CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 settembre 2013, n. 20467
Tributi – Condono fiscale – Definizione liti pendenti ex art. 2-quinquies del D.L. n. 564/1994 – Ambito applicativo – Controversie sorte a seguito di liquidazione delle imposte sulla base della dichiarazione ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 – Ipotesi di “rettifica cartolare” – Definizione agevolata – Ammissibilità – Fondamento – Ipotesi di “controllo formale” – Esclusione – Ragioni
Svolgimento del processo
La srl R. in liquidazione propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria centrale che ha accolto il ricorso dell’amministrazione avverso la decisione della Commissione tributaria di secondo grado di Roma, nel giudizio introdotto con l’impugnazione della cartella esattoriale notificata alla contribuente il 10 settembre 1984, relativa ad IRPEF per l’anno 1980, dovuta per ritenute alla fonte su redditi di lavoro autonomo.
La Commissione centrale, revocata la propria ordinanza del 2007, con la quale aveva richiesto all’Agenzia delle entrate se fossero “intervenute istanze di definizione agevolata della lite e ordinanza di estinzione”, ha infatti ritenuto non ricorressero i presupposti per la definizione della lite oggetto dell’istanza della contribuente presentata il 3 febbraio 1995, e ciò in quanto le liti derivanti dal controllo formale delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non rientrano nell’ambito di applicazione del condono previsto dalla decreto legge 30 settembre 1994, n. 564, come convertito nella legge 30 novembre 1994, n. 656.
L’Agenzia delle Entrate non ha svolto attività difensiva nella presente sede.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo del ricorso, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, la società contribuente si duole non sia stato ritenuto applicabile alla controversia di specie il condono previsto dal d.l. n. 429 del 1982, convertito nella legge n. 516 del 1982, la cui istanza – presentata due anni prima “dell’atto impositivo impugnato” – era stata prodotta nel corso del giudizio, mentre nella sentenza impugnata sono stati applicate disposizioni relative alla chiusura delle liti pendenti di cui al d.l. 30 settembre 1994, n. 564. Comunque, non rientrava nei poteri della Commissione tributaria centrale disconoscere il cd. condono, prerogativa di esclusiva pertinenza dell’ufficio.
2. – In secondo luogo, la contribuente fa presente che, ricorrendone le condizioni, intende avvalersi della definizione delle controversie pendenti prevista dall’art. 3, comma 2 bis, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito nella legge 22 maggio 2010, n. 73, depositando al riguardo istanza di definizione.
L’Agenzia delle entrate, con successivo atto, ha attestato l’irregolarità dell’istanza, non ricorrendo la prescritta integrale soccombenza dell’amministrazione finanziaria, risultata soccombente nei primi due gradi del giudizio, ma non anche dinanzi alla Commissione tributaria centrale, che ha accolto il ricorso dell’ufficio.
3. – Osserva il Collegio che l’istanza di definizione della controversia tributaria deve essere respinta, non ricorrendo la prescritta condizione della soccombenza dell’Amministrazione finanziaria, in quanto “presupposto per la definizione agevolata delle liti fiscali pendenti innanzi alla Corte di cassazione prevista dall’art. 3, comma 2-bis, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40 convertito con modificazioni nella legge 22 maggio 2010, n. 73, è la soccombenza dell’Amministrazione finanziaria nei precedenti gradi di giudizio. Il riferimento normativo ai “primi due gradi di giudizio” va interpretato nel senso che occorre aver riguardo all’intera vicenda processuale, nella quale l’Ufficio tributario deve essere stato costantemente soccombente, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui il giudizio di cassazione sia stato preceduto – in applicazione del rito previgente – da tre gradi di giudizio, è necessario, ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di definizione, che si sia verificato un triplice esito sfavorevole per l’Amministrazione atteso che la “ratio” delle norme è quella di deflazionare il contenzioso pendente da oltre 10 anni confidando sull’elevata probabilità di un esito sfavorevole in sede di legittimità” (Cass. n. 21714 del 2010).
4. – Il (primo e unico) motivo di ricorso della contribuente è inammissibile, in quanto non coglie, e non censura, le rationes decidendi della sentenza impugnata, e per altro verso infondato.
La controversia è sorta con l’impugnazione del “ruolo cartella esattoriale” del 1984 relativo alla liquidazione sulla base della dichiarazione, in sede di “controllo formale ex art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973”, dell’IRPEF dovuta a titolo di ritenute alla fonte su redditi di lavoro autonomo.
