Corte di Cassazione sentenza n. 1972 del 10 febbraio 2012
ACCERTAMENTO – GRAVI INCONGRUITA’ TRA RICAVI DICHIARATI E RICAVI INDUTTIVAMENTE DETERMINATI – PREZZO DI VENDITA SOSPETTO – MARGINI DI GUADAGNO RIDOTTISSIMI – SPROPORZIONE CON I MUTUI RICHIESTI DAGLI ACQUIRENTI – LEGITTIMITA’ DELL’ACCERTAMENTO
massima
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E’ legittimo l’accertamento c.d. analitico-induttivo ex art. 39, comma primo, lett. d), D.P.R. n. 600 del 1973 sui ricavi derivanti dalla vendita di unità immobiliari, in presenza di indizi di evasione gravi, precisi e concordanti. Nella fattispecie, il prezzo di vendita degli immobili era di molto inferiore rispetto alla media dei prezzi della zona, in base ai dati dell’osservatorio immobiliare italiano (OMI). Inoltre, i prezzi di vendita erano di poco superiori a quelli di costruzione degli immobili medesimi ed, infine, i mutui contratti dagli acquirenti apparivano di gran lunga superiori rispetto al prezzo di acquisto.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
La Corte, ritenuto che, a sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:
“Con sentenza del 23 febbraio 2010 la CTR – Lombardia ha rigettato l’appello proposto da A.A. nei confronti dell’Agenzia delle entrate confermando il recupero a tassazione, per l’anno 2005 (IVA e 1I.DD.), di maggiori ricavi (284.350 Euro oltre a IVA-4%), pari alla differenza tra l’importo contabilizzato per la vendita di tre unità immobiliari (365.000 Euro) e quello determinato dall’ufficio (649.350 Euro).
Ha motivato la decisione ritenendo che l’accertamento fosse legittimo, stante l’assai significativo scostamento dei valori riportati in atto rispetto a quelli obiettivamente rilevati, per epoca e zona, dall’osservatorio del mercato immobiliare (con l’incremento del 30% per gli immobili di nuova costruzione). Ha rilevato, inoltre, che: a) il costo contabilizzato di costruzione dei tre immobili venduti, al netto della mano d’opera, era solo di poco inferiore (18.349,32 Euro) al prezzo di vendita, al lordo delle imposte; b) l’importo dei mutui contratti dagli acquirenti era addirittura superiore al prezzo di acquisto dichiarato; c) v’era incoerenza assoluta tra gli stessi pretti dichiarati, atteso che un primo alloggio di 120 mq (con box di 46 mq) era stato venduto per 125.000 Euro, mentre un secondo alloggio di ben 162 mq (con box di 39 mq) era stato inspiegabilmente venduto a soli 120.000 Euro.
Il 3 settembre 2010 ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un solo motivo, il contribuente; l’agenzia delle entrate e il ministero dell’economia e delle finanze non si sono costituiti. Il ricorso è inammissibile.
Preliminarmente, si segnala la carenza di legittimazione processuale dell’altro soggetto evocato dinanzi a questa Corte, il Ministero dell’economia e delle finanze, che non è stato parte nel giudizio di secondo grado ed è oramai estraneo al contenzioso tributario dopo la creazione delle agenzie fiscali. La chiamata ministeriale in cassazione è dunque inammissibile e il ricorso della contribuente va esaminato unicamente riguardo all’Agenzia delle entrate, che è la sola a essere legittimamente intimata.
Passando all’esame del contenuto del ricorso, con l’unico mezzo per violazione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1), il contribuente muove due censure.
In primo luogo, lamenta che l’Ufficio e la CTR avrebbero trasformato in prova il metodo induttivo di valutazione, cosi invertendo il processo logico degli accertamenti, il tutto in contrasto col principio comunitario “del corrispettivo” e dando credito a semplici congetture, quali quelle desunte dalle analisi statistiche dell’osservatorio del mercato immobiliare o da elementi esterni sfuggenti come i mutui stipulati dai compratori.
In secondo luogo, lamenta che la CTR non avrebbe valutato correttamente né le insindacabili scelte imprenditoriali sulla convenienza dei prezzi, né l’entità reale dei mutui dei compratori, né il fatto che il contribuente, quale artigiano, trova remunerazione nell’utile d’esercizio e non dal tempo di presenza in cantiere.
