CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 settembre 2013, n. 22126
Tributi – Imposte sui redditi – Accertamento – Percentuale di ricarico – Dismissione di ramo di azienda – Applicabilità – Non sussiste
Ritenuto in fatto
L’Agenzia delle entrate di Pavia procedeva alla verifica della posizione fiscale per l’anno d’imposta 1998 della s.n.c. A. P. di P. F. & C., esercente la duplice attività di rivendita di autovetture e di officina di autoriparazione. Da tale controllo scaturivano tre atti impositivi:
A) L’avviso R2N02A100060/2002, emesso ai fini dell’IRAP e dell’IVA, accertava induttivamente nei confronti della s.n.c. A. P. maggiori ricavi per £ 220.968.000 e recuperava costi non documentati per £ 45.847,000, da cui scaturiva il maggior reddito della società contribuente di € 153.869,04 (£ 297.932.000) a fronte di un reddito dichiarato di appena € 16.097,59 (£ 31.117.000)
B) L’avviso R2N02A100062/2002, emesso ai fini dell’IRPEF e dei relativi accessori, accertava conseguentemente nei confronti del socio P. F. il maggior reddito di partecipazione sociale liquidato in € 123.095,44 (£ 238.346.000).
C) L’avviso R2N02A100061/2002, emesso ai fini dell’IRPEF e dei relativi accessori, accertava nei confronti dell’altro socio M. A. il correlato maggior reddito di partecipazione sociale.
Instaurato separato contenzioso giudiziario per opera di ciascuna delle parti contribuenti, il primo avviso di accertamento, nei confronti della società, era annullato in prime cure (CTP-Pavia 70/04/2004) con decisione confermata in appello (CTR-Lombardia 201/29/05 del 30/12/05).
La commissione regionale rilevava che il ricarico per l’attività di vendita di autoveicoli era stato stimato dal fisco nell’8,05%, sulla scorta del campione costituito dai dati del primo trimestre dell’ anno e a fronte di valori dichiarati con ricarico del 7,08%. In proposito, il giudice territoriale osservava che lo scostamento accertato era troppo modesto e che il campione di riferimento era poco significativo, il che non giustificava la ripresa di £ 24.604.667.
Inoltre, quanto al negato recupero di costi per £ 45.847.475, evidenziava che, a prescindere dal fatto che le relative fatture non fossero state allegate alla risposta al questionario e che per questo fossero inutilizzabili nel processo (artt. 32 d.p.r. 600 e 51 d.iva), detti costi risultavano comunque inseriti nelle schede contabili allegate, senza rilievi, al questionario stesso.
Infine, riguardo alla ripresa di £ 196.353.658 conseguente al ricarico del 40% applicato sul costo dei pezzi di ricambio, censurava la tesi del fisco, affermando che l’ufficio accertatore non aveva tenuto conto che il 1998 era stato un anno d’imposta del tutto particolare con andamento anomalo tanto da sfociare nella cessazione dell’attività di officina di riparazione e nella necessaria alienazione dei pezzi di ricambio. Dall’annullamento del presupposto avviso di accertamento nei confronti della s.n.c. A. P. scaturivano gli annullamenti giudiziali dei correlati avvisi di accertamento nei confronti dei due soci P. F. (CTR-Lombardia 16/12/05 del 30/12/05) e M. A. (CTR-Lombardia 40/37/06 del 28/4/06). Le tre sentenze d’appello erano impugnate dall’agenzia delle entrate con separati ricorsi nei confronti della s.n.c. A. P. (ric. 1 – 1817/07) e dei suoi
soci P. F. (ric.2 – 4512/07) e M. (…) (ric. 3 – 168 55/07), le parti private resistevano con controricorsi.
Considerato in diritto
I tre ricorsi devono essere riuniti, poiché, nei giudizi d’impugnazione avverso avvisi di accertamento per maggiore IRAP emessi nei confronti di società di persone i soci sono tutti litisconsorti necessari, dal momento che tale accertamento e quello IRPEF in capo ai soci sono indissolubilmente legati dalla sostanziale coincidenza degli elementi economici a loro fondamento e dalla possibilità di utilizzare validamente nel giudizio contro l’accertamento IRPEF la sentenza emessa nel giudizio contro l’accertamento IRAP (Sez U 10145/2012).
L’IRAP è, infatti, imposta assimilabile all’ILOR, in quanto essa ha carattere reale, non è deducibile dalle imposte sui redditi ed è proporzionale, potendosi, altresì, trarre profili comuni alle due imposte dagli articoli 17 c. 1 e 44 d.lgs. 446/97 (ult. cit.). Dunque, essendo l’IRAP assimilabile all’ILOR e imputata per trasparenza ai soci, ai sensi dell’art. 5 d.p.r. 917/86, sussiste il ridetto litisconsorzio necessario dei soci medesimi nel giudizio di accertamento dell’IRAP dovuta dalla società (ult. cit.).
