CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 agosto 2013, n. 18710
Lavoro – Previdenza e assistenza – Sgravi contributivi – Assunzioni di disoccupati nel Mezzogiorno d’Italia – Sgravio totale – Libero professionista
Fatto
(…), commercialista libero professionista, adì il Tribunale di Cagliari in funzione di giudice del lavoro esponendo: che l’INPS aveva sempre riconosciuto lo sgravio contributivo totale triennale previsto dalla legge in caso di nuove assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di disoccupazione ordinaria da almeno ventiquattro mesi unicamente in favore degli imprenditori di cui all’art. 2082 c.c., negandolo, invece, ai liberi professionisti; che la scelta dell’istituto era conseguente ad una interpretazione restrittiva della nozione di impresa, in contrasto con la costante Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, immediatamente applicabile al diritto interno, secondo cui “la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico della detta entità e dalle sue modalità di finanziamento”; che le fonti interpretative dell’art. 85 del Trattato CE (divenuto art. 81) non ponevano differenze tra imprese e liberi professionisti ai fini della concessione di un’agevolazione da parte di uno Stato membro e, quindi, anche dello sgravio ex art. 8 comma 9° legge n. 407/90, con la conseguenza che la norma interna avrebbe dovuto essere disapplicata. Tanto esposto, convenne in giudizio l’INPS per sentir dichiarare il proprio diritto all’esonero totale dal pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per i nuovi assunti ai sensi dell’art. 8 comma 9° L. n. 407/1990 e per la condanna dell’istituto al pagamento in suo favore della somma di euro 37.313,54 indebitamente versata per detti contributi, oltre interessi legali fino al saldo.
Chiese anche la rimessione alla Corte di Giustizia della Comunità Europea della questione interpretativa dell’art. 81 del Trattato CE con riguardo alla “nozione comunitaria di impresa” ai fini della individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione delle agevolazioni concesse dagli Stati membri.
L’adito giudice, con sentenza del 30 aprile 2007, rigettò la domanda.
Tale decisione veniva confermata dalla Corte di appello di Cagliari, con sentenza del 19 gennaio 2010, che rigettava il gravame proposto dal F..
Ad avviso della Corte di merito, secondo il testo dell’art. 8 comma 9° della L. n. 407/1990, i benefici contributivi competevano solo alle imprese riconducibili alla nozione di impresa data dall’art. 2082 c.c., con la conseguente esclusione delle professioni intellettuali. Precisava che nessuno degli argomenti avanzati dal (…) era idoneo a superare il dato testuale di cui alla predetta norma. Più in particolare, non era condivisibile l’assunto secondo cui l’ordinamento comunitario sancirebbe l’equiparazione assoluta ed inderogabile dei trattamenti normativi delle attività imprenditoriali in senso stretto e delle attività da professione intellettuale.
Ed infatti il richiamo operato alla giurisprudenza comunitaria non era conferente in quanto nelle decisioni richiamate la Corte di Giustizia non si era soffermata affatto sul concetto di impresa ma piuttosto sulla portata della disposizioni di cui all’art. 85 del Trattato che obbliga gli Stati membri a non adottare o mantenere in vigore provvedimenti attraverso i quali venga imposta o agevolata la conclusione di accordi in contrasto con la libera concorrenza. Inoltre, la Corte sottolineava che la natura eccezionale del “beneficio contributivo” – che la stessa Comunità Europea qualifica come “aiuto di Stato” – precludeva una lettura estensiva della norma di cui al citato art. 8 comma 9°; ed infatti, poiché la disciplina comunitaria tutela la concorrenza tra le imprese degli Stati membri, non era revocabile in dubbio che, proprio attraverso il riconoscimento degli “aiuti di stato” in favore di liberi professionisti operanti in Italia, si sarebbero create le condizioni per falsare la concorrenza negli scambi intracomunitari che era proprio il risultato che la Comunità Europea intendeva scongiurare.
Infine, precisava che l’istanza di rimessione, ai sensi dell’art. 234 CE, reiterata dal (…) non poteva che essere disattesa in quanto, a fronte di decisioni della Corte di Giustizia che avevano dichiarato l’illegittimità nella loro globalità della disciplina di cui alla L. n. 407/1990, sarebbe stato ultroneo chiedere alla stessa Corte di affermare il principio che i soli liberi professionisti avevano diritto agli sgravi.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il (…) affidato ad un unico articolato motivo.
Resiste con controricorso l’INPS.
Il F. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Diritto
Con l’unico motivo di ricorso viene dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 8 comma 9° L. 29 dicembre 1990 n. 407, 2238 comma 2° c.c., delle norme comunitarie in base alle quali è stata elaborata dalla giurisprudenza della Corte Europea la nozione comunitaria di impresa, vale a dire degli artt. 3, lett. g) TCE (sostanzialmente confluito nell’art. 3 comma 1, lett. b) TFUE), 10 TCE (sostanzialmente confluito nell’art. 4 TUE), 81-86 TCE (ora 101-106 TFUE) e 87-89 TCE (ora 107-109 TFUE).
