Corte di Cassazione sentenza n. 19074 del 6 novembre 2012
RAPPORTO DI LAVORO – STAMPA ED EDITORIA – LAVORO GIORNALISTICO – ELEMENTI ED INDIZI DELLA SUBORDINAZIONE
massima
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Il rapporto di lavoro giornalistico può essere qualificato come subordinato solo ove la valutazione globale di tutti gli elementi indizianti – quali collaborazione, rispetto dell’orario di lavoro, continuità della prestazione – permetta di accertare che il giornalista si sia tenuto stabilmente a disposizione dell’editore, seguendo le istruzioni e le direttive da questi impartite, con limitazione della sua autonomia ed inserimento nella organizzazione aziendale.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva in parte la domanda di V.S., proposta nei confronti dell’Editrice Romana Spa, estesa, poi , su autorizzazione del giudice di primo grado, anche nei confronti della Società Colonna 2000 subentrata, in corso di causa, alla detta Editrice Romana Spa nella conduzione dell’azienda – ed ancora nei confronti dell’INPGI, avente ad oggetto l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro giornalistico subordinato e della qualifica iniziale di redattore e, successivamente, di quella di capo redattore con conseguente condanna delle controparti al pagamento delle relative differenze retributive.
In particolare la predetta Corte: 1. dichiarava, il diritto del ricorrente al trattamento economico del capo redattore con decorrenza 12 gennaio 1992; 2. condannava la società Il tempo alla rideterminazione del TFR con decorrenza, anche ex art. 2126 c.c., dal 1° novembre 1980 con riferimento al trattamento di redattore sino alla data del 17 luglio 1989 e poi, di capo redattore; 3. dichiarava nulla la domanda del V. con riferimento alle conclusioni di cui al n. 3 (relative ad ulteriori differenze retributive) del ricorso introduttivo e dell’appello; 4. dichiarava inammissibile perchè nuova la domanda di cui alle conclusioni ex n. 4 (rideterminazione dell’accantonamento del TFR) proposta nei confronti della società Editrice Romana; 5. accoglieva la domanda dell’INPGI diretta al pagamento dei contributi assicurativi e delle conseguenti sanzioni.
La Corte del merito riteneva, e per quello che interessa in questa sede,innanzitutto, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato giornalistico sin dall’inizio – e cioè anche per il periodo anteriore all’assunzione del V. come praticante professionista – e tanto in ragione della accertata quotidiana messa a disposizione da parte del V. delle sue energie lavorative, della corresponsione di un compenso mensile, dell’utilizzazione dei mezzi del giornale, dell’inserimento del ricorrente nell’organizzazione dell’azienda nonché della notevole quantità di articoli. Asseriva, poi, la Corte distrettuale la riconducibilità dell’attività svolta in quella del redattore fino al 1989 e, successivamente, in quella di capo redattore e ciò in considerazione della quotidianità della prestazione relativamente alla qualifica di redattore, e, per quella di caporedattore, sia della corresponsione della relativa indennità, sia delle dichiarazioni dei testi che avevano confermato che il V. faceva parte dell’Ufficio centrale dei capo redattori dove svolgeva le relative mansioni, sia, ancora, dei documenti i quali attestavano, tra l’altro, l’inserimento del suo nominativo negli elenchi dei turni predisposti per i capo redattori dell’ufficio centrale e la sua utilizzazione da parte dell’Azienda in siffatte mansioni. A tanto conseguiva, secondo la Corte territoriale, la condanna del datore di lavoro, e nei limiti della eccepita prescrizione, al pagamento delle relative differenze retributive e della determinazione del TFR, questa calcolata, con riferimento a tutto il rapporto di lavoro “ritenuto corrente anche ex art. 2126 c.c. (stante il difetto d’iscrizione fino al 1985) dall’1/11/1980” accogliendosi tale richiesta “nel senso che è necessario porre a base del computo dello stesso le retribuzioni come accertate in questa sede”.
