Giudice di primo grado) avrebbe fondato il proprio convincimento solo sulla testimonianza del teste Cavalieri, direttore dell’ipermercato di Siracusa, che era già stato sentito come delegato del legale rappresentante della società in sede di procedimento cautelare ex art. 700 cod. proc. civ. e che aveva irrogato al T. tutte le sanzioni disciplinari che hanno preceduto il licenziamento.
Si rileva che, come ritualmente eccepito dal lavoratore, avrebbe dovuto essere pronunciata l’incapacità o l’incompatibilità a deporre del suddetto teste o almeno avrebbe dovuto essere affermata l’assenza di imparzialità e di obiettività della relativa deposizione, considerato che egli aveva, in sede cautelare, reso dichiarazioni per il datore di lavoro.
3) Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 15 della legge n. 604 del 1966 e violazione delle norme del CCNL 2 luglio 2004 per il Commercio e Aziende del Terziario – Distribuzione e Servizi, nonché dell’art. 2119 cod. civ.
Si contesta la mancata indagine, da parte della Corte territoriale, della sussistenza del motivo illecito del licenziamento, rappresentato dal prospettato intento persecutorio rinvenibile nella richiesta di espletamento del compito aggiuntivo di espletamento del servizio di permanenza di direzione, che comportava un demansionamento e l’assunzione di responsabilità penali, come già in passato sperimentato dal lavoratore.
Si sostiene, inoltre, che, a fronte dell’esatto e completo svolgimento delle mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza di Business controller, il rifiuto di effettuare esclusivamente il suddetto compito aggiuntivo non avrebbe potuto essere configurato come insubordinazione legittimante il licenziamento per giusta causa, tanto più a fronte della mancata risposta da parte della datrice di lavoro alla richiesta di chiarimenti in merito al fondamento normativo di tale mansione aggiuntiva nei confronti di un quadro non avente mansioni di direzione e della mancata accettazione da parte della stessa società della soluzione della controversia in sede arbitrale.
4) Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 107 del CCNL 2 luglio 2004 per il Commercio e Aziende del Terziario – Distribuzione e Servizi.
Si ribadisce l’estraneità del servizio di permanenza di direzione dai compiti propri della qualifica di appartenenza del T. e si precisa che la percezione dell’indennità per responsabilità gestionale e di coordinamento da parte del Business controller non poteva comportare l’assunzione di responsabilità penale per la vendita di merce non regolare in seguito ad accertamenti ispettivi che invece erano proprie di chi svolgeva le funzioni di direttore dell’ipermercato.
Per tale ragione il ricorrente, che si era dichiarato disponibile ad accettare di svolgere il servizio aggiuntivo in oggetto se fosse stato esonerato dalla connessa responsabilità penale, si è limitato a rifiutare una imposizione del datore di lavoro – senza creare gravi disagi nell’organizzazione del lavoro – piuttosto che commettere un atto di insubordinazione.
5) Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione del CCNL 2 luglio 2004 per il Commercio e Aziende del Terziario – Distribuzione e Servizi.
Si ribadisce che in base al contratto di lavoro e al libro illustrativo delle mansioni in atti (diverso dal cd. mansionario cui ha fatto riferimento la Corte territoriale, che è da considerare solo un foglio della turnazione del servizio) il “servizio di permanenza di direzione” non rientra tra i compiti del Business controller perché è svolto dal Quadro-Capo settore, mentre il Business controller non è un capo settore.
Si aggiunge che il rifiuto opposto dal T. non ha arrecato alcun pregiudizio alla datrice di lavoro, che del resto non ha offerto alcuna prova al riguardo, come invece avrebbe dovuto fare.
6) Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del CCNL Accordo 2 luglio 2004 per il Commercio e Aziende del Terziario – Distribuzione e Servizi.
