CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 gennaio 2014, n. 210
Tributi – Condono fiscale – Chiusura delle liti fiscali ai sensi dell’art. 16 della legge n. 289 del 2002 – Pendenza della lite – Condizione – Limite – Atti impositivi, già da tempo definitivi, impugnati al solo scopo di accedere al beneficio – Abuso del diritto – Configurabilità
Ritenuto in fatto
1. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte indicata in epigrafe, con la quale, in accoglimento degli appelli riuniti di B.P. e P.P., è stato riconosciuto il diritto di questi alla definizione agevolata, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 289 del 2002, delle controversie pendenti avverso due avvisi di accertamento notificati ai contribuenti, per IRPEF relativa al 1994, in data 14 gennaio 2000 ed impugnati in data 29 novembre 2003.
Il giudice d’appello ha ritenuto che la lite deve considerarsi pendente anche quando il ricorso sia inammissibile, finché tale inammissibilità non venga pronunciata con sentenza passata in giudicato.
2. I contribuenti non si sono costituiti.
Considerato in diritto
1. Con i due motivi di ricorso, l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione degli artt. 16 della legge n. 289 del 2002 e 2, comma 49, della legge n. 350 del 2003, chiedendo se sia legittimo il provvedimento di diniego dell’istanza di condono presentata ai sensi di dette norme “qualora l’oggetto del condono sia un avviso di accertamento notificato e divenuto definitivo, seguito dalla notifica della cartella esattoriale, e solo successivamente impugnato dal contribuente stesso”, “senza dedurre alcuna eccezione circa la regolarità della notifica dell’avviso di accertamento, ma limitandosi a censurare l’atto impositivo nel merito”; e se sia errata la sentenza che consideri la lite condonabile, prescindendo “dall’accertamento del se il contribuente abbia proposto tardivamente il giudizio al solo scopo di precostituirsi una lite pendente per accedere al condono”.
I motivi, da esaminare congiuntamente per stretta connessione, sono fondati.
II Collegio, infatti, intende aderire e dare continuità all’orientamento, già espresso in passato (Cass. n. 15158 del 2006) e recentemente ripreso (Cass. n. 22502 del 2013), secondo il quale l’indirizzo maggioritario – che ritiene che la pendenza della lite deve intendersi in senso formale, per cui i vizi implicanti l’inammissibilità dell’atto di instaurazione del giudizio non sono ostativi alla sua definizione, essendo sufficienti la potenziale idoneità dell’atto ad aprire il sindacato sul provvedimento impositivo e che esso non sia già stato dichiarato inammissibile dal giudice tributario con sentenza definitiva – necessita di un temperamento al fine di evitare il verificarsi di casi palesemente abnormi e immeritevoli di tutela.
Si è così precisato che occorre fare riferimento sia ai canoni generali di correttezza e buona fede – sempre più valorizzati nei rapporti obbligatori in genere ed in quelli tra fisco e contribuente in particolare (art. 10 della legge n. 212 del 2000) -, sia ai principi di lealtà processuale (art. 88 c.p.c.) e del giusto processo (art. 111 Cost.); e che costituisce violazione di detti principi e configura, in particolare, una forma di abuso del processo l’utilizzazione di strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento appresta alla parte tali mezzi di tutela della propria posizione sostanziale (cfr. Cass., sez. un., n. 23726 del 2007, nonché Cass. nn. 28719 del 2008, 28286 del 2011, 6664 del 2013).
In ordine ai casi di definizione delle liti tributarie pendenti, la sussistenza di una forma di abuso del processo va ravvisata in presenza di elementi dai quali emerga, in modo evidente e inequivoco, il carattere meramente fittizio e artificioso della controversia principale, instaurata, nonostante la palese tardività, al solo fine di creare il presupposto per poter finire del beneficio: un chiaro elemento sintomatico della configurabilità di un uso abusivo del processo è costituito dal fatto che il contribuente – come nel caso in esame – abbia impugnato l’atto impositivo ben oltre il termine di legge (nella specie, dopo quasi quattro anni), senza nulla argomentare in ordine alla perdurante ammissibilità dell’impugnazione nonostante il tempo trascorso (Cass. n. 22502 del 2013, cit.).
2. In conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo dei contribuenti avverso il provvedimento di diniego di condono.
3. La peculiarità della fattispecie e il prevalente orientamento giurisprudenziale favorevole ai contribuenti all’epoca della instaurazione del giudizio inducono a disporre la compensazione delle spese dei gradi di merito, mentre quelle del presente giudizio di cassazione vanno poste a carico dei soccombenti e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo dei contribuenti.
Compensa le spese dei gradi di merito e condanna gli intimati in solido alle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €. 1600,00 per compensi, oltre alle eventuali spese prenotate a debito.
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