La Corte di Appello, inoltre, stimava nulla la domanda sub n. 3 del ricorso -concernente la condanna al pagamento di ulteriori differenze retributive- essendo la determinazione quantitativa “oscura” perchè facente riferimento a quanto specificato nelle buste paga. Riteneva, altresì, la Corte territoriale inammissibile perché nuova – in termini soggettivi – la domanda sub n. 4 “per quanto si riferisce alle conclusioni nei confronti dell’Editrice Romana”.
Avverso questa sentenza la società Editrice Il Tempo srl propone ricorso per cassazione sostenuto da sei censure.
La società Editrice Romana srl propone, in via autonoma, analogo ricorso.
Il V. resiste con controricorso e propone impugnazione incidentale assistita da due motivi, cui si oppongono con controricorsi le società ricorrenti principali.
Al ricorso della società Editrice Il Tempo srl, resiste, con controricorso, l’INPGI. Il V. e l’INPGI depositano memoria illustrativa
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi vanno riuniti riguardando l’impugnazione della stessa sentenza.
Preliminarmente va respinta l’eccezione d’inammissibilità del ricorso proposto dalla società Editrice Il Tempo srl poiché il ricorso risulta firmato – nell’ultima pagina del ricorso dopo l’elencazione dei documenti prodotti, – dall’avv.to Raffaele Versace.
Con la prima censura le società ricorrenti principali, deducendo violazione dell’art. 342 c.p.c., comma 1, art. 434 c.p.c., comma 1, art. 437 c.p.c., comma 2 e art. 112 c.p.c., sostengono che erroneamente la Corte del merito ha proceduto al rinnovo della prova testimoniale non essendovi alcun motivo di appello al riguardo poiché la controparte si era limitata a chiedere di “ordinare la riapertura dell’istruttoria ammettendo la prova testimoniale dedotta in 1 grado, con tutti i capitoli ed i testi indicati”.
Con la seconda critica le società ricorrenti principali, allegando violazione dell’art. 342 c.p.c., comma 1, artt. 345 e 437 c.p.c., nonché art. 115 c.p.c., comma 1, asseriscono che il giudice del gravame ha violato, nel procedere al rinnovo della prova per testi, il principio dell’unità ed infrazionabilità della prova.
Con il terzo motivo le società ricorrenti principali, denunciando violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, assumono che Corte del merito non ha correttamente proceduto al rinnovo della prova testimoniale omettendo qualsiasi motivazione al riguardo.
Le censure, che in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico-giuridico vanno trattate unitariamente, sono infondate.
Va premesso al riguardo che nel giudizio di legittimità la censura intanto rileva in quanto sia idonea a comportare la cassazione della sentenza impugnata, nel senso che la censura deve essere decisiva in quanto l’impugnazione della decisione di merito per uno dei motivi indicati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, non rileva di per sè, ma nel solo caso in cui il motivo del ricorso sia tale da inficiare la sentenza di cui appunto si chiede l’annullamento.
Orbene nella specie, oltre alla considerazione che la Corte del merito, come si desume dall’ordinanza del 19 giugno 2006 indicata dal resistente V. – non ha proceduto al rinnovo della prova testimoniale, ma all’integrazione della stessa attraverso l’escussione di due testi – in primo grado non ascoltati – per parte e su capitoli di prova in primo grado articolati, vi è quella assorbente che le società ricorrenti principali, pur denunciando che la Corte territoriale ha violato le norme di rito nel procedere all’audizione di due ulteriori testimoni non allega e dimostra, in alcun modo, che senza le dichiarazioni di tali i testi la predetta Corte sarebbe pervenuta ad una diversa decisione a loro favorevole.
In altri termini, non emerge dal ricorso la decisività delle censure in esame e, quindi, le stesse si rivelano infondate.
Nè specificano le società in quali termini ed in quale misura le dichiarazioni dei due testi escussi in appello hanno inciso sulle varie statuizioni emesse della Corte di Appello.
