Corte di Cassazione sentenza n. 18139 del 17 aprile 2012
SICUREZZA SUL LAVORO – RESPONSABILITA’ PENALE DEI COSTRUTTORI DI MACCHINARI
massima
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L’infortunio sul lavoro derivato dall’uso di un determinato macchinario, qualora riconducibile alla inadeguatezza dei congegni antinfortunistici dello stesso, comporta la responsabilità penale, tra gli altri, anche del venditore in relazione alle lesioni personali subite dal lavoratore durante l’utilizzo dello strumento.
L’art. 6 comma 2 D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, per il quale “sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di macchine, di attrezzature di lavoro e di impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza”, non può essere interpretato – attesa anche la sua natura di norma penale in bianco – nel senso di una sua riferibilità anche alle norme in materia di igiene del lavoro; e ciò tanto più in quanto tali norme hanno come naturali destinatari soltanto i datori di lavoro e non soggetti diversi, quali sono quelli ai quali è diretto il summenzionato divieto.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Nardo, condannava P.C. alla pena ritenuta di giustizia in ordine al reato di lesioni personali colpose in danno di B.R., commesso, secondo la contestazione, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché violazione della normativa antinfortunistica per aver venduto ed installato una macchina stiratrice professionale priva dei necessari requisiti di sicurezza.
In particolare, in base alla prospettazione accusatoria, l’imputato aveva venduto ed installato presso l’hotel (omissis) un mangano industriale (mod. 1600, n. …) prodotto dalla I. spa di (omissis), con l’ausilio di un collaboratore aveva rimosso personalmente l’imballaggio, aveva allacciato il mangano alla rete elettrica ed aveva effettuato alcune prove di funzionamento; aveva altresì stirato, regolato la temperatura, girato l’apparecchio per poter stirare alcuni capi, controllato la rotazione, il fungo di sicurezza e la barra salvamani, fornendo ai responsabili dell’albergo ed alle dipendenti presenti le istruzioni per il funzionamento dell’apparecchio. B.R., cameriera dell’hotel, aveva usato più volte l’apparecchio senza mai ricevere specifiche istruzioni, se non delle indicazioni dalla moglie del datore di lavoro: il (OMISSIS), nel sistemare il lenzuolo sulla base di legno, aveva sentito tirare la mano destra dentro il rullo e, colta dal panico, era riuscita solo ad abbassarsi e schiacciare il fungo con la mano sinistra, ma intanto la mano destra era entrata sino al polso.
L’esposizione dell’arto all’elevato calore aveva reso necessaria l’amputazione della mano, per le ustioni di terzo grado estese sino al 3° distale dell’avambraccio destro.
Il mangano era munito di certificato di conformità CE rilasciato il 26 giugno 2002, ed aveva due sistemi di sicurezza: 1) una barra salvadita per tutta la lunghezza del mangano, per impedire il passaggio delle dita verso il rullo, ma con una altezza troppo ampia tra il rullo e l’asta di sicurezza, tanto da consentire il passaggio delle dita fino alle nocche, se non di tutta la mano; inoltre la barra non interrompeva il moto del rullo, ma faceva semplicemente allontanare la conca, salvo riprendere la lavorazione normale dopo una breve inversione del moto del rullo; 2) l’altro sistema era il tasto di emergenza di colore rosso posto sul lato destro dell’apparecchio, il che rendeva difficoltosa la possibilità di azionamento se la mano destra fosse rimasta incastrata nel rullo.
Secondo le vantazioni degli ispettori dello SPESAL e del consulente del P.M. entrambi i presidi erano inadeguati, il primo perché non impediva l’attrazione della mano nel rullo ed il secondo perché non di agevole azionamento. A riprova della insufficienza dei dispositivi di sicurezza, gli stessi avevano riferito di aver appurato che la ditta costruttrice aveva, poi, adeguato il macchinario, sia ponendo un secondo fungo di sicurezza sulla sinistra, sia rendendo non raggiungibili le parti in movimento, conca e rullo, mediante copertura.
