CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 gennaio 2014, n. 1777
Lavoro – Dipendente ente locale – Licenziamento – Assenze per lunghi periodi di malattia – Termini dell’irrogazione della sanzione – Sanzione espulsiva – Applicabilità
Svolgimento del processo
1. – Con ricorso per provvedimento di urgenza al Giudice del lavoro l’Avv. V.A. impugnava il licenziamento con preavviso irrogatogli in data 22.09.00 dal Comune di Viterbo, del quale era stato dipendente quale addetto all’ufficio legale comunale. Con ordinanza ex art. 669 sexies c.p.c. il Tribunale di Viterbo accoglieva la domanda cautelare e ordinava al Comune di non dare corso al licenziamento e di reintegrare l’istante nel posto di lavoro. Il reclamo contro l’ordinanza era rigettato dal Tribunale in composizione collegiale.
2. – Introdotto il giudizio di merito e dichiarato dal Giudice del lavoro illegittimo il licenziamento, il Comune proponeva appello contestando con il primo motivo la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che il licenziamento era stato irrogato intempestivamente e sostenendo nel merito la correttezza del recesso, sussistendo le ragioni che ne avevano determinato l’irrogazione.
3. – La Corte d’appello di Roma con sentenza non definitiva del 1.04.09 accoglieva il primo motivo, ritenendo tempestiva l’irrogazione della sanzione. Con sentenza definitiva del 18.08.10 la stessa Corte accoglieva la rimanente parte dell’impugnazione, rilevando come il licenziamento fosse stato originato dall’atteggiamento assenteista del dipendente, che aveva dato luogo ad un comportamento di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva.
4. – Avverso entrambe le sentenze il V. propone ricorso per cassazione illustrato da memoria, al quale risponde con controricorso il Comune di Viterbo.
Motivi della decisione
5. – Il ricorrente deduce due motivi di ricorso.
5.1. – Con il primo motivo deduce violazione dell’art. 24, c. 6, del ccnl 6.07.95 e carenza di motivazione, contestando la sentenza non definitiva nella parte in cui ritiene che, avendo ricevuto il Vito la contestazione in periodo di congedo per malattia, il procedimento disciplinare doveva ritenersi sospeso fino alla cessazione del congedo, di modo che il termine per l’irrogazione della sanzione previsto dalla norma collettiva (gg. 120 dalla contestazione) doveva ritenersi rispettato. Sostiene, invece, parte ricorrente che non esiste alcun automatismo tra la malattia e la sospensione del procedimento disciplinare e che tale sospensione avrebbe dovuto essere frutto di un provvedimento esplicito dell’Amministrazione, da emanare solo ove ne fosse stata effettuata richiesta dal lavoratore allo scopo di spiegare la sua difesa.
5.2. – Carenza dì motivazione, in quanto la Corte d’appello avrebbe erroneamente valutato tanto le circostanze di fatto che determinarono il licenziamento, quanto le risultanze istruttorie acquisite a proposito degli addebiti contestati
6. – Con il primo motivo il ricorrente lamenta l’erronea interpretazione dell’art. 24 del ccnl 6.7.95 (Contratto 1994-1997) per il personale del comparto regioni-enti locali, per la quale “il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione d’addebito. Qualora non sia stato portato a termine entro tale data, il procedimento si estingue” (c. 6). Il giudice avrebbe dovuto rilevare l’estinzione del procedimento disciplinare, atteso che tra la data di contestazione dell’addebito (19.04.00, data di ricevimento da parte del Vito dell’atto di contestazione del 13.04.00) e quella di irrogazione del licenziamento (22.09.00) era decorso un lasso di tempo superiore ai 120 giorni.
Al riguardo deve premettersi che l’art. 2110, c. 2, c.c. prevede che nel caso di malattia del lavoratore il datore possa recedere dal rapporto di lavoro solo dopo il decorso del periodo di conservazione del posto di lavoro fissato dalla legge e dai contratti collettivi. Le disposizioni dell’art. 2110 c.c., infatti, impediscono al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto), nell’ambito di un contemperamento degli interessi confliggenti del datore stesso (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), così riversando sull’imprenditore il rischio della malattia del dipendente.
