CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 settembre 2013, n. 21079
Contratto di agenzia – Obblighi dell’agente – Facoltà dell’agente di riscuotere i crediti del preponente – Insussistenza – Successiva stipulazione dell’attività di esazione – Remunerazione relativa – Obbligatorietà
Svolgimento del processo
La Corte di appello, giudice del lavoro, di Torino, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da F.M., respinto l’appello incidentale proposto dalla L.S. s.r.l. (incorporante la S. S.p.A.), condannava la società al pagamento in favore del M. della somma di euro 8.341,89 a titolo di indennità maneggio denaro e della somma di euro 6.059,56 a titolo di differenze provvisionali. Riteneva la Corte territoriale che l’eccezione di prescrizione formulata dalla società fosse fondata in relazione alle competenze spettanti al M. maturate nel 1998 e fino al 1999 e ciò in ragione dell’attribuita valenza interruttiva ad una lettera ricevuta dalla S. S.p.A. il 7/1/1999 con la quale l’avv. B. aveva richiesto per conto del M. il pagamento dell’indennità maneggio di denaro per gli anni dal 1998 a 2001 nonché le provvigioni per i contratti stipulati nel medesimo periodo. Riteneva, inoltre, che, pur non risultando dal contratto individuale stipulato tra le parti alcun riferimento alla facoltà del M. di incassare denaro per conto della S., l’esercizio abituale e costante da parte dello stesso di tale facoltà e l’evidente tacito consenso della società fossero significativi del diritto alla corresponsione della indennità di incasso da determinarsi in base al lavoro prestato, ai risultati ottenuti ed avuto riguardo all’entità della percentuale di provvigione pattuita (da non ritenersi già comprensiva del relativo compenso) rispetto alla complessiva attività di agenzia. Riteneva, inoltre, sulla base delle risultanze della prova testimoniale, che spettasse al M. la pattuita provvigione dell’8% limitatamente agli affari oggetto delle fatture emessa dalla S. nei confronti della P. nel periodo dal 26/1/1999 al 7/6/2000.
Respingeva, infine, le doglianze della società aventi ad oggetto il mancato accoglimento della domanda riconvenzionale dalla stessa proposta e relativa alla restituzione da parte del M. di somme a titolo di risarcimento danni e di restituzione di anticipi provvisionali non dovuti.
Per la cassazione di tale sentenza la L.S. s.r.l. propone ricorso affidato a tre motivi.
Il ricorso è stato notificato a F.M. (asseritamente deceduto nel corso del giudizio di appello, evento non dichiarato dal difensore dello stesso) ed agli eredi del M. che sono rimasti solo intimati.
Motivi della decisione
1. Rileva in via preliminare questa Corte che la società ricorrente non ha fornito alcuna dimostrazione del riferito decesso di F.M., con la conseguenza che la notifica del ricorso per cassazione al predetto, effettuata presso il difensore costituito nel giudizio di appello, è da considerarsi regolare.
2. Sempre in via preliminare deve, altresì, rilevarsi l’inammissibilità del ricorso nei confronti degli “eredi” di F.M. e non solo per le ragioni evidenziate al punto 1. (preclusive della possibilità di valutare la sussistenza della legittimazione passiva in capo ai suddetti “eredi”) ma anche perché, se è vero che l’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa (o parzialmente vittoriosa), deve essere rivolto agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia dall’eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente, la relativa notifica – che può sempre essere effettuata personalmente ai singoli eredi ovvero anche rivolta agli eredi in forma collettiva ed impersonale, purché entro l’anno dalla pubblicazione, deve essere effettuata nell’ultimo domicilio della parte defunta ovvero, nel solo caso di notifica della sentenza ad opera della parte deceduta dopo l’avvenuta notificazione, nei luoghi di cui al primo comma dell’art. 330 cod. proc. civ.. Nel caso di specie è lo stesso ricorrente a riferire che la sentenza impugnata non è stata notificata con la conseguente inoperatività della possibilità di eseguire la notifica del ricorso per cassazione in uno dei luoghi indicati dall’art. 330, comma 1, cod. proc. civ..
3. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ.”. Si duole del fatto che la Corte territoriale abbia disposto l’escussione di due testi senza che l’appellante ne avesse fatto richiesta. Evidenzia che uno dei suddetti testi era già stato sentito dal giudice di primo grado sulla medesima circostanza e che all’escussione dell’altro lo stesso M. aveva rinunciato.