Si sottolinea che il T., dopo aver subito dei procedimenti penali per reati in materia di violazioni della normativa alimentare e commerciale durante lo svolgimento del “servizio di permanenza di direzione” nell’Ipermercato di Bari, non ha più svolto il suddetto servizio aggiuntivo con il consenso dei superiori, anche perché si trattava di un compito estraneo alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza. All’arrivo all’Ipermercato di Siracusa la situazione è cambiata e l’espletamento del suddetto servizio aggiuntivo gli è stato imposto, di qui il suo rifiuto che certamente non avrebbe potuto essere considerato idoneo a legittimate il licenziamento.
7) Con il settimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ., nonché degli artt. 212 e 217 del CCNL 2 luglio 2004 per il Commercio e Aziende del Terziario – Distribuzione e Servizi.
Il compito aggiuntivo di espletamento del “servizio di direzione di permanenza” attribuisce a chi lo svolge funzioni di direttore dell’Ipermercato, con l’assunzione della responsabilità di rispondere alle autorità di controllo delle sanzioni ed eventuali condanne penali connesse.
Per tale ragione il T. – che aveva sempre svolto correttamente il proprio lavoro – ha dichiarato di non essere disponibile a svolgere il suddetto compito aggiuntivo, senza avere preventivamente ricevuto chiarimenti sulla relativa base normativa da parte della datrice di lavoro, offrendo la propria disponibilità alla relativa esecuzione solo previo esonero da responsabilità penale.
Il datore di lavoro non ha mai voluto dare i suddetti chiarimenti e si è anche rifiutato di sottoporre la questione ad un Collegio arbitrale presso l’Ufficio del lavoro, come richiesto dall’interessato.
Si sottolinea che è, quindi, evidente come il comportamento del lavoratore non configurabile come un mero rifiuto di eseguire una mansione impartitagli dal datore dì lavoro e rientrante nella qualifica di appartenenza, ma come un rifiuto giustificato di svolgere un compito aggiuntivo – dal quale era stato esonerato dopo aver subito alcuni procedimenti penali – in attesa di avere chiarimenti dal datore di lavoro.
In tale situazione la condotta posta in essere dal lavoratore non poteva certamente dare luogo ad un licenziamento per giusta causa.
8) Con l’ottavo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 212 e 217, primo e secondo comma, del CCNL 2 luglio 2004 per il Commercio e Aziende del Terziario – Distribuzione e Servizi.
Si sostiene che le pretese minacce e la richiesta di esosi risarcimenti del danno da parte del ricorrente sarebbero destituite di fondamento e sfornite di prova sicché non potrebbero essere poste a base del licenziamento per giusta causa.
9) Con il nono motivo si denuncia erronea valutazione delle prove testimoniali e omessa e insufficiente motivazione al riguardo.
Si sostiene che sarebbe viziata la motivazione della sentenza impugnata ove, sulla base di una erronea valutazione delle deposizioni testimoniali, ha ricostruito la vicenda in modo distoirto attribuendo al ricorrente un inesistente intento di insubordinazione.
10) Con il decimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1460 cod. civ.
Si rileva che, in base alla giurisprudenza di legittimità, il licenziamento per disobbedienza non può essere ritenuto illegittimo se il comportamento addebitato al lavoratore abbia scarsa importanza ovvero se il lavoratore confidava erroneamente nella tolleranza del datore di lavoro o anche se il lavoratore aveva chiesto una verifica della gravosità delle mansioni assegnategli.
11) Con l’undicesimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod.civ.
La valutazione della giusta causa del licenziamento avrebbe dovuto essere fatta sulla base dell’esame del complessivo comportamento del T. nel corretto svolgimento dell’attività di Business controller e dando adeguata considerazione al fatto che egli si è limitato a sottrarsi all’illegittima imposizione del datore di lavoro di assumere un compito aggiuntivo ed estraneo alla propria qualifica, il cui svolgimento già in passato lo aveva esposto a responsabilità penali, come tali incidenti sulla sua personale libertà e moralità.
II – Esame delle censure
2.- Il primo motivo è da accogliere per la parte relativa alla contestazione dell’attribuzione, da parte della Corte d’appello, di valore confessorio alle dichiarazioni rese dal lavoratore, nella fase cautelare, in sede di interrogatorio libero, con le conseguenti statuizioni assunte dalla Corte stessa in merito allo svolgimento dell’attività istruttoria.