La giurisprudenza della Corte ha, tuttavia, coordinato tale principio in relazione alle varie fattispecie legali di recesso prevedendo che lo stato di malattia: a) non preclude l’irrogazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d’essere la conservazione del posto durante la malattia in presenza di un comportamento che non consente la prosecuzione neppure temporanea del rapporto (v. tra le altre Cass. 1.06.05 n. 11674 e 27.02.98 n. 2209); b) parallelamente sospende l’efficacia del licenziamento per giustificato motivo o il decorso del periodo di preavviso (se la malattia sia intervenuta durante tale periodo) (Cass. 10.10.13 n. 23063 e 4.07.01 n. 9037). Ne consegue che il licenziamento, che non sia irrogato per giusta causa, durante lo stato di malattia è sospeso fino alla guarigione e da quel momento riprende la sua efficacia (Cass. 7.01.05 n. 239 e 6.08.01 n. 10881).
Nel caso di specie, dunque, il momento di sofferenza del procedimento di licenziamento irrogato all’avv.. V. va individuato non nella circostanza che l’addebito sia stato contestato durante lo stato di malattia, atteso che l’efficacia della contestazione rimarrebbe a sua volta sospesa fino al momento della guarigione, ma nella verifica dell’effettivo godimento delle garanzie apprestate dalla legge e dalla norma contrattuale per l’esercizio di difesa del lavoratore. Al riguardo, infatti, la giurisprudenza di legittimità, proprio con riferimento alla disposizione contrattuale ora in esame, ha enunziato il principio che qualora il contratto collettivo preveda termini volti a scandire le fasi del procedimento disciplinare e un termine per la conclusione di tale procedimento, solo quest’ultimo é perentorio, con conseguente nullità della sanzione in caso di inosservanza, mentre Ì termini interni sono ordinatori e la violazione di essi comporta la nullità della sanzione solo nel caso in cui l’incolpato denunci, con concreto fondamento, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà della sua difesa (tra le altre v. Cass. 12.03.10 n. 6091 e 19.11.10 n. 23484).
7. – Nel caso di specie, secondo quanto accertato dal giudice di merito e ribadito dal ricorrente stesso con il ricorso, il dipendente aveva fruito di un periodo di malattia dal giorno 12.04.00 al 20.08.00, di modo che la contestazione scritta dell’addebito (inviata dal datore il 13.04 e realizzatasi il 19.04.00 con il ricevimento dell’atto scritto) intervenne durante il periodo in cui il diritto di recesso del datore è sospeso, ai sensi dell’art. 2110, c. 2, c.c. Sempre nel giudizio di merito è emerso che dopo il 20.08.00 il Comune di Viterbo in data 23.08.00 reiterò la “convocazione scritta per la difesa” prevista dall’art. 24 del ccnl (c. 3) già inviata il 26.04.00 in costanza del periodo di malattia.
Facendo applicazione dei principi enunziati al paragrafo che precede, deve dunque rilevarsi che la contestazione fu validamente effettuata nel corso del periodo di malattia, anche se – a seguito della sospensione di efficacia ex art. 2110 c.c. – divenne operante solo dal momento della guarigione. Tale considerazione comporta che il lasso di tempo intercorso tra la contestazione (rectius il momento di efficacia della contestazione) e la irrogazione del licenziamento, corrispondente alla durata massima del procedimento disciplinare scansita dall’art. 24 del ccnl, deve essere fissato in misura pari al periodo 20.08.00 — 22.09.00, ovvero in termini largamente rientranti in quelli massimi indicati dal sesto comma della disposizione collettiva (in termini sostanzialmente analoghi v. Cass. 4.04.06 n. 7848).
Con queste precisazioni, deve ritenersi corretta la motivazione della sentenza non definitiva del giudice di appello e di conseguenza deve essere rigettato il primo motivo.
8. – E’ infondato anche il secondo motivo, con il quale è dedotta carenza di motivazione per l’incoerente valutazione delle circostanze di fatto che determinarono il licenziamento.
Le censure mosse al percorso motivazionale del giudice di appello hanno infatti un contenuto esclusivamente di merito. Le circostanze di fatto (il comportamento tenuto dal datore di lavoro antecedente al 27.03.00) che si assumono non prese in considerazione, sono infatti puntualmente valutate dal giudice (v. pg. 3-4 della sentenza definitiva) e ritenute ininfluenti per la giustificazione del comportamento disciplinare contestato al dipendente. Essendo la motivazione adottata in termini logicamente e congniamente articolati, deve ritenersi che parte ricorrente con la sua censura intenda sollecitare il Collegio di legittimità ad un inammissibile riesame del fatto;
9. – In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, come di seguito liquidate, conseguono alla soccombenza.
10. – I compensi professionali vanno liquidati in € 3.500 sulla base del d.m. 20.07.12 n. 140, tab. A-Avvocati, con riferimento alle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (studio, introduzione, decisione) ed allo scaglione del valore indeterminabile.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 100 (cento) per esborsi ed in € 3.500 (tremilacinquecento) per compensi, oltre Iva e cpa.
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