Si evidenzia che la lettera del comma 9° cit. non consente di distinguere, come invece ha fatto la Corte di merito recependo l’assunto dell’INPS, tra la “generalità dei datori di lavoro ammessi al beneficio” e le “imprese operanti nel Mezzogiorno” insieme con le “imprese artigiane”. In effetti dalla norma correttamente interpretata si desume che a qualsiasi datore di lavoro, purché sia “impresa” ed ovunque operi spetta l’agevolazione contributiva nella misura del 50%, spetta invece l’esenzione totale ove esso operi nel Mezzogiorno oppure – ma in qualsiasi contesto territoriale – sia un artigiano.
Di qui la necessità di stabilire la nozione di impresa. Argomenta il ricorrente che, prevedendo l’art. 8 comma 9° L. n. 407/1990 “aiuti di Stato”, detta norma dovrebbe essere interpretata alla luce della nozione comunitaria di “impresa” in cui rientra qualsiasi entità che eserciti un’attività economica a prescindere dallo “status” giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento, costituendo attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato. Tale nozione di “impresa” è stata delineata dalle regole comunitarie, con riferimento alla concorrenza, ed essa esclude che possa operarsi una distinzione tra “impresa” e “libera professione”, proprio alfine di evitare di falsare il mercato. In tale ottica, quindi, risulterebbe evidente l’errore interpretativo commesso dalla Corte di merito in quanto riconoscere anche ai liberi professionisti lo sgravio in misura piena non significa – come sembrerebbe ritenere l’impugnata sentenza – alterare la concorrenza in quanto siffatta alterazione si verificherebbe proprio come conseguenza della persistente esclusione da questa misura del beneficio.
L’argomentare del motivo continua evidenziandosi che il diritto comunitario impone di raggiungere l’uniforme concessione, nel tempo e nello spazio di riferimento, degli aiuti di Stato compatibili con il mercato comune il che esclude “a priori” che un libero professionista possa avere nell’esercizio di un’attività economica – indistinguibile da questo punto di vista da quella svolta da un imprenditore secondo il diritto interno – un trattamento deteriore rispetto a quest’ultimo nonostante operi nel medesimo contesto territoriale agevolato.
Nel caso in esame l’attività di ragioniere commercialista esercitata dal ricorrente con un’articolata organizzazione di capitale e lavoro altrui – come desumibile dal rilevante numero di dipendenti assunti nel corso degli anni, dato questo emergente dalle denunce contributive in atti – e consistente nell’elaborazione informatica di dati contabili e fiscali ben può essere svolta da una impresa del terziario con l’ingiustificata disparità che l’impresa potrebbe, “ratione loci”, accedere all’aiuto di Stato in questione in misura integrale mentre il libero professionista solo nella misura del 50%.
Si ripropone la richiesta di rinvio pregiudiziale, in quanto giudice nazionale di ultima istanza, davanti all’organo giurisdizionale comunitario ai sensi dell’art. 234 TCE ora 267 TFUE.
Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
E’ il caso di precisare che il comma 9° dell’art. 8 della L. n. 407/1990 cit. prevede “A decorrere dall’1 gennaio 1991 nei confronti dei datori di lavoro di cui ai commi primo, secondo e terzo in caso di assunzioni con contratto a tempo indeterminato di lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari di trattamento straordinario di integrazione salariale da un periodo uguale a quello suddetto, quando esse non siano effettuate in sostituzione di lavoratori dipendenti dalle stesse imprese per qualsiasi causa, licenziati o sospesi, i contributi previdenziali ed assistenziali sono applicati nella misura del 50 per cento per un periodo di trentasei mesi”. In questa prima parte del comma 9° vi rientrano i liberi professionisti datori di lavoro, su tutto il territorio nazionale, ai quali è pacifico che l’INPS applichi, come al ricorrente, lo sgravio del 50%. Nella seconda parte del citato comma 9°, nell’ottica di agevolare i datori di lavoro, in quanto imprese, operanti nel Mezzogiorno, è previsto un incremento dello sgravio predetto al 100% (“Nelle ipotesi di assunzioni di cui al presente comma effettuate da imprese operanti nei territori del Mezzogiorno di cui al Testo Unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1978, n. 218, ovvero da imprese artigiane, non sono dovuti i contributi previdenziali e assistenziali per un periodo di trentasei mesi”).
Viene, quindi, in rilievo, ai fini della individuazione dei soggetti aventi diritto allo sgravio totale, la nozione di impresa visto che la seconda parte del comma 9° fa riferimento alle imprese e non anche ai datori di lavoro. E, per quello che qui rileva se i liberi professionisti possano essere compresi in tale nozione.