La suddetta statuizione si pone, infatti, in palese contrasto con il costante indirizzo di questa Corte secondo cui le dichiarazioni rese in sede d’interrogatorio libero o non formale – che è istituto finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di funzione probatoria a carattere meramente sussidiario – non possono avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell’art. 229 cod. proc. civ., ma possono solo fornire al giudice elementi sussidiari di convincimento utilizzabili ai fini del riscontro e della valutazione delle prove già acquisite (vedi, per tutte: Cass. 27 luglio 2010, n. 17239; Cass. 26 agosto 2003, n. 12500).
Nella specie, poi, la statuizione stessa risulta altresì contraddittoria rispetto all’irrilevanza attribuita – sia pure al diverso fine dell’attendibilità e incompatibilità del teste – al fatto che il contestato teste Cavalieri, all’epoca dei fatti direttore dell’Ipermecato di Siracusa, fosse stato sentito, come delegato del legale rappresentante della società datrice di lavoro, nella fase cautelare del procedimento.
Il medesimo primo motivo risulta, invece, formulato senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione per la parte in cui viene contestata la mancata ammissione degli “articolati mezzi di prova proposti”, senza la precisa indicazione, nel ricorso stesso, delle circostanze oggetto della prova (trascrivendone il contenuto essenziale) e senza fornire, al contempo, a questa Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, al fine di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico, secondo quanto stabilito, rispettivamente, a pena di inammissibilità dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc, civ. e a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).
3.- Il secondo motivo è inammissibile in quanto, a fronte di una specifica motivazione sull’ammissibilità del teste Cavalieri, il ricorrente – anche in questo caso in contrasto con il principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – non ha ritualmente allegato di avere proposto l’eccezione di incapacità a testimoniare in sede di assunzione della prova o nella prima difesa successiva in primo grado, salvo restando che l’esclusione della incapacità a testimoniare, prevista dall’art. 246 cod. proc. civ., non esclude, comunque, la necessaria valutazione della attendibilità e della intrinseca credibilità del teste, nella specie effettuata, come si è detto (vedi, per tutte: Cass. 2 febbraio 2011, n. 3051 e Cass. 25 gennaio 2012, n. 1022).
4.- Anche l’ottavo motivo è inammissibile perché si riferisce ad una questione – pretese minacce e richiesta di esosi risarcimenti del danno da parte del ricorrente – che non trova alcun riscontro nel thema decidendum quale indicato nella sentenza impugnata, da cui risulta che il licenziamento è stato irrogato per i fatti contestati con lettera del 10 febbraio 2006, tra i quali non sono compresi quelli cui si riferisce l’ottavo motivo in oggetto.
5.- Il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e il settimo motivo – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono, invece, da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
La questione centrale di tutta la controversia è rappresentata dalla esposizione a responsabilità penale connessa allo svolgimento del “servizio di permanenza di direzione” – servizio, per il ricorrente, non compreso tra le proprie mansioni di inquadramento, che erano quelle di Business controller e non quelle di Capo settore – che è la ragione determinante il rifiuto del T. di espletare il suddetto servizio presso l’Ipermercato di Siracusa, alla quale l’interessato ha attribuito tale importanza per il fatto di avere in precedenza subito procedimenti penali proprio a causa dell’accettazione dello svolgimento dell’indicato servizio, presso altri punti vendita della SSC.