Il Tribunale riteneva sussistente la specifica violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 68 e 132, per la mancata adeguata segregazione degli organi lavoratori del mangano, tale da impedire la presa e il trascinamento delle dita e della mano del lavoratore; con riferimento al P. rilevava, inoltre, che il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 6, comma 2, vieta, tra l’altro, la vendita di attrezzature da lavoro e di impianti non rispondenti alle norme sulla sicurezza e che sempre l’art. 6, comma 3, del medesimo Decreto Legislativo, impone agli installatori di attenersi alle norme di sicurezza: ne deduceva, pertanto, che era preciso onere del P., quale venditore ed installatore, assicurare la conformità del macchinario alle norme antinfortunistiche, poiché era suo obbligo effettuare in concreto le opportune verifiche di sicurezza, anche se del caso sollecitando o operando modifiche del macchinario, laddove i difetti fossero evidenti, così come era nella specie. A seguito di gravame ritualmente proposto nell’interesse dell’imputato, la Corte d’Appello di Lecce confermava l’impugnata decisione, e dava conto del suo convincimento richiamando innanzi tutto integralmente la motivazione del primo giudice ritenendola del tutto condivisibile in fatto ed in diritto; disattendeva la tesi difensiva secondo cui il P. avrebbe dovuto rispondere del fatto che il mangano funzionasse e non già che rispondesse alle norme di sicurezza, osservando ulteriormente che: a) il macchinario era palesemente ed ictu oculi inadeguato sotto il profilo della sicurezza e tale circostanza non poteva e non doveva sfuggire ad un venditore ed installatore del settore quale era il P.; b) tanto meno decisivo in alcun senso appariva l’argomento che altri venditori ed installatori dello stesso tipo di mangano non fossero incorsi in incidenti analoghi, perché ciò non significava che quella tipologia di macchinario non fosse in sé pericolosa; c) qualsiasi ulteriore questione doveva ritenersi superata dalla previsione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 6, che – in maniera sicuramente rigorosa, ma certamente dovuta a fronte dei valori interessati – è stato interpretato nel senso che “il divieto di vendita di macchine non conformi alle norma antinfortunistiche, di cui al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 6, comma 2, come sostituito dal D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 242, art. 4, non può ritenersi limitato agli industriali o commercianti che abitualmente forniscono le macchine, attrezzature ed impianti, bensì va esteso a qualsiasi soggetto che esegua anche una sola vendita o rivendita” (così testualmente riportando il principio enunciato nella giurisprudenza di legittimità con sentenza n. 10342/2000).
Ricorre per cassazione il P. articolando plurimi motivi che possono così sintetizzarsi:
1) estinzione del reato per intervenuta prescrizione, avuto riguardo al titolo del reato ed alla data del commissi delicti;
2) la causa dell’incidente non sarebbe riconducibile ad una palese inadeguatezza del macchinario, bensì al mancato intervento del sistema di sicurezza come osservato dal consulente tecnico del P.M.; nè il P. avrebbe potuto effettuare interventi per la modifica di un macchinario prodotto e commercializzato dalla ditta I. spa di (omissis) che appariva a vista conforme alle norme di legge e munito di tutte le certificazioni di conformità;
3) la Corte d’Appello avrebbe impropriamente evocato il precedente giurisprudenziale di cui alla sentenza citata, trattandosi di decisione con la quale è stato esteso il divieto di vendita di macchine non conformi alle norme antinfortunistiche a qualsiasi soggetto che esegua anche una sola vendita o rivendita, mentre il macchinario venduto dal P. era munito delle certificazioni di conformità alle norme di legge e nello specifico al D.Lgs. n. 626 del 1994, al pari di simili macchinar venduti dalla medesima ditta produttrice senza che fosse stata mai rilevata alcuna violazione di legge (pag. 4 del ricorso);
4) non sarebbe stata effettuata dai giudici di merito alcuna verifica circa la sussistenza del nesso causale tra tutti gli adempimenti posti in essere dal P. al momento della vendita e della installazione del macchinario e l’evento;
