CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 ottobre 2013, n. 22396
Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Scritti offensivi diretti ai superiori – Messaggi di posta elettronica – Rilevanza esterna
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Trento, P.F., premesso che aveva stipulato in data 22 novembre 2004 con la Autotrasporti P. s.r.l. un contratto di lavoro a progetto ex art. 61 e segg. d.Igs. n. 276/03, dal quale la società era receduta in data 13 giugno 2005, chiedeva dichiararsi illegittimo il recesso e la condanna della società al pagamento della complessiva somma di € 68.500, a titolo di retribuzione del mese di giugno 2005, indennità sostitutiva del preavviso e di penale contrattualmente stabilita.
Nel contraddittorio delle parti, il Tribunale adito accoglieva pressoché integralmente la domanda, condannando la società al pagamento della somma di € 65.075,00, con gli accessori di legge.
Proponeva impugnazione la società e la Corte d’Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza, condannava la Autotrasporti P. s.r.l. a corrispondere al bronza la somma di € 3.425, a titolo di compenso per il periodo 1-15 giugno 2005, con gli accessori di legge; rigettava le altre domande proposte dal F.; condannava quest’ultimo al pagamento, a favore della società, della somma di € 3.425 a titolo di danni non patrimoniali, compensando per l’intero le somme reciprocamente dovute dalle parti.
Ha osservato la Corte di merito:
– che il contratto in questione poteva estinguersi per giusta causa ai sensi dell’art. 67 d. Igs. n. 276/03;
– che non era condivisibile la tesi del lavoratore, secondo cui anche nell’ipotesi di recesso per giusta causa fosse dovuta la penale, contrattualmente prevista in € 41.000;
– che nella specie dalle prove documentali e testimoniali acquisite era emersa la sussistenza della giusta causa, tenuto conto della natura gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte del P.;
– che tale condotta non era da attribuire ad un comportamento provocatorio della società;
– che era dovuta al F. la retribuzione per i primi quindici giorni di lavoro svolto nel mese di giugno 2005, pari ad € 3.425;
– che era fondata la domanda riconvenzionale proposta dalla società in primo grado ed avente ad oggetto i danni all’immagine subiti dalla stessa, tenuto conto della valenza diffamatoria della condotta posta in essere dal F.;
– che i suddetti importi andavano compensati interamente tra le parti.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso F.P. sulla base di otto motivi, illustrati da successiva memoria ex art. 378 cod. proc; la società resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con i primi due motivi, contestualmente trattati, il ricorrente denunzia vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ.
Deduce che, secondo una corretta interpretazione della relativa clausola contrattuale, la penale era dovuta anche nell’ipotesi di recesso per giusta causa, posto che tale clausola, nel fare riferimento agli eventuali recessi anticipati, si riferiva ad ogni ipotesi di recesso, senza distinguere se esso fosse avvenuto o meno per giusta causa.
2. Con il terzo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 67 d. Igs. n. 276/03, il ricorrente afferma che, pur prevedendo l’art. 67 dianzi indicato che le parti possono recedere dal contratto prima della scadenza del termine per giusta causa, tale disposizione non pregiudica l’applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli per il collaboratore a progetto, come espressamente recita l’art. 61 dello stesso decreto legislativo.
Nella specie, prevedendo il contratto individuale la clausola, più favorevole per il lavoratore, del pagamento della penale in ogni caso di recesso anticipato, doveva trovare applicazione tale clausola, prevalente rispetto alla disciplina legislativa.
3. Con il quarto motivo, denunziando vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente rileva che con l’email del 10 giugno 2005, spedita dopo più di una settimana dall’ultimo degli episodi richiamati nella lettera di recesso, la datrice di lavoro ha impartito al F. talune disposizioni in ordine alle prestazioni da svolgersi nella settimana successiva. Ciò dimostra come i contrasti insorti non erano tali da impedire la prosecuzione del rapporto di collaborazione e come fosse assolutamente pretestuosa l’avversaria asserzione circa la gravità dell’inadempimento addebitato al ricorrente e la sussistenza della giusta causa ex art. 2119 cod. civ.
4. Con il quinto motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ., il ricorrente ripropone le stesse censure di cui al precedente motivo, rilevando che è giusta solo quella causa che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto. Nella specie il rapporto era proseguito mediante l’attribuzione di nuovi incarichi, onde era da escludere la legittimità del recesso.
5. Con il sesto motivo, denunziando vizio di motivazione, il ricorrente afferma che la sentenza impugnata è illogica e insufficiente laddove è stato ritenuto che i fatti contestati al ricorrente abbiano integrato la giusta causa del recesso.