Orbene, osserva il Collegio che la linea discretiva tra studio professionale ed azienda è netta e trova un radicamento nell’art. 2238 c.c., (ai cui sensi il professionista intellettuale diventa imprenditore solo in quanto svolga un’ulteriore attività, diversa da quella intellettuale e definibile, in sé considerata, come attività d’impresa: ulteriore attività rispetto alla quale l’esercizio della professione si ponga quale semplice elemento). Tuttavia è stato precisato che anche gli studi professionali possono essere organizzati in forma di azienda, ogni qualvolta al profilo personale dell’attività svolta si affianchino un’organizzazione di mezzi e strutture, un numero di titolari e dipendenti ed un’ampiezza di locali adibiti all’attività, tali che il fattore organizzativo e l’entità dei mezzi impiegati sovrastino l’attività professionale del titolare, o quanto meno si pongano, rispetto ad essa, come entità giuridica dotata di una propria rilevanza strutturale e funzionale che, seppure non separata dall’attività del titolare, assuma una rilevanza economica (di recente cfr. Cass. n. 28312 del 22/12/2011).
E’ stato ulteriormente precisato (con riferimento ad una ipotesi un cui il titolare di uno studio professionale aveva chiesto lo sgravio contributivo di cui alla L. n. 448/1998), che sono da considerarsi imprenditori, secondo l’art. 2082 c.c., coloro che esercitano professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, non essendo consentito – in presenza di una normativa di stretta interpretazione, siccome derogatoria alla generale sottoposizione alle obbligazioni contributive – accedere ad una nozione di impresa che comprenda anche soggetti che, pur eventualmente avvalendosi di una struttura autonomamente organizzata, esercitino una professione intellettuale (art. 2229 c.c.) (Cass. n. 8258 del 2010).
Tali principi possono trovare applicazione al caso in esame in cui pure si discute del diritto del libero professionista ad uno sgravio contributivo in misura totale in luogo del 50% già riconosciutogli dall’istituto previdenziale.
Va a questo punto sottolineato che il ricorrente assume pure che l’attività di ragioniere commercialista, consistente nell’elaborazione informatica di dati contabili e fiscali, sarebbe da lui esercitata con un’articolata organizzazione di capitale e lavoro altrui come desumibile dal rilevante numero di dipendenti assunti nel corso degli anni, dato questo emergente dalle denunce contributive in atti ( in questo senso, quindi, avrebbe svolto un’attività di impresa). Tuttavia, non indica nel ricorso, in ossequio al principio di autosufficienza, la sede processuale nella quale i documenti richiamati erano stati prodotti ed omettendone il deposito unitamente al ricorso, (cfr. Cass. 13 ottobre 2010 n. 21121; Cass. 12 gennaio 2001 n. 303; Sez. 3, Ordinanza n. 6937 del 23/03/2010; Sez. 6-3 Ordinanza n. 4220 del 16/03/2012; con riferimento all’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall’art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” cfr. Sentenza n. 22726 del 03/11/2011 in cui si precisa che detto onere è soddisfatto, sulla base del principio di strumentante delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi.).
Quanto alla nozione di impresa elaborata dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia in numerose decisioni rese con riferimento alle regole comunitarie della concorrenza – in cui si esclude che possa operarsi una distinzione tra “impresa” e “libera professione”, proprio alfine di evitare di falsare il mercato – si fa rientrare nel novero delle imprese qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato a prescindere dallo status giuridico della detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (sentenza della Corte del 19 febbraio 2002, Causa C-309/99, punto 46; sentenze 23 aprile 1991, causa C-41/90, Hòfner e Elser, Racc. pag. 1-1979, punto 21; 16 novembre 1995, causa C-244/94, Fédération francaise des sociétés d’assurance e a., Racc. pag. 1-4013, punto 14, e 11 dicembre 1997, causa C-55/96, Job Centre, detta «Job Centre II», Racc. pag. 1-7119, punto 21; sentenze 16 giugno 1987, causa 118/85, Commissione/Italia, Racc. pag. 2599, punto 7, e 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione/Italia, Racc. pag. 1-3851, punto 36). Tale nozione estensiva di impresa non può trovare applicazione al caso in esame in cui vengono in rilievo sgravi contributivi, cioè nell’ambito di una normativa di stretta interpretazione, siccome derogatoria alla generale sottoposizione alle obbligazioni contributive e tenuto conto del fatto che intanto può ritenersi che il mancato riconoscimento di detti sgravi anche al libero professionista alteri la concorrenza quando quest’ultimo abbia organizzato la propria attività con un supporto organizzativo tale che l’entità dei mezzi impiegati sovrasti l’attività professionale del titolare, circostanza questa nel caso in esame non dimostrata, per quanto sopra esposto.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, cedono a carico del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in euro 50,00 per esborsi ed in euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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