Con il quarto motivo dei ricorsi principali le società, prospettando violazione degli artt. 2094, 2014, 2015, 2106 e 2697 c.c., sostengono l’erroneità della sentenza impugnata in punto di ritenuta natura subordinata del rapporto di lavoro giornalistico in quanto “il lavoratore è subordinato, semplicemente perché deve obbedire ed essere fedele”. Né è emerso, aggiungono le società, che il V. fosse tenuto al rispetto di un determinato orario di lavoro ovvero che fosse tenuto a giustificare il mancato rendimento della propria prestazione di lavoro.
La censura è infondata.
Mette conto, innanzitutto, evidenziare che in tema di attività giornalistica la subordinazione non può che essere apprezzata, come più volte ribadito da questa Suprema Corte (Cfr.per tutte Cass. 8068/09, 3320/08,18660/05, 6983/04 e 6727/01) avuto riguardo, e al carattere intellettuale e/o creativo della prestazione, e alla peculiarità dell’attività cui la stessa s’inserisce.
Pertanto, proprio in considerazione della peculiarità delle specifiche mansioni svolte dal giornalista, che lasciano un certo margine di autonomia, e del carattere collettivo dell’opera redazionale cui s’inseriscono (V. Cass. 7494/97 e 5693/98), la subordinazione ex art. 2094 c.c., intesa quale inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e dal suo assoggettamento ai poteri direttivi e organizzativi nonchè disciplinari del datore di lavoro, risulta attenuata con conseguente difficoltà di cogliere in maniera diretta e immediata i caratteri propri del lavoro subordinato e necessità, quindi, di far ricorso, per distinguerlo da quello autonomo, ad indici rivelatori e ciò tenuto anche conto che nel lavoro giornalistico, per gli evidenziati aspetti, la subordinazione si concretizza più che altro in collaborazione (V. Cass. 10086/91 e 6727/01).
A tal fine la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha avuto modo di precisare che la subordinazione non è esclusa dal fatto, e che il prestatore goda di una certa libertà di movimento e non sia obbligato al rispetto di un orario predeterminato o alla continua permanenza sul luogo di lavoro, non essendo neanche incompatibile con il suddetto vincolo la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni (Cass. 6598/88, 1024/96, 16038/04 e 3320/08 cit.), e che non sia impegnato in un’attività quotidiana, la quale, invece, contraddistingue quella del redattore (Cass. 7012/00), e che l’attività informativa sia soltanto marginale rispetto ad altre diverse svolte dal datore di lavoro, ed impegni il giornalista anche non quotidianamente e per un limitato numero di ore (Cass. 6727/01) e che, ancora, l’esecuzione della prestazione lavorativa sia effettuata a domicilio (Cass. 6598/88).
Rappresentano secondo la Cassazione, invece, indici rilevatori della subordinazione: lo svolgimento di un’attività non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze informative riguardanti uno specifico settore, la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, e la persistenza, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, dell’impegno di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro, in modo da essere sempre disponibile per soddisfarne le esigenze ed eseguirne le direttive (Cass. 6032/06 e sostanzialmente nello stesso senso 3229/88); la continuità e la responsabilità del servizio, che ricorrono quando il giornalista abbia l’incarico di trattare in via continuativa un argomento o un settore di informazione e metta costantemente a disposizione la sua opera, nell’ambito delle istruzioni ricevute (Cass. 6727/01 e nello stesso senso 7020/00)); la soddisfazione dell’esigenza dell’imprenditore di coprire stabilmente uno specifico settore di informazione, attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche ed il permanere della disponibilità del lavoratore, pur nell’intervallo fra una prestazione e l’altra (Cass. 5223/87).
Costituiscono, di contro, indici negativi: la pattuizione di prestazioni singole e retribuite in base a distinti contratti che si succedono nel tempo, ovvero la convenzione di singole, ancorché continuative, prestazioni secondo la struttura del conferimento di una serie di incarichi professionali (Cass. 4770/06 cit. e 18560/05); la pubblicazione ed il compenso degli scritti solo previo “gradimento” ed a totale discrezione del direttore del giornale ovvero commissionati singolarmente, in base ad una successione di incarichi fiduciari (Cass. 2890/90).