4. Il motivo non è fondato.
5. Questa Corte ha più volte evidenziato che nel rito del lavoro, caratterizzato dall’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, deve esercitare il potere – dovere, previsto dall’art. 437 cod. proc. civ., di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché i fatti stessi siano allegati nell’atto costitutivo, non verificandosi in questo caso alcun superamento, a mezzo dell’attività istruttoria svolta d’ufficio dal giudice, di eventuali preclusioni o decadenze processuali già integratesi a carico delle parti, in quanto la prova disposta d’ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile al fine di decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo (cfr. ex multis Cass. 10 gennaio 2005, n. 278; id. 5 febbraio 2007, n. 2379; 25 maggio 2010, n.12717).
Nella specie, la Corte territoriale non è incorsa nella denunciata violazione di legge in quanto l’esercizio di tali poteri d’ufficio (diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, intese come complessivo materiale probatorio correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado) è stato posto alla base della motivazione della sentenza, che ha compiutamente valorizzato l’indispensabilità ai fini della decisione della causa dell’audizione dei testi G.P.S. e L.C.; il relativo giudizio, rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, poteva essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., qualora la sentenza di merito non avesse addotto – diversamente, peraltro, da quanto nella specie accaduto – un’adeguata spiegazione dell’esercizio dei poteri d’ufficio.
6. Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’AEC 19/12/1979 e dell’AEC 16 novembre 1988 di rinnovo dell’AEC 19/12/1979”. Si duole del fatto che la Corte torinese non ha tenuto conto dei presupposti previsti dall’AEC in vigore all’epoca dei fatti per la corresponsione dell’indennità di maneggio denaro e cioè: il conferimento scritto dell’incarico; la continuità dell’incarico; la responsabilità dell’agente per errore contabile. Si duole, altresì, del fatto che la Corte di appello ha confuso l’attività (sporadica) di recupero degli insoluti – che, ai sensi dell’art. 6 AEC non è fonte di indennità – con l’attività di riscossione dei pagamenti alle scadenze contrattuali – che è fonte di indennità solo in presenza di incarico conferito per iscritto con le caratteristiche della continuità e con responsabilità per errore contabile a carico dell’agente). Rileva che la normalità dei pagamenti avveniva a mezzo di ricevuta bancaria e non a mezzo rimessa diretta tramite agente e che, in conseguenza, quanto riferito da alcuni testi sul punto non poteva che riferirsi a pagamenti tardivi riconducibili all’attività del M. per recupero insoluti.
7. Il motivo è improcedibile.
Come è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, “l’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 420 bis, secondo comma, cod. proc. civ., la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di Cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale” ( si veda Cass. S.U. 23 settembre 2010, n. 20075; si veda anche Cass. 15 ottobre 2010, n. 21358). In particolare le Sezioni Unite hanno anche precisato che “l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall’art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi” (v. Cass. S.U. 3 novembre 2011, n. 22726; sulla necessità della indicazione della sede in cui l’atto o il documento è rinvenibile, cfr. tra le altre Cass. S.U. 25 marzo 2010, n. 7161).
Tale onere va ritenuto esteso anche agli accordi economici collettivi (cfr. Cass. 6 agosto 2012, n. 14152) che hanno efficacia contrattuale di diritto comune (solo limitatamente al periodo di vigenza della legge 14 luglio 1959 e precisamente con d.P.R. n. 145 del 16 gennaio 1961 e n. 1842 del 26 dicembre 1960 sono stati recepiti nell’ordinamento, con efficacia erga omnes, gli accordi economici del 20 giugno 1956 – settore industria – e del 13 ottobre 1958 – settore commercio – ).
Orbene, nella fattispecie, nel ricorso non viene indicato in alcun modo se siano stati depositati (in tutto o in parte) gli accordi economici collettivi sui quali il ricorso stesso si fonda e tanto meno viene indicata una qualche collocazione di detti accordi tra gli atti dei “fascicoli di parte” di parte, genericamente richiamati in calce.
Tanto basta per dichiarare la improcedibilità del ricorso , che, peraltro, neppure risulta conforme al principio di autosufficienza, non riportando il contenuto di tutte le norme collettive invocate.
8. Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2225 cod. civ.”. Si duole della valutazione equitativa dell’indennità di maneggio denaro essendo la relativa spettanza del tutto sfornita di prova.