Sennonché, in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative – rispettivamente – alla rettifica reddituale di una società di persone e alla conseguente imputazione dei redditi a ciascun socio, non va dichiarata la nullità dei giudizi per essere stati celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari, ma va disposta la riunione quando – come nella specie – la complessiva fattispecie consente in concreto la ricomposizione dell’unicità della causa in attuazione del diritto alla ragionevole durata del processo, così evitando che si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l’osservanza di formalità non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio (Sez. 5, 3830/2010).
A ciò non osta la presenza, nell’ambito della vertenza riguardante la s.n.c. A. P., di contenzioso in materia di IVA, che sfugge alla imputazione per trasparenza.
E’ vero che l’accertamento di maggior imponibile IVA a carico di una società di persone (se autonomamente operato) non determina, in caso d’ impugnazione, la necessita del “simultaneus processus” nei confronti dei soci e, quindi, del litisconsorzio necessario; manca, infatti, un meccanismo analogo a quello previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 40 c. 2 del d.p.r. 600/7 3 e 5 d.p.r. 917/86, di unicità di accertamento e automatica imputazione dei redditi della società ai soci in proporzione alla partecipazione agli utili, con connessa comunanza di base imponibile tra i tributi a carico della società e dei soci.
Tuttavia, se il fisco contestualmente procede ad accertamenti di II.DD. e IVA a carico di una società di persone, fondati su elementi comuni, il profilo dell’accertamento impugnato concernente l’imponibile IVA, ove non suscettibile di autonoma definizione in funzione di aspetti ad esso specifici, non può ragionevolmente sottrarsi al “simultaneus processus” (Cass. 12236/2010). Dunque, con la riunione dei tre giudizi, si assolvono compiutamente sia le assorbenti esigenze processuali d’integrità del contraddittorio e sia quelle sostanziali di necessaria correlazione reddituale, prospettate nei ricorsi 4512/07 e 16855/07, proposti dall’Agenzia nei confronti di P. F. e M. A., soci della s.n.c. A. P..
(II) Tanto premesso in rito, nel merito con i primi due motivi del ricorso 1817/07, l’Agenzia delle entrate denuncia violazione di norme di diritto (artt. 2697 c.c., 32 d.p.r. 600/73 e 115 c.p.c.) e correlato vizio d’insufficiente motivazione.
Assume che il giudice d’appello, nel valorizzare la scarsa significatività del campione considerato per stimare la percentuale di ricarico e la non rilevante differenza della percentuale medesima, da un lato avrebbe invertito l’onere dalla prova spettante alla parte contribuente, dall’altro avrebbe trascurato che detta percentuale era stata ricavata dalle stesse fatture di acquisto e di vendita esibite dalla società a seguito della notifica del questionario.
I motivi non sono fondati. Il modestissimo scostamento (inferiore al punto percentuale) induttivamente addebitato come evasione alla società per il ricarico sulla vendita di autoveicoli, costituisce un indubbio indice rivelatore dell’ inattendibilità del metodo estimativo adoperato dagli accertatore.
Esso, per poter essere ritenuto attendibile, non si sarebbe dovuto fermare al campione arbitrario di un solo trimestre.
Va, infatti, data continuità al principio secondo cui non è legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli denunciati, fondata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita operato su alcuni articoli o su alcune vendite, anziché su un inventario generale delle merci e delle vendite ovvero su una quantità significativa e idonea a poter fungere da adeguata rappresentazione qualitativa da porre a base dell’accertamento nell’arco temporale oggetto di verifica.
Né é legittimo il ricorso al sistema della media semplice, anziché a quello della media ponderale, quando tra i vari tipi di articoli possono esservi differenza di valore e percentuali di ricarico diversificate (C. 13319/2011).
Orbene, il giudice d’appello, in adesione al rilievo del giudice di prime cure e con succinta ma logica argomentazione, osserva che “…durante l’anno il mix delle autovetture commercializzate variava per tipo di veicolo, per la marca e la cilindrata il che aveva influito sulla percentuale di ricarico così come aveva(no) influito sulla percentuale in questione il tipo di clientela e le modalità di pagamento”. Sul punto manca una censura specifica da parte dall’agenzia ricorrente.
(IlI) Al tema del ricarico è dedicato anche il quinto motivo, con il quale la difesa erariale denuncia vizio d’insufficiente motivazione riguardo alla negata ripresa tassazione di oltre 19 6 milioni di lire per effetto del ritenuto maggior ricarico sul prezzo di costo dei ricambi.
Il fisco censura la sentenza d’appello nella parte in cui afferma che l’attività di officina di riparazione ha avuto un andamento anomalo nel corso del 1998, a causa della cessazione di tale ramo d’attività e della rivendita sottocosto dei ricambi in dotazione dell’officina medesima. Sicché, “l’accertamento non poteva essere esperito con criteri di riferimento accettabili in un anno d’imposta caratterizzato da una gestione ordinaria”.
