Corte di Cassazione sentenza n. 19236 del 21 settembre 2011
RAPPORTO DI LAVORO – ESTINZIONE E RISOLUZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – DIMISSIONI – ACCERTAMENTO GIUDIZIALE – DISTRIBUZIONE DELL’ONERE PROBATORIO TRA LAVORATORE E DATORE DI LAVORO – CONTENUTI RISPETTIVI – INDIVIDUAZIONE
massima
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Nell’ipotesi di controversia in ordine al “quomodo” della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo il primo comma dell’art. 2697 c.c., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta “ex lege” a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro – avente valore di una eccezione – ricade sull’eccipiente – datore di lavoro ex art. 2697 c.c.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. – La sentenza attualmente impugnata – confermando la sentenza del Tribunale di Catania del 26 maggio 2006 – rigetta l’appello proposto da G.P. per ottenere raccoglimento del capo della propria domanda relativo alla dichiarazione di inefficacia del licenziamento intimatogli dalla ditta M.P. senza comunicazione scritta e senza giusta causa, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del G.P. nel posto di lavoro, al risarcimento dei danni e al pagamento dell’indennità di preavviso.
La Corte d’appello di Catania precisa che:
a) il Giudice di primo grado, in base all’istruttoria svolta, ha accertato la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato;
b) non è, però, emerso alcun elemento probatorio sulle modalità di interruzione del rapporto stesso;
c) nell’ipotesi in cui – come accade nella specie – il lavoratore deduca nel suo ricorso che l’interruzione del rapporto di lavoro si è verificata per volontà del datore di lavoro, è lo stesso lavoratore ad essere tenuto a fornire la prova di tale fatto;
d) d’altra parte, la circostanza, riferita da un teste, che il G.P. non è stato più visto sul luogo di lavoro dopo l’infortunio subito, lascia presumere, come correttamente osservato nella sentenza di primo grado, che sia stato il lavoratore ad abbandonare il lavoro per motivi personali.
2. – Il ricorso di G.P. domanda la cassazione della sentenza per un unico, articolato, motivo; M.P. non svolge attività difensiva in questa sede.
Il ricorrente deposita anche memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con l’unico motivo di ricorso si denuncia – in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e violazione dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966.
Si sostiene che la Corte d’appello ha affermato che non era emerso alcun elemento probatorio sulle modalità con cui il rapporto di lavoro in oggetto – la cui sussistenza è stata accertata dal Tribunale, in contrasto con quanto originariamente sostenuto dal M.P. – ha avuto termine, sulla base di un esame incompleto del materiale probatorio.
Inoltre, si sottolinea che la Corte catanese, nell’affermare che avrebbe dovuto essere il G.P. a fornire la prova dell’attribuibilità della cessazione del rapporto alla volontà del lavoratore, si è discostata dal costante orientamento di questa Corte in materia di distribuzione dell’onere probatorio in caso di impugnativa di un licenziamento adottato senza la comunicazione scritta prevista dall’art. 2 della legge n. 604 del 1966.
2. – Preliminarmente deve essere respinta la richiesta del Procurato generale volta alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso per mancata conformità della relativa formulazione all’art. 366-bis c.p.c. (applicabile nella specie vallone temporis).
Dai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia è, infatti, dato desumere che:
1) la formulazione dei quesiti di diritto richiesta dall’indicata disposizione a pena di inammissibilità è libera da rigidità formali (vedi, per tutte: Cass. 25 febbraio 2009, n. 4556), purché in presenza dei motivi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360, primo comma, c.p.c. ciascuna censura, all’esito della sua illustrazione, si traduca in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre ove venga in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), sia effettuata una illustrazione che, pur essendo priva di specifici requisiti formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione;
2) in particolare, il quesito di diritto, previsto dall’art. 366-bis c.p.c. risulta ritualmente formulato quando, pur non essendo esposto in forma interrogativa, consenta di far comprendere dalla sua sola lettura quale sia l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice di merito e quale, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. 14 gennaio 2011, n. 774);
3) viceversa, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto: a) si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo (Cass. SU 11 marzo 2008, n. 6420); b) venga formulato in modo non pertinente rispetto alla fattispecie concreta sottoposta alla cognizione del giudice (Cass. SU 18 novembre 2008, n. 27347); c) sia inadeguato perché non è conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia, quale emerge dall’esposizione del motivo (Cass. SU 2 aprile 2008, n. 8466).
Dall’insieme dei suindicati principi si desume che il presente ricorso risulta ammissibile in quanto:
a) per il profilo di censura relativo alla denunciata violazione di legge all’inizio dell’ultima pagina del ricorso risulta che il Palane ha correttamente formulato il prescritto quesito di diritto, chiedendo a questa Corte di dare atto che i Giudici di appello «rigettando il gravame, hanno violato o falsamente applicato l’art. 2697 c.c., in aperto contrasto con il principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità sulla distribuzione dell’onere probatorio relativamente all’impugnativa di licenziamento adottato dal datore di lavoro senza comunicazione scritta e quindi in violazione dell’art. 2 della legge n. 600 (recte: n. 604) del 1966»;
b) d’altra parte, dalla esposizione dell’ulteriore profilo di censura, relativo al denunciato vizio di motivazione, risulta con chiarezza quale è il fatto controverso rispetto al quale si assume che la sentenza impugnata sia viziata (sempre attinente alla distribuzione dell’onere probatorio e alle modalità con le quali il Giudice del merito ha proceduto alla valutazione della vicenda di fatto e delle relative prove, come trasposte nella sentenza).
3. – Nel merito, il ricorso è fondato.
In base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte nell’ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del Giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo il primo comma dell’art. 2697 c.c., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta ex lege a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro – avente valore di una eccezione – ricade sull’eccipiente-datore di lavoro ex art. 2697 c.c. (Cass. 27 agosto 2007, n. 18087; Cass. 20 maggio 2005, n. 10651; Cass. 8 gennaio 2009, n. 155; Cass. 13 aprile 2005, n. 7614; Cass. 11 giugno 2010, n. 14082; Cass. 16 dicembre 2004, n. 22852; Cass. 20 novembre 2000, n. 14977 e altre in corso di pubblicazione).
La Corte d’appello non si attenuta al suddetto indirizzo, onerando il lavoratore di una probatio diabolica, pur considerando incontroversa la data di avvenuta interruzione del rapporto di lavoro (11 febbraio 2002) e, nel contempo, non specificando la causa della cessazione del rapporto stesso.
In particolare, la Corte catanese:
1) senza attribuire alcun rilievo alla – significativa – circostanza che il Giudice di primo grado ha accertato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato (nel periodo 1 aprile 2001-11 febbraio 2002) ancorché originariamente il M.P. avesse sostenuto la natura amichevole e gratuita del rapporto stesso;
2) ha poi affermato che doveva essere il P.G. a provare che il rapporto si era concluso «per volontà del datore di lavoro», presumendo che sia stato lo stesso lavoratore «ad abbandonare il lavoro per motivi personali attinenti … all’infortunio subito», anziché considerare che la prova di tale ultima circostanza non poteva non ricadere sul datore di lavoro stesso, tanto più che, ai fini di una eventuale prova delle dimissioni, è necessario verificare che la dichiarazione o il comportamento cui si intende attribuire il valore negoziale di recesso del lavoratore contenga la manifestazione univoca dell’incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che questa volontà sia stata comunicata in modo idoneo alla controparte.
4. – In sintesi il ricorso deve essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, che si adeguerà ai principi indicati sopra sub 3.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 6 luglio 2011.
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