5.1.- Ne consegue che, sulla base dei consolidati e condivisi indirizzi della giurisprudenza di legittimità, la Corte territoriale per giungere ad affermare che il suddetto rifiuto – comunque da valutare nell’ambito del complessivo comportamento del lavoratore, in tutti i suoi elementi soggettivi ed oggettivi, cosa che non risulta essere stata fatta in modo adeguato – era tale da costituire una giusta causa di licenziamento, avrebbe dovuto:
a) stabilire se – sulla base della pacifica premessa che il T. non aveva rifiutato lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa, ma solo quello di una specifica mansione – tale ultima prestazione era o meno conforme alla qualifica di appartenenza;
b) precisare il contenuto della prestazione del “servizio di permanenza di direzione” nell’ambito dell’Ipermercato e le ragioni per le quali ad essa si collega l’eventualità di essere esposti a responsabilità penale;
c) verificare se la motivazione del rifiuto – pacificamente non consistente, di per sé, del carattere dequalificante della mansione, ma nel desiderio di evitare il rischio di subire eventuali procedimenti penali, come già accaduto in passato – era da ricercare nell’inadempimento del datore di lavoro, salvo il limite della buona fede e salva la doverosa osservanza delle disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ex arti. 2086 e 2104 cod. civ., da applicare alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost. (Cass. 5 settembre 2012, n. 14905; Cass. 20 luglio 2011, n. 12696; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 5 dicembre 2007, n. 25313).
5.2.- Dalla sentenza impugnata risulta che la Corte catanese – pur muovendo dall’esatta premessa secondo cui, in base al consolidato orientamento di questa Corte, in applicazione del principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 cod. civ., è legittimo il rifiuto da parte del lavoratore di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettantegli, sempre che tale rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e sia conforme a buona fede (Cass. 26 giugno 1999 n. 6663, 1 marzo 2001 n. 2948, 7 novembre 2005 n. 21479, 8 giugno 2006 n. 13365, 27 aprile 2007 n. 10086; vedi Cass. 12 febbraio 2008, n. 3304) – non ha poi applicato il suddetto orientamento – con i corollari che ne derivano, sempre in base alla giurisprudenza di questa Corte – in modo corretto alla fattispecie sub indice.
Infatti, la Corte territoriale ha affermato l’esigibilità della prestazione rifiutata, perché l’ha considerata inserita tra le funzioni attribuite al Quadro-Capo Settore, che ha ritenuto proprie della qualifica di Business controller attribuita al T..
Per giungere a tale conclusione la Corte territoriale si è basata, più che sul CCNL di settore il quale, peraltro, non contiene alcun riferimento alla mansione in contestazione, neppure nell’art. 107, che sì riferisce alla categoria dei Quadri (e che nella sentenza risulta erroneamente richiamato come art. 104), su:
una clausola del cd. “mansionario aziendale” non meglio specificata, dalla quale la Corte ha apoditticamente tratto la conclusione che la mansione in contestazione era espressamente inserita tra le funzioni attribuite al Quadro-Capo Settore, Business controller;
le dichiarazioni rese dal T. in sede di interrogatorio libero nella fase cautelare.
Ne risulta che la Corte territoriale per giungere alla affermazione dell’esigibilità della mansione di cui si tratta non solo ha erroneamente – come si è detto – attribuito natura confessoria alle dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di interrogatorio libero, ma neppure si è posta il problema dell’efficacia da attribuire al suddetto “mansionario” – al quale, nei fatti, ha dato valore preminente rispetto al contratto collettivo – nel senso che non ha considerato che i dati contenuti in tale mansionario – al pari di quel che avviene, di regola per tutti i documenti formati dal datore di lavoro – se vengono utilizzati a favore dello stesso datore di lavoro – come accade nella specie – hanno una efficacia probatoria limitata, in quanto possono essere validamente contestati dalla controparte, con eventuali contrari mezzi di difesa o semplicemente con specifiche deduzioni e argomentazioni dell’avvocato, che ne dimostrino l’inesattezza e la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (arg. ex Cass. 18 luglio 1985, n. 4243; Cass. 29 maggio 1998, n. 5361; Cass. 1 ottobre 2003, n. 14658; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501; Cass. 17 settembre 2012, n. 15523).
Inoltre, la Corte territoriale non ha neanche precisato se a tutti i Business controller era attribuita la qualifica di Capo settore né ha approfondito adeguatamente la questione – che era determinante nella presente controversia – se effettivamente il T. svolgesse per contratto le funzioni di “Quadro-Capo Settore” (o di Capo settore) ovvero semplicemente quelle di Business controller, mansioni che la Corte non ha neppure descritto, in contrasto con quanto stabilito da questa Corte in materia (vedi, per tutte: Cass. 10 maggio 2006, n. 10726).
