CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 luglio 2013, n. 18166
Lavoro – Diritti ed obblighi del datore e del lavoratore – Licenziamento – Natura subordinata del rapporto – Accertamento
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Roma A. D., A. F. Da L. e A. de A. L., deducendo di avere lavorato alle dipendenze della A. D. s.r.l., ora S. s.r.l., esercente un bar-trattoria-pizzeria, rispettivamente quale cameriere, cuoco e uomo di fatica/lavapiatti, chiedevano accertarsi la natura subordinata del rapporto; dichiararsi illegittimo il licenziamento disposto nei loro confronti dalla società; la condanna della stessa al pagamento di differenze retributive a vario titolo.
Si costituiva la società, chiedendo il rigetto del ricorso del ricorso e, in via riconvenzionale, la condanna dei ricorrenti al risarcimento dei danni subiti per avere i medesimi chiuso arbitrariamente l’esercizio durante il periodo feriale.
Il Tribunale adito rigettava tutte le domande.
Su appello principale dei lavoratori ed incidentale della società, con sentenza non definitiva depositata il 28 novembre 2007, la Corte d’Appello di Roma dichiarava la natura subordinata del rapporto intercorso tra le parti; confermava la pronuncia di rigetto relativa al licenziamento: condannava i lavoratori al risarcimento dei danni a favore della società, liquidandoli in via equitativa in € 12.000; disponeva con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio per l’esame della domanda relativa alle differenze retributive chieste dai lavoratori.
Con sentenza definitiva depositata il 23 febbraio 2010 la stessa Corte condannava la società, a tale titolo, al pagamento della somma di € 2.276,29 a favore di A. D., di € 4.151,66 a favore di A. F. Da L. e di € 394,37 a favore di A. de A. L..
Avverso dette sentenze hanno proposto ricorso per cassazione i lavoratori sulla base di cinque motivi, illustrato da memoria ex art. 378 cod. proc. civ. La società ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti, denunziando violazione degli artt. 1, 3 e 5 della legge 15 luglio 1966 n. 604 nonché dell’art. 437 cod. proc. civ., deducono che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto inammissibili, perché nuove, le questioni sollevate dai lavoratori in sede di appello circa lo stato di crisi in cui si trovava l’esercizio, successivamente chiuso, e la violazione dell’obbligo di repechage. Tali questioni erano state infatti dedotte dai lavoratori per contestare le affermazioni contenute nella sentenza di primo grado nonché quanto sostenuto dalla società a sostegno della legittimità del licenziamento.
2. Il motivo non è fondato.
La Corte territoriale ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto dalla società, in quanto, come già affermato dal giudice di primo grado, esso fu determinato dalla chiusura dell’esercizio, circostanza questa effettiva e non pretestuosa, diversamente da quanto sostenuto dei ricorrenti.
Ha poi aggiunto, con riferimento all’asserito obbligo di reimpiego, che nulla era stato dedotto in primo grado dai lavoratori al riguardo, onde la tardività di tale questione aveva precluso alla controparte di controdedurre sul punto. Si trattava dunque di questione nuova e per tale motivo inammissibile.
I ricorrenti hanno sostanzialmente ammesso di avere dedotto motivi nuovi e diversi in grado di appello e tanto basta per respingere la censura relativa all’obbligo di repechage, non avendo peraltro i lavoratori, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, esposto in quali termini tale questione è stata introdotta nel giudizio, una volta che non era stata sollevata dagli stessi lavoratori.
Quanto alla chiusura dell’esercizio, l’accertamento al riguardo eseguito dal giudice di merito – che ha affermato che in effetti tale chiusura fu effettiva – non può essere sindacato in questa sede, non essendo consentito al giudice di legittimità di riesaminare il merito della vicenda processuale e di sostituire una propria valutazione a quella data dal giudice di merito.
3. Con il secondo motivo i ricorrenti, denunziando omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, deducono di avere chiesto in primo grado, reiterando la richiesta in appello, prova testimoniale – di cui riporta i relativi capitoli – al fine di dimostrare il lavoro straordinario svolto alle dipendenze della odierna resistente.
Tale richiesta, aggiungono, è stata rigettata dal giudice d’appello sul rilievo che dalle registrazioni di cassa risultava che l’orario di chiusura del locale era ben anteriore rispetto a quello indicato nei capitoli di prova, motivazione questa palesemente insufficiente non essendo possibile far discendere l’orario di chiusura di un esercizio dalle registrazioni di cassa.
4. Il motivo è fondato.
La Corte territoriale sulla domanda relativa al lavoro straordinario ha così motivato: “Nulla spetta per lavoro straordinario, avendo la parte datoriale documentato (registrazioni di cassa) che l’orario di chiusura del locale (tra le ore 24 e l’una di notte) era ben anteriore a quello allegato dai ricorrente.