5) si sostiene l’imprevedibilità dell’evento avuto riguardo alla esistenza di tutte le certificazioni attestanti il rispetto della normativa antinfortunistica, ed alla mancanza di qualsiasi analogo infortunio in relazione all’uso degli altri macchinari simili venduti su tutto il territorio d’Italia: non sarebbe stata pertanto prevedibile la non corrispondenza del macchinario alle norme di prevenzione antinfortunistica.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene il Collegio che preliminarmente – avuto riguardo al “tempus commissi delicti” (omissis) ed alla pena edittale prevista per il reato (art. 590 c.p.: lesioni personali colpose) contestato al P. – occorre verificare se, alla data della odierna udienza, sia interamente decorso il termine massimo di prescrizione (sette anni e mezzo, con riferimento sia alla formulazione del testo dell’art. 157 c.p., antecedente alla L. n. 251 del 2005, c.d. “ex Cirielli”, sia alle disposizioni dello stesso articolo come modificate dalla citata novella). Ciò posto, va rilevata l’intervenuta prescrizione: detta causa estintiva del reato deve invero ritenersi verificata pur tenendo conto del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte – con sentenza (imp. Cremonese) del 28 novembre 2001, depositata l’11 gennaio 2002 – in tema di sospensione del decorso del termine di prescrizione in conseguenza di impedimento dell’imputato o del suo difensore, rilevandosi dagli atti periodi di sospensione del corso della prescrizione pari a 300 giorni che non comportano lo slittamento del termine massimo di prescrizione a data successiva all’odierna udienza. Giova ricordare che questa Corte ha affermato, e più volte ribadito, il principio di diritto secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata, perché l’inevitabile rinvio della causa all’esame del giudice di merito dopo la pronuncia di annullamento è incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento stabilito dall’art. 129 c.p.p.: “in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. (In motivazione, la S.C. ha affermato che detto principio trova applicazione anche in presenza di una nullità di ordine generale)” (in termini: Sez. U, n. 35490 dei 28/05/2009 Ud. – dep. 15/09/2009 – Rv. 244275, Tettamanti; conf., “ex plurimis”: Sez. 1, n. 4177/04, RV. 227098; nello stesso senso: Sezioni Unite, n.1653/93, imp. Marino ed altri, RV. 192471; Sez. 3, n. 24327/04, P.G. in proc. De marco, RV. 228973).
Tanto premesso, occorre adesso verificare se, avuto riguardo ai motivi dedotti dal ricorrente in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello di Lecce nell’impugnata sentenza, il ricorso presenti profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l’intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità).
Orbene, non si rilevano profili di inammissibilità del ricorso, avuto riguardo al tenore ed alla natura delle deduzioni con le quali sono state affrontate le tematiche concernenti la sussistenza della contestata violazione della normativa antinfortunistica e la posizione di garanzia del P..
Deve essere pertanto dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Né, nella concreta fattispecie, sussistono i presupposti previsti dall’art. 129 c.p.p., comma 2. Ed invero, il sindacato di legittimità ai fini dell’eventuale applicazione di tale norma, deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime vantazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata: qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetta, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, prevale l’esigenza della definizione immediata del processo. Nella impugnata sentenza della Corte distrettuale non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei a riconoscere la prova evidente dell’innocenza del prevenuto ma sono contenute, anzi, valutazioni di segno opposto.
Esclusa dunque l’applicabilità dell’art. 129 del codice di rito – ed essendo stata integralmente confermata nei confronti dell’imputato, con la sentenza oggetto del ricorso, la decisione del Tribunale (ivi comprese, dunque, anche le statuizioni civili pronunciate dal primo giudice) – la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione comporta la necessità di esaminare le doglianze del ricorrente ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (art. 578 c.p.p.).
Ciò posto, il ricorso deve essere rigettato, agli effetti civili, per l’infondatezza delle censure relative ai ravvisati profili di colpa nella condotta del P.. Ed invero, nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali – quali sinteticamente sopra riportati (nella parte narrativa) e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni – forniscono, con percorso argomentativo basato su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti la vicenda oggetto del processo.