A ciò va aggiunto che la Corte territoriale non ha attribuito alcun rilievo al fatto – incontestato – che il T. – che in passato aveva accettato di svolgere il “servizio di permanenza di direzione”, presso altri punti vendita della SSC e per questo si era trovato a dover subire dei procedimenti penali – quando, al suo arrivo al punto vendita di Siracusa, gli è stato chiesto di svolgere nuovamente 0 suddetto servizio non lo ha immediatamente rifiutato, ma ha invano chiesto chiarimenti alla datrice dì lavoro sulla base legale della responsabilità penale cui sarebbe stato esposto.
Neppure la Corte ha chiarito quali siano state le ragioni per le quali non abbiano avuto seguito le ripetute sollecitazioni rivolte all’azienda da parte del lavoratore sulla verifica dell’esigibilità della prestazione di cui si discute – in particolare, con riguardo alla relativa base legale – trattandosi di un elemento non trascurabile, al fine di stabilire, nell’ambito della valutazione complessiva del comportamento del T., se il rifiuto da esso opposto poteva realmente essere configurato, dal punto di vista della violazione alla disciplina e alla diligenza che il lavoratore, come grave inadempimento da sanzionare con il licenziamento in tronco (arg. ex Cass. 13 novembre 2006, n, 24162).
5.3.- Inoltre, la Corte d’appello, senza minimamente valutare quali siano i compiti propri di chi svolge il “servizio di permanenza di direzione” in un Ipermercato che – come quello in oggetto – vende anche alimenti e bevande, ha respinto la censura del lavoratore secondo cui il rifiuto di svolgere la mansione in oggetto sarebbe stato giustificato dall’assunzione della correlativa responsabilità penale, affermando che la eventuale esposizione a responsabilità penale “non equivale a subire sicuramente una condanna in sede penale anche per fatti commessi da altri” e cioè in un momento diverso da quello in cui il lavoratore si sarebbe trovato di turno a svolgere le mansioni in contestazione.
Da ciò si desume che la Corte non ha considerato che – come risulta pure da molteplici pronunce della Corte di cassazione penale – la normativa sanzionatoria in materia di distribuzione e vendita dei prodotti alimentari – anche grazie all’emanazione di una serie di norme di derivazione comunitaria (vedi, per tutti: d.lgs, 6 novembre 2007, n.193, di attuazione della direttiva 2004/41/CE relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo settore e, in precedenza, d.lgs. 26 maggio 1997, n. 155, di attuazione delle direttive 93/43/CEE E 96/3/CE concernenti l’igiene dei prodotti alimentari. Ecologia) che si sono aggiunte alla precedente normativa nazionale, principalmente dettata dalla legge 30 aprile 1962, n. 283 nonché dalla legge 14 luglio 1965, n. 963 – comporta attualmente che la valutazione in ordine alla responsabilità penale connessa al rispetto dei requisiti igienico-sanitari di alimenti e bevande debba essere effettuata – nelle ipotesi di enti articolati in più unità territoriali autonome, come accade per la SSC – con riferimento alla singola struttura aziendale (cioè al singolo punto vendita), e, all’interno di questa, con riguardo al preposto ad essa e/o ad un singolo suo settore, senza necessità della prova specifica di una delega ad hoc conferita a detto preposto da parte del legale rappresentante dell’ente (vedi, per tutte: Cass. pen. 16 febbraio 2012, n. 28541).
In tal modo – anche per effetto dell’adeguamento della nostra disciplina a quella comunitaria – si è estesa – dal punto di vista soggettivo – la platea dei potenziali responsabili, al precipuo fine di garantire in modo più incisivo il consumatore.
La giurisprudenza della Corte di cassazione penale, su tali basi, ha pertanto ritenuto, ad esempio, che tra i soggetti responsabili del reato di detenzione e commercializzazione di novellarne rientra anche il direttore di filiale di un supermercato, che detenga e commercializzi il pescato sotto misura (Cass. 15 novembre 2012, n. 45956).