La ricorrente rileva che la decisione impugnata recepisce le tesi della parte contribuente senza effettuare alcuna verifica concreta rispetto agli elementi di prova disponibili.
Il motivo deve, invece, essere disatteso poiché, ai fini della configurabilità del vizio della motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario che il mancato esame di elementi contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle risultanze sulle quali il convincimento del giudice è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base (C. 25592/11). Ovvero, è necessario che si tratti di una fonte conoscitiva idonea a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione, e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata (ult. cit.). Il giudice d’appello ritiene che gli ordinari criteri di ricarico applicati dal fisco nei confronti della s.n.c. A. P. di P. F. & C. sarebbero astrattamente accettabili solo se riferiti ad annualità con andamento ordinario; sul piano logico e circostanziale spiega che l’anno d’imposta 1998, oggetto di verifica, ha avuto, di per sé stesso, un andamento anomalo, attesa la cessazione nel corso dell’ anno d’imposta (nov. 1998) dell’ attività del ramo-officina cui sano correlati i ricambi esitati. Si tratta di argomenti fondati sul piano fattuale, avendo la s.n.c. A. P. pacificamente ceduto il ramo di azienda di autofficina nel novembre 1998 alla soc. R.C. di C. M. & C, e su quello argomentativo, essendo la chiusura di un’attività durante l’anno un dato assai rilevante per le dinamiche economiche dell’impresa e ostativo a stime modulate su situazione di normale e completa potenzialità dell’ impresa stessa (cfr. C. 8056/2013, in tema di studi di settore).
Di contro, non si comprende come generici indicatori d’infedeltà fiscale – quali il notevole importo degli acquisti di beni destinati alla vendita, la modestia del reddito complessivo rispetto alle retribuzioni di semplici dipendenti, la crescita dei redditi negli anni d’imposta successivi alla chiusura dell’officina e alla cessione dei ricambi – possano giovare al fisco riguardo al tema affatto diverso della percentuale di ricarico.
Né vale dedurre che l’accertamento si fonda sul costo del venduto e sull’inventario di magazzino allegato all’atto di cessione, atteso che si tratta di rilievi, che al pari dei precedenti – oltre a essere privi di quell’autonoma e adeguata specificità richiesta dal ricorso per cassazione – non paiono determinare con certezza (e non con mera probabilità) una decisione dIversa da quella adottata.
(IV) Restano da esaminare il terzo e il quarto motivo, coi quali l’Agenzia denuncia la violazione di norme di diritto (artt. 21 d.iva e 32 d.p.r. 600) e correlati vizi motivazionali. Assume che i costi deducibili avrebbero potuto essere provati unicamente con l’esibizione delle relative fatture in tempestiva evasione della richiesta di cui al questionario inviato dal fisco alla società; aggiunge che, essendo preclusa la loro successiva esibizione, sarebbe irrilevante l’assenza di contestazioni sulle schede contabili tempestivamente prodotte dalla contribuente.
I due mezzi non sono fondati, sebbene si debba integrare la motivazione della sentenza di appello.
La questione dibattuta riguarda la ricorrenza o meno, a seguito della notifica di apposito questionario, della preclusione processuale contemplata dall’art. 32, c. 3 cit., che – secondo la ricorrente – è maturata per omessa produzione in fase precontenziosa, non giustificata da impedimenti non imputabili alla società contribuente, di fatture a riscontro di costi deducibili. Secondo la società controricorrente, in ogni caso, la preclusione non è operante essendo mancato, nel questionario notificato il 5 settembre 2002, l’avvertimento da parte del fisco dell’inutilizzabilità amministrativa e giudiziale dei documenti non prodotti nel termine assegnato.
Il ruolo di tale avvertimento s’incentra proprio nell’art. 32 cit. (v. art. 52 d.iva) nella parte in cui afferma: “di ciò [cioè del fatto che non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, notizie e dati non addotti e documenti non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio] l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta”.
Invero, l’invio del questionario comporta l’instaurazione di un peculiare iter procedimentale scandito in tre tappe: a) l’invio del questionario e la fissazione di un termine minimo per l’adempimento degli inviti o delle richieste rivolte al contribuente; b) l’avvertimento delle conseguenze pregiudizievoli a seguito dall’ inottemperanza a tali inviti o richieste; c) la risposta dell’ interessato, che fornisce quanto richiesto, ovvero l’inadempimento del contribuente all’invito rivoltogli.