Tale motivazione è inadeguata ed illogica, essendo evidente che la chiusura del registratore di cassa non coincide con la cessazione della prestazione lavorativa, la quale, specie con riguardo al personale che opera nelle trattorie e nei ristoranti, continua ben oltre dopo l’uscita dal locale dell’ultimo cliente e la chiusura delle registrazioni fiscali, dovendo tale personale provvedere ad ulteriori incombenti prima di lasciare l’esercizio (pulizia dello cucina, riordino della stessa, rigoverno dei locali, risistemazione dei tavoli, etc).
La sentenza impugnata che, sulla scorta della sola motivazione sopra indicata, ha respinto la domanda in questione, implicitamente rigettando anche la richiesta di prova testimoniale, deve pertanto essere sul punto cassata.
5. Con il terzo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., i ricorrenti deducono che la Corte di merito ha ritenuto arbitraria la chiusura dell’esercizio ad opera dei ricorrenti nel periodo 9-20 agosto 2000. Rilevano che, al più, si è trattato di un inadempimento che, tuttavia, doveva considerarsi lecito, “atteso il precedente inadempimento del datore di lavoro in tema di decorrenza e di svolgimento del rapporto, sicché esso non può ritenersi produttivo di un danno ingiusto”. Inoltre, sul punto, la sentenza impugnata non ha “convenientemente interpretato i dati probatori disponibile, male valutando la prova testimoniale.
6. Con il quarto motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 116 cod. proc. civ. e 2697 cod., civ., i ricorrenti deducono che non era stata provata l’esistenza del danno, onde nulla poteva essere liquidato a tale titolo alla società.
7. Con il quinto motivo i ricorrenti, denunziando motivazione carente ed illogica, rilevano che il giudice d’appello ha liquidato in via equitativa la somma di € 12.000, senza spiegare perché l’astensione dal lavoro degli stessi ricorrenti fosse illecita ed avesse determinato un danno ingiusto. Inoltre lo stesso giudice non ha dato conto delle ragioni che lo hanno indotto alla liquidazione equitativa.
8. I predetti tre motivi che, in quanto connessi, vanno trattati congiuntamente, sono infondati.
Deve premettersi che, secondo quanto più volte affermato da questa Corte, l’esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente all’imprenditore quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa; al lavoratore compete soltanto la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale. Peraltro, allorché il lavoratore non goda delle ferie nel periodo stabilito e non chieda di goderne in altro periodo dell’anno non può desumersi alcuna rinuncia – che, comunque, sarebbe nulla per contrasto con norme imperative (art. 36 Cost. e art. 2109 cod. civ.) – e quindi il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la relativa indennità sostitutiva delle ferie non godute.
Nella specie la Corte territoriale ha affermato che dalla prova testimoniale era emerso che i ricorrenti, senza avvertire i proprietari, chiusero di propria iniziativa l’esercizio per usufruire delle ferie, comunicando tale loro decisione alla aiuto-cuoca Esposito Vincenza. Ha rilevato altresì che da tale condotta erano sicuramente derivati danni alla società, posto che nei mesi di luglio ed agosto vi è un maggior afflusso di clienti. Ha determinato quindi tali danni, in via equitativa, in misura pari “a circa un terzo/quarto dei ricavi mensili”, detratti i presumibili costi per lo stesso periodo.
Trattasi anche qui, con riferimento alle prime D. circostanze, di un accertamento di merito non sindacabile in questa sede, mentre, con riguardo alla valutazione equitativa del danno, essa discende dal disposto di cui all’art. 432 cod. proc. civ., secondo cui, quando sia certo il diritto ma non sia possibile determinare la somma dovuta il giudice la liquida con valutazione equitativa.
Il ricorso a tale forma di liquidazione implica un giudizio di merito censurabile in sede di legittimità solo per insufficienza dei presupposti o per vizio di motivazione, peraltro deducibile esclusivamente sotto il profilo della sua mancanza o sotto quello della enunciazione meramente apparente (cfr., al riguardo, tra le altre, Cass. 14 gennaio 2003 n, 458).
Il giudice d’appello, accertata la sussistenza del danno e l’obiettiva impossibilità di una determinazione certa dell’importo della somma dovuta alla stregua degli elementi acquisiti al processo, ha liquidato il danno in via equitativa, dando congrua ragione del processo logico seguito ed indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo.
9. In conclusione va accolto il secondo motivo, mentre vanno rigettati gli altri. La sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al giudice indicato in dispositivo per il riesame sul punto della controversia. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
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