Alla stregua della richiamata giurisprudenza deve, quindi, ritenersi che l’elemento caratterizzante la subordinazione nel lavoro giornalistico è rappresentato sostanzialmente dallo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nella organizzazione aziendale nel senso che attraverso tale prestazione il datore di lavoro assicura in via stabile, o quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di una esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche e, quindi, esige, come tale, il permanere della disponibilità del lavoratore, pur nell’intervallo fra una prestazione e l’altra. Nè rilevano,come evidenziato, ai fini di cui trattasi, il luogo della prestazione lavorativa che ben può essere eseguita anche a domicilio, il mancato impegno in una attività quotidiana, la non osservanza di uno specifico orario di lavoro e la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni.
A tali principi la Corte di Appello si è attenuta in quanto, come annotato – sia pure al diverso fine di escludere la subordinazione – dalle stesse società ricorrenti, ha fondato il proprio decisun sulla considerazione che il V. percepiva per la propria attività un compenso mensile, era quotidianamente presente in redazione, aveva costantemente redatto articoli ed era inserito, stabilmente, nell’organizzazione dell’azienda.
Con la quinta censura le società ricorrenti principali, deducendo violazione della L. 3 febbraio 1963, n. 69, art. 45, dell’art. 2126 c.c. e degli artt. 5 e 11 CNLG nonché dell’art. 36 Cost., comma 1, denunciano che la Corte del merito ha erroneamente riconosciuto la spettanza del trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva per la qualifica di redattore nonostante il V., prima del 24 novembre del 1987, non fosse iscritto all’albo dei giornalisti professionisti in ciò errando anche in violazione del citato art. 2126 c.c..
La censura è infondata.
Infatti la Corte del merito applicando correttamente, per il periodo in considerazione, la disposizione di cui all’art. 2126 c.c., ha determinato la giusta retribuzione ex art. 36 Cost., assumendo quale parametro di riferimento la retribuzione stabilita dal contratto collettivo del settore in relazione al tipo di attività espletata.
Nè il riferimento parametrico alla retribuzione prevista dal contratto collettivo del settore è, fini di cui trattasi, scorretto (Cass. 12326/2003).
Del resto è al giudice del merito che spetta l’individuazione della giusta retribuzione (Cass. 23638/2010).
Con l’ultima censura le società ricorrenti principali, asserendo violazione dell’art. 11 lett. f) e dell’art. 22, comma 2, CNLG, dell’art. 1362 c.c., comma 1, art. 2013 c.c., comma 1, art. 2729 c.c., comma 1 e art. 2697 c.c., comma 1, assumono l’erroneità della sentenza impugnata per aver i giudici di appello riconosciuto la qualifica di caporedattore sulla base della sola corresponsione dell’indennità prevista per tale qualifica, ovvero in relazione alle sole dichiarazioni del teste D.P. sentito (illegittimamente)per la prima volta solo in appello.
Nè, aggiungono le società ricorrenti, i giudici di appello hanno considerato che la contrattazione collettiva ai fini della qualifica di caporedattore richiede la direzione della intera redazione.
La censura non è condivisibile.
La Corte territoriale, invero, perviene al riconoscimento della qualifica di caporedattore sulla base non solo della dichiarazione del teste D.P., ma anche di quelle del teste M. e della documentazione in atti da cui evince, tra l’altro, l’adibizione del V. al servizio centrale e la sua inclusione negli elenchi dei turni dei caporedattori.
La deposizione del teste D.P., quindi, nell’economia della struttura argomentativa della Corte di appello non costituisce un elemento essenziale, ma solo rafforzativo e tanto vale anche con riguardo alla corresponsione della richiamata indennità.