La giurisprudenza di legittimità afferma che tale meccanismo conoscitivo e preclusivo mira al dialogo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni (C. 453/2013), sì da prevenire l’instaurazione del contenzioso giudiziario (C. 28049/2009), attesi quei canoni di lealtà, correttezza e collaborazione, da ritenersi doverosi “…quando siano in gioco obblighi di solidarietà come quello in materia tributaria” (Corte cost. 351/2000).
Perciò, il legislatore sanziona l’omissione del contribuente che si sottrae alla dialettica documentale con l’amministrazione, comminando il divieto di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa.
Sì tratta di divieto ritenuto dalla Corte costituzionale tale da non menomare il principio di capacità contributiva (ordinanza 181/2007), mentre la “ratio” della preclusione è rinvenuto nell’ostacolo frapposto dalla condotta omissiva del contribuente all’ immediata esecuzione di un accertamento analitico (C. 20461/2011), senza che abbia rilievo l’atteggiamento psicologico del contribuente (C. 28049/2009, sulla notifica del questionario in prossimità delle ferie).
Nella giurisprudenza di questa Corte si è consolidata la tesi secondo cui, assimilando l’interpretazione sistematica dell’ art. 52 d.iva (v. art. 33 d.p.r 600/73) a quella testuale dell’art. 32 d.p.r. 600/73, il divieto di prendere in considerazione, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa, i libri, le scritture e i documenti di cui si è rifiutata l’esibizione, opera sia nell’ipotesi di rifiuto – per definizione “doloso” – dell’esibizione, sia nei casi in cui il contribuente trascuri l’esibizione della documentazione in suo possesso, non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.) e, quindi, per colpa (C. 7269/2009 e 21768/2009).
Ne deriva l’irrilevanza, nella fattispecie, del fatto che la mancata allegazione delle fatture in sede di risposta al questionario possa essere dovuta al ristretto tempo concesso alla società contribuente e alla concomitanza con la riapertura degli uffici dopo il periodo feriale.
Però, il meccanismo preclusivo, per la grave conseguenza dell’inutilizzabilità amministrativa e processuale di dati e documenti tardivamente prodotti, comporta che non sia soltanto la parte privata a dover collaborare, dovendo anche quella pubblica adeguare la propria condotta a quel canone di lealtà che, richiamato dalla giurisprudenza costituzionale, è codificato nel caso in esame dall’obbligo di avvertimento riguardo alle conseguenze dell’inottemperanza, fissato dal nucleo normativo dell’art. 32 cit. (C. 453/2013).
Si tratta del medesimo principio dì lealtà, poi sfociato negli articoli 6 e 10 dello Statuto del contribuente (“i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”, ivi compreso l’obbligo dell’amministrazione “…di informare il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l’irrogazione di una sanzione”), che sono idonei a fornire un decisivo indicatore ermeneutico.
Invece, dalla sentenza impugnata, non risulta in alcun modo che vi sia stato l’avvertimento al contribuente e nulla sul punto emerge dal contenuto del ricorso per cassazione (che, dunque, difetta dei requisiti di autonoma e adeguata specificità tipici dell’ impugnazione di legittimità).
Invero, spetta al fisco che, oppone alla successiva allegazione giudiziale delle fatture la preclusione di cui all’ art. 32, allegare e dimostrare che si è realizzata in pieno la sequenza procedimentale avviata col questionario. In mancanza, non può invocare la sanzione dell’ inutilizzabilità amministrativa e processuale di tali fatture, esibite dalla contribuente solo introducendo il processo tributario in prime cure. Si aggiunga, per completezza, che il fisco [nell’avviso di accertamento e nelle difese di merito e di legittimità) non contesta che le schede contabili, queste si tempestivamente inviate dalla società contribuente riguardo ai costi deducibili, siano fiscalmente rilevanti (artt. 14 e 22 d.p.r. 600/73) e rispondano ai requisiti formali di legge (v. C. 2250/2003). Egualmente non contesta la veridicità e l’attendibilità dei dati contabili indicati nelle schede stesse e, dunque, la loro sostanziale aderenza alla realtà dei fenomeni economici che esprimono riguardo alle fatture ivi contemplate e riguardo alla complessiva contabilità sviluppata nella cronologia del libro giornale e degli altri registri. Il che rileva – a favore della parte contribuente – secondo canoni di unicità e organicità del sistema contabile d’impresa e per il principio di effettività del soddisfacimento degli obblighi fiscali sostanziali (cfr. C. 24912/2011).
Il rigetto dei cinque motivi di ricorso nei confronti della società contribuente comporta la conferma della sentenza d’appello pronunziata “inter partes” e, di riflesso, la conferma delle altre due correlate decisioni nei confronti dei soci pure impugnate dal fisco. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono globalmente liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Riunisce e rigetta i ricorsi nn. 1817, 4512 e 16855 r.g. 2007; condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida globalmente a favore dei controricorrenti in complessivi € 12.600 (di cui £ 12.000 per compensi), oltre agli oneri di legge.
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