In questa cornice, colui che svolge il “servizio di responsabile di permanenza” in un Ipermercato Carrefour è la persona che – durante lo svolgimento del servizio – assume il ruolo di responsabile del punto vendita, con tutto ciò che ne consegue in termini di controllo e vigilanza dei prodotti messi in vendita (arg ex Cass. pen. 28 settembre 2010, n. 37932; Cass. pen. 8 aprile 2008, n. 22112).
Ora va considerato che molti dei reati previsti in questo settore sono di tipo contravvenzionale, sicché per l’affermazione della responsabilità penale del responsabile del punto vendita può, in ipotesi, essere sufficiente, come elemento psicologico, la semplice culpa in vigilando (Cass. pen. 4 ottobre 2006, n. 37307; Cass. pen. 8 aprile 2008, n. 22112).
Conseguentemente, diversamente da quanto affermato dalla Corte catanese, le preoccupazioni manifestate dal T. apparivano più che giustificate in quanto:
a) la sola possibilità di subire una imputazione per un reato è di per sé pregiudizievole, anche se poi non si viene condannati e anche se è l’azienda a sostenere i costi del processo;
b) tale possibilità, nella specie, non poteva considerarsi così peregrina visto che la maggior parte dei reati in materia è di tipo contravvenzionale e quindi non richiede il dolo dell’autore;
c) comunque, perché il rifiuto del lavoratore potesse considerarsi ingiustificato la società avrebbe dovuto dimostrare che – prima del turno di competenza nel “servizio di permanenza di direzione”- il T., che ordinariamente svolgeva altri compiti, sarebbe stato posto in condizione di conoscere la situazione delle merci in vendita.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, la Corte catanese avrebbe dovuto anche considerare che la prassi della SSC – risultante dagli atti processuali – di attribuire il ruolo di responsabile dei punti vendita di sostanze alimentari a soggetti privi delle necessarie competenze – attraverso l’attribuzione del “servizio di permanenza di direzione” – oltre ad esporre i lavoratori al rischio di essere sottoposti a procedimento penale per condotte difficilmente evitabili (date le loro competenze) in realtà si pone in contrasto con le finalità perseguite dalla normativa in materia di tutela dei prodotti alimentari, anche di origine comunitaria, di cui si è detto.
Tale ultima osservazione conferma che il rifiuto opposto dal lavoratore allo svolgimento della mansione di cui si tratta, avrebbe dovuto essere valutato, anche tenendo conto dell’illegittimità, dal suddetto punto di vista, del comportamento del datore di lavoro (arg. ex Cass. 15 settembre 2006, n. 19965).
In conclusione, la motivazione in merito alla sussistenza della giusta causa del licenziamento – che poggia sulle suindicate lacune e imprecisioni – risulta complessivamente del tutto apodittica e priva della doverosa analisi del comportamento del lavoratore in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi, finalizzata a dimostrarne l’idoneità a fare venire meno in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.
III – Conclusioni
In sintesi, il secondo e l’ottavo motivo vanno dichiarati inammissibili e tutti gli altri motivi vanno accolti.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Palermo, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche al seguente:
“Il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettanti può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 cod. civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede (Cass. 26 giugno 1999 n. 6663, 1 marzo 2001 n. 2948, 7 novembre 2005 n. 21479, 8 giugno 2006 n. 13365, 27 aprile 2007 n. 10086; Cass. 12 febbraio 2008, n. 3304). Ne consegue che deve considerarsi legittimo il rifiuto opposto da un dipendente di una società che si occupa del commercio e della vendita di alimenti e bevande, e che è articolata sul territorio in più punti vendita, di svolgere il “servizio di permanenza di direzione” di uno di questi punti vendita – servizio che comporta l’assunzione del ruolo di responsabile del punto vendita stesso, nei suoi riflessi anche penalistici – se non è dimostrato che si tratta di un compito rientrante nella qualifica di competenza del lavoratore e che questi ha conoscenze adeguate per il relativo svolgimento”.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili il secondo e l’ottavo motivo di ricorso e accoglie tutti gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Palermo.
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