Tanto premesso, quella concretamente contestata, in entrambe le censure, non è l’applicazione e/o l’interpretazione di norme di legge, bensì la valutazione di dati di fatto emersi in sede di merito circa l’affermata inattendibilità dei valori monetari indicati come prezzi di vendita, quali il forte scostamento rispetto alle risultante dell’osservatorio del mercato immobiliare, l’esiguità dell’utile contabile dell’intera operazione (18.349,32 Euro) rispetto ai rilevanti costi contabilizzati (346.650,68 Euro), la ricostruzione comparativa degli importi mutuati dai compratori rispetto ai costi finali d’acquisto (comprensivi di oneri fiscali, notarili, di mediazione, etc.).
E’ noto che l’ufficio legittimamente procede a rettifica quando vi siano condotte non economicamente giustificate quali l’antieconomicità di comportamenti imprenditoriali che il contribuente non spieghi in alcun modo (Cass. 26635/08, 417/08) e siano in conflitto con i criteri della ragionevolezza (Cass. 13915/09, 26635/08, 10649/01). Quella rilevata dalla CTK, è una grave incongruenza tra i ricavi contabilizzati delle tre operazioni di vendita immobiliare, pari a una frazione del tutto esigua dei prezzi e dei costi contabilizzati, e i ricavi ragionevolmente ritraibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività, il tutto in presenza d’incongruenze intrinseche (prezzi/mq) ed estrinseche (mutui).
Il ragionamento della CTR non è fondato sul semplice scostamento tra il valore normale di vendita e il prezzo ma valorizza la presenza anche di altri elementi presuntivi, i quali, tra loro associati, sono astrattamente idonei a sostenere la pretesa tributaria in fase contenziosa, senza che ciò sì risolva in alcuna violazione di principi diritto nazionale o comunitario, atteso che l’armonizzazione di tributi sulla cifra d’affari non pone barriere alla potestà accertatrice domestica, anche in funzione antielusiva e con il solo basarsi anche su presunzioni semplici per la prova a carico del fisco (cfr. da ultimo la Legge Comunitaria 2008, 7 luglio 2009, n. 88, art. 24).
Sulla base delle esposte considerazioni, il ricorso attiene, più che ad aspetti di diritto, a profili valutativi di risultanze di fatto che, risolvendosi nel tentativo di una rivisitazione generalizzata delle emergenze processuali, appartiene esclusivamente al giudice del merito e va, dunque, sanzionata con l’inammissibilità del ricorso.
Inoltre, la denunciata violazione di legge si risolve in una ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultante di causa e attinge la tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è ammissibile, in cassazione, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal rilievo che solamente quest’ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultante di causa (Cass. 19748/11, GD n. 45/11,52).
Infine, il ricorso pecca pure di autosufficienza atteso che, censurando la sentenza della commissione regionale nella sua adesione al contenuto dell’avviso d’accertamento, omette di riportare prima di tutto i passi della motivazione dell’atto impositivo che si assumono erronei ed erroneamente condivisi dai giudici d’appello (cfr. in generale Cass. 12786/06 e 13007/07). Deve ribadirsi, in conformità del resto a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, da cui totalmente prescinde la parte ricorrente, che è necessario che essa ottemperi al principio di autosufficienza del ricorso (correlato all’estraneità del giudizio di legittimità all’accertamento del fatto), riportando la situazione documentale della quale si chiede un’adeguata valutazione, ivi comprese anche le fonti contrattuali (vendite e mutui) in discussione, delle quali in particolare non solo non v’è trascrizione, neppure delle parti salienti (Cass. 19495/11, GD n.44/2011, 67), ma non v’è neanche alcuna specifica indicazione per il loro materiale reperimento (SU 22726/11).
Conseguentemente il ricorso può essere deciso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 1″.
Rilevato che la relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata all’unica parte costituita;
osservato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condividendo i motivi in fatto e in diritto della relazione, ritiene che ricorra l’ipotesi della manifesta inammissibilità del ricorso, per tutte le ragioni sopra indicate nella relazione stessa; ritenuto che, stante l’assenza di attività difensiva dalla controparte, alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso non consegue alcuna pronunzia sulle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
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