Le doglianze dedotte dal ricorrente, pur articolate con diffuse argomentazioni, risultano prive di giuridico fondamento quanto alla ritenuta responsabilità per l’infortunio subito dalla B. La Corte d’Appello ha accertato in punto di fatto che la inadeguatezza dei sistemi di protezione del macchinario era percepibile palesemente ed “ictu oculi”; orbene trattasi di apprezzamento insindacabile in questa sede anche perché privo di connotazioni di illogicità tenuto conto che gli elementi oggettivi evidenziati dalla Corte – ritenuti rivelatori dell’inadeguatezza dei dispositivi di protezione – erano effettivamente tali da dover essere considerati di immediata percezione specie per un soggetto certamente esperto nel settore quale il P. per la sua attività di venditore di tali macchinari, e precisamente: a) le caratteristiche della barra salvadita – presidio finalizzato ad impedire il passaggio delle dita verso il rullo – la cui altezza era troppo ampia, tra 2° rullo e l’asta di sicurezza, e quindi tale da consentire il passaggio delle dita fino alle nocche, se non di tutta la mano; inoltre la barra non interrompeva il moto del rullo, ma faceva semplicemente allontanare la conca, salvo riprendere la lavorazione normale dopo una breve inversione del moto del rullo; b) la posizione del tasto di emergenza di colore rosso: la sua collocazione sul lato destro dell’apparecchio rendeva infatti difficoltosa la possibilità di azionarlo se la mano destra fosse rimasta Incastrata nel rullo.
Muovendo dai dati fattuali appena ricordati, deve dunque ritenersi sussistente la responsabilità del P. (sia pure ai soli fini civili, stante l’intervenuta prescrizione del reato) alla luce dei principi condivisibilmente enunciati in materia nella giurisprudenza di legittimità circa la responsabilità, nel caso di incidente derivato dall’uso di un macchinario, anche del venditore del macchinario stesso ove si tratti di infortunio riconducibile alla inadeguatezza dei congegni antinfortunistici di quel macchinario: “Il divieto di vendita di macchine non conformi alle norme Antinfortunistiche, di cui al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 6, comma 2, come sostituito dal D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 242, art. 4, non può ritenersi limitato agli industriali o commercianti che abitualmente forniscono le macchine, attrezzature ed impianti, bensì va esteso a qualsiasi soggetto che esegua anche una sola vendita o rivendita” (Sez. 3, n. 10342 del 28/06/2000 Ud. – dep. 29/09/2000 – Rv. 217456); “In tema di lesioni personali a seguito di infortunio sul lavoro, la condotta di colui che, in violazione del divieto sancito dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 7, venda una macchina non conforme alle prescrizioni dell’art. 68 dello stesso D.P.R., è di per sé sufficiente ad integrare l’elemento di colpa specifica del delitto di cui all’art. 590 c.p., comma 3, ed è legata da nesso concausale con l’evento lesivo, stante la normalità e la conseguenzialità dell’impiego della macchina nel ciclo produttivo della ditta acquirente” (Sez. 4, n. 1501 del 01/12/1989 Ud. – dep. 02/02/1990 – Rv. 183206).
A ciò aggiungasi che, come detto, nella concreta fattispecie si trattava di inadeguatezza dei presidi antinfortunistici oggetti va mente percepibile, circostanza, quest’ultima, che rende irrilevante la mera presenza formale di una certificazione attestante la rispondenza del macchinario alle prescritte misure di sicurezza (cfr. Sez. 4, n. 37060 del 12/06/2008 Ud. – dep. 30/09/2008 – Rv. 241020, in relazione a fattispecie di ritenuta irrilevanza del marchio di conformità “CE”).
Il proposto ricorso deve essere pertanto rigettato agli effetti civili, con conseguente conferma delle disposizioni della sentenza impugnata che concernono gli interessi.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione, ferme restando le disposizioni della sentenza che concernono gli interessi civili.
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