9. Il motivo è infondato.
In proposito questa Corte ha già affermato il principio di diritto secondo cui, posto che lo svolgimento da parte dell’agente di attività – di incasso per conto del preponente dei corrispettivi dovuti dai clienti non costituisce un elemento essenziale o naturale del contratto di agenzia, ma soltanto un compito ulteriore che le parti possono convenire, correttamente viene escluso il diritto ad un compenso per la suddetta attività quando manchi una pattuizione negoziale per l’attribuzione di un incarico di riscossione (così Cass. 5 luglio 1997, n. 6077). L’art. 1744 cod. civ., però, non prevede una forma particolare per la concessione della facoltà di riscossione, ma stabilisce soltanto che ove la stessa sia stata attribuita all’agente “egli non può concedere sconti o dilazioni senza speciale autorizzazione”. Né la società invoca a sostegno della doglianza l’esistenza di accordi collettivi di diverso tenore; in conseguenza la pattuizione negoziale per l’attribuzione di un incarico di riscossione può essere concessa in qualunque forma e provata nei modi ordinari, anche per presunzioni, come ha fatto nel caso di specie il giudice di appello, che ha desunto la prova dal comportamento costante delle parti. In questo senso si è anche espressa questa Corte con una pronuncia risalente: “in tema di agenzia, l’avvenuta attribuzione all’agente della facoltà di riscuotere può essere provata, nei casi in cui non sia richiesta la forma scritta, con ogni mezzo di prova e quindi anche con presunzioni” (Cass. n. 2465 del 19/6/1975). L’orientamento è stato di recente confermato nella decisione dell’8 giugno 2012, n. 9353 con la quale è stato ritenuto che la pattuizione negoziale per l’attribuzione di un incarico di riscossione può essere concessa in qualunque forma e provata nei modi ordinari.
Nel caso in esame la Corte territoriale ha ritenuto che, pur in assenza di ogni riferimento contenuto nel contratto individuale stipulato tra le parti alla facoltà per il M. di incassare denaro per conto della S., tuttavia l’esercizio costante di tale facoltà (richiedente uno sforzo suppletivo e per l’adempimento della quale non risultano corrisposte somme aggiuntive) e l’evidente tacito consenso della società fossero significativi della sussistenza del diritto dell’agente alla remunerazione di tale attività ulteriore. Del resto, l’assenza, nell’originaria stipulazione della facoltà di riscuotere i crediti del preponente comporta che l’esercizio di tale facoltà neppure può consentire di ritenere, come pretenderebbe la ricorrente, che il compenso per tale attività, attesa la natura corrispettiva del rapporto, fosse stato già compreso nella provvigione pattuita tra le parti, che deve intendersi determinata con riferimento al complesso dei compiti affidati all’agente. Laddove, infatti, la facoltà e l’obbligo di esigere siano intervenuti, come nel caso di specie, nel corso dello svolgimento del rapporto ed a prescindere dalla pattuizione formale intercorsa tra le parti, deve ragionevolmente ritenersi che la svolta attività di esazione costituisca una prestazione accessoria ed ulteriore rispetto all’originario contratto, con conseguente obbligo della sua remunerazione in base alla generale normativa sul lavoro autonomo e, specificamente, all’art. 2225 cod. civ. (cfr. in tal senso Cass. 6 febbraio 1988, n. 1269; id. 25 luglio 1995, n. 8110; 19 marzo 2001, n. 3902). Alla stregua di ciò la Corte torinese ha ritenuto che il corrispettivo potesse essere equitativamente determinato la percentuale dello 0,50% sul complessivo ammontare degli incassi, percentuale, secondo gli usi vigenti, rientrante tra quelle normalmente applicate per il calcolo dell’indennità di incasso. Trattasi di statuizione insindacabile in cassazione in quanto sorretta da motivazione immune da vizi logici e da errori di diritto.
10. Sulla base delle esposte considerazioni, nelle quali tutte le altre eccezioni o obiezioni devono considerarsi assorbite, in conclusione, il ricorso proposto nei confronti di F.M. va rigettato.
11. Infine, nulla va disposto in ordine alle spese processuali essendo i controricorrenti rimasti solo intimati.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso nei confronti di F.M. e lo dichiara, nel resto, inammissibile; nulla per le spese.
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