Inoltre, relativamente alla prospettata non corretta esegesi del contratto collettivo ed in particolare della norma concernente le mansioni del caporedattore, mette conto evidenziare che il ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza, non riporta nel ricorso il testo integrale della relativa norma, ma solo uno stralcio impedendo in tal modo qualsiasi sindacato di legittimità.
A tanto aggiungasi che, comunque, la Corte del merito sottolinea che il V., in base alla documentazione, era risultato addetto, quale caporedattore, al servizio centrale e, quindi, alla direzione dell’intera redazione.
Con il primo motivo del ricorso incidentale il V., deducendo violazione degli art. 1, 5, art. 7, comma 15, artt. 10, 11, 13, 15, 16, 17, 19 e 23 CNLG con riferimento all’art. 414, n.3-5 – in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, critica la sentenza impugnata per aver ritenuto nulla la domanda sub 3), concernente le altre differenze retributive, in quanto, contrariamente all’affermazione dei giudici di appello, tale domanda non era affatto, dal punto di vista quantitativo, oscura facendosi riferimento per le differenze a quanto indicato nelle buste paga.
Il motivo non può essere accolto.
Infatti non essendo trascritte nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, le “differenze” di cui alle buste paga, la domanda era “oscura” e rimane tale anche in questa sede di legittimità.
Del resto, l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza, oltre che del suo contenuto, costituiscono, anche nel giudizio di appello, ai fini della individuazione del devolutum, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (Cfr. Cass. 19475/2005 e Cass. 2467/2006, nonché in particolare Cass. 10101/1998 – seguita da Cass. n. 13945/2002 – la quale ha precisato che il sindacato su tale operazione interpretativa, in quanto non riferibile ad un vizio in procedendo, è consentito alla Corte di Cassazione nei limiti istituzionali del giudizio di legittimità).
Nella specie il ricorrente ancorchè deduca, nella rubrica del motivo, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, comma 1, nulla, poi, precisa in proposito nella parte argomentativa del motivo.
Nè, infine, sono trascritte nel ricorso le clausole contrattuali di cui si denuncia la violazione.
Con la seconda censura il ricorrente incidentale, sostenendo violazione degli artt. 27, 28 e 30 comma 2 del CNLG, della L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 1, degli artt. 2112 e 2120 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, censura l’affermata novità della domanda sub 4 ritenuta tale per quanto si riferisce alle conclusioni nei confronti dell’Editrice Romana. Sostiene in proposito il ricorrente incidentale che per effetto della cessazione del rapporto in costanza di giudizio, la liquidazione del TFR appare certa, liquida ed esigibile e, quindi, liquidabile a richiesta del dipendente. Peraltro la richiesta di liquidazione del TFR è implicita e contenuta nella stessa domanda iniziale di rideterminazione dell’accantonamento e l’autorizzazione alla modifica della domanda può essere espressa dal giudice anche in modo implicito.
La censura non è scrutinabile.
Invero il ricorrente non trascrivendo nel ricorso, in violazione del richiamato principio di autosufficienza, il ricorso di primo grado, almeno nella parte che interessa, impedisce a questa Corte qualsiasi sindacato in merito alla proposta censura.
A tanto aggiungasi che non risultano neppure trascritte le clausole contrattuali di cui si deduce la violazione. Né il denunciato vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è supportato da specifica argomentazione tale da permettere a questa Corte d’individuare quale censura è riferibile alla violazione di legge e quale a quella del vizio di motivazione.
In conclusione i ricorsi principali e quello incidentale vanno rigettati. Le spese del giudizio di legittimità tra le società ricorrenti principali ed il V. ricorrente incidentale vanno compensate in ragione della reciproca soccombenza.
Quelle sostenute dall’INPGI vanno poste a carico della Società Editrice Il Tempo srl avendo il detto Istituto resistito al solo ricorso proposto della nominata società.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quelli principali e l’incidentale compensando tra dette parti le spese del giudizio di legittimità, condanna la Società Editrice Il Tempo srl al pagamento, in favore dell’INPGI, delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed Euro 3500,00 per compensi oltre accessori di legge.
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