4.1. – La Commissione centrale ha in primo luogo escluso, sulla base della documentazione prodotta dalla contribuente, l’idoneità della dichiarazione integrativa effettuata ai sensi del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, come convertito nella legge 7 agosto 1982, n. 516 (“..la parte ha allegato copia della dichiarazione integrativa legge 7/8/1982, n. 516 condono, e copia delle ricevute dei bollettini c/c postali dei versamenti… in data 10/11/82…”) a definire l’obbligazione tributaria per la quale è controversia.
E ciò in quanto quella dichiarazione integrativa era stata presentata, ed i relativi pagamenti erano stati eseguiti, dalla società R., “soggetta all’imposta delle persone giuridiche”, in relazione “agli anni di imposta dal 1977 al 1981, ai fini dell’IRPEG e dell’ILOR”, e non quindi ai fini di IRPEF liquidata ai sensi dell’art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973 sulla base della dichiarazione della contribuente per il 1980, dovuta, e non versata, su ritenute alla fonte su redditi di lavoro autonomo.
La Commissione tributaria centrale, tuttavia, “per quanto riguarda gli importi versati dalla parte in sede di errata presentazione della dichiarazione integrativa di cui al d.l. n. 429 del 1982”, ha comunque stabilito dover essere cura dell’ufficio “in sede di liquidazione dell’imposta, di tenere conto dei versamenti già effettuati dalla parte per lire 9.186.000 ed effettuare un eventuale sgravio di detto importo”.
4.2 – In secondo luogo, la Commissione tributaria centrale, con riguardo alla domanda di condono (prot. N. 95/4455) presentata il 3 febbraio 1995 ha ritenuto non ricorressero i “presupposti per la definizione della lite oggetto dell’istanza”: e ciò all’esito dell’esame della documentazione prodotta dalla contribuente “inerente al cosiddetto condono… relativa all’imposta IRPEF/1980 ai sensi del decreto legge n. 564/94, convertito dalla legge 30/11/94, n. 656”, e alla luce di quanto “già comunicato dall’ufficio imposte dirette di Roma a questa Commissione in data 27/2/1997, per la vertenza di cui trattasi, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 6 e 7 del regolamento emanato con il d.P.R. 28 settembre 1994, n. 591”, che disciplinano, ai fini della definizione delle liti fiscali pendenti, le procedure per il controllo degli uffici sulle domande, le conseguenti comunicazioni degli uffici stessi alla Commissione tributaria competente, e l’eventuale provvedimento di estinzione del giudizio.
La Commissione tributaria centrale, richiamando anche la circolare del Ministero delle finanze del 24 marzo 1995, n. 88, ha infatti correttamente ritenuto non ammissibile la richiesta del beneficio in quanto “le liti derivanti dal controllo formale ex art. 36 bis d.P.R. n. 600/73 (come nel caso in esame) non rientrano nell’ambito di applicazione della norma in oggetto citata”.
In proposito questa Corte ha chiarito come, “ai fini della definibilità delle liti pendenti ai sensi dell’art. 2-quinquies del d.l. 30 settembre 1994, n. 564, convertito nella legge 30 novembre 1994, n. 656, in presenza di una controversia promossa a seguito della liquidazione delle imposte sulla base della dichiarazione del contribuente a norma dell’art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, occorre distinguere i casi in cui l’amministrazione abbia esercitato il potere di “controllo formale”, relativo alla riscossione nella misura risultante dalla stessa dichiarazione, cui segue effettivamente un’attività di mera liquidazione, dai casi di “rettifica cartolare”, cioè di rettifica dei risultati dalla dichiarazione attraverso la correzione di errori materiali e di calcolo, o la esclusione (o riduzione) di scomputi di ritenute, di detrazioni o deduzioni, di crediti d’imposta, casi nei quali si è in presenza di un’attività impositiva vera e propria, rientrante per definizione in quella di accertamento (ancorché più semplice e immediata rispetto alle verifiche “sostanziali”). Solo nella prima ipotesi la lite, concernendo un atto meramente liquidatorio, non rientra tra quelle suscettibili di definizione agevolata, laddove nella seconda ipotesi non vi è ragione di escluderla, in presenza di un atto con il quale, al di là della sua qualificazione formale, l’amministrazione esercita per la prima volta una pretesa sostanzialmente impositiva, in contrasto con quanto evidenziato dal contribuente nella dichiarazione” (Cass. n. 21660 del 2006).
Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese, non avendo svolto l’intimata attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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