Descrive il ricorrente le condotte addebitategli e rileva che esse sono consistite sostanzialmente in manifestazioni di dissenso o in critiche, sia pure con toni accesi e coloriti, circa la gestione del rapporto, non idonee a far venir meno la fiducia che sta alla base dello stesso. Era stato dunque violato il principio della necessaria proporzionalità tra la sanzione e la condotta contestata.
6. Con il settimo motivo, denunziando vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente deduce che la sentenza impugnata è errata laddove ha ritenuto non provato il comportamento provocatorio del datore di lavoro.
Rileva che la prova di tale comportamento risultava dalle dichiarazioni del teste L.F. e contesta che il medesimo, come affermato in sentenza, sin dall’inizio della deposizione avesse tenuto un atteggiamento astioso nei confronti della società.
Aggiunge che tale teste è stato ritenuto attendibile solo con riguardo alle dichiarazioni rese a favore della società e che la Corte di merito sul punto ha svolto un ragionamento del tutto illogico.
7. Con l’ottavo motivo, denunziando ancora vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente critica la sentenza impugnata per avere, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dalla società, riconosciuto un danno all’immagine della stessa.
Rileva che le comunicazioni inviate dal ricorrente esclusivamente al legale rappresentante della Autotrasporti P. s.r.l. non potevano in alcun modo causare alla stessa società un siffatto danno, presupponendo questo che i comportamenti astrattamente lesivi dell’immagine vengano portati a conoscenza dei soggetti estranei all’ambito sociale, in modo da incidere sul buon nome e sulla reputazione della società.
8. I primi tre motivi, che vanno esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione, non sono fondati.
La Corte di merito ha escluso che, in presenza di una giusta causa dì recesso, il datore di lavoro fosse comunque tenuto a corrispondere la penale prevista dalla clausola n. 4 del contratto individuale, che così recita: “gli eventuali recessi anticipati dal presente contratto da ambedue le parti dovranno essere comunicati per iscritto con anticipo di tre mesi, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, rispetto alla data della effettiva cessazione della collaborazione. In tale evenienza per entrambe le parti è prevista un penale pari ad € 41.000,00.”
Premesso che l’ammissibilità di un recesso per giusta causa dai contratti a progetto è prevista dall’art. 67, comma 2, d. lgs. n. 276/03 (“Le parti possono recedere, prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale”) e che in base a tale disposizione il legislatore non ha inteso consentire alle parti di disciplinare in via derogatoria le ipotesi di recesso per giusta causa, il giudice d’appello ha affermato che l’espresso richiamo della clausola n. 4 alla necessità del preavviso dimostrava come con tale clausola le parti avessero voluto regolamentare le sole ipotesi di recesso ad nutum, prevedendo per esse l’obbligo di corresponsione di una penale.
Da ciò l’ammissibilità di un recesso per giusta causa senza che vi fosse l’obbligo della corresponsione della penale.
Deve al riguardo osservarsi che è principio ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e segg. cod. civ. o di motivazione inadeguata ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione, mentre la mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata non rileva ai fini dell’annullamento di quest’ultima (cfr., tra le più recenti, Cass. 30 aprile 2010 n. 10554; Cass. 31 maggio 2010 n. 13242; Cass. 22 novembre 2010 n. 23635; Cass. 2 maggio 2012 n. 6641).
Nella specie, non è ravvisabile alcuna violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale. La clausola in questione infatti, nel prevedere il recesso anticipato di una delle partì e l’obbligo della comunicazione di tale recesso con anticipo di tre mesi rispetto alla data di cessazione del rapporto di collaborazione, fa riferimento – come correttamente osservato dalla sentenza impugnata – alle sole ipotesi di recesso ad nutum, stabilendo, in tal caso, la corresponsione di una penale.
Tale clausola non interferisce in alcun modo sulla risoluzione del contratto per giusta causa, la quale, espressamente prevista per i contratti a progetto dall’art. 67 d. Igs n. 276/03, resta regolata dai principi generali in materia, secondo cui è consentito al datore di lavoro di risolvere, senza preavviso, il rapporto quando si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, dello stesso per essere venuto meno l’elemento fiduciario.
Anche sotto il profilo logico-sistematico l’interpretazione fornita dalla sentenza impugnata è corretta.
Ed infatti, la clausola penale assolve alla funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria nell’ipotesi di inadempimento di una delle parti. Essa è dovuta alla parte adempiente, senza che questa debba fornire la prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno.
Se la clausola contrattuale in esame fosse interpretata nei senso auspicato dal ricorrente, questi, ancorché inadempiente per essere venuto meno agli obblighi contrattuali, determinando così la risoluzione del rapporto, verrebbe a beneficiare della penale, sovvertendosi così i principi in materia, secondo cui è alla parte adempiente che deve essere assicurata la penale, attraverso una liquidazione forfettaria dei danni.
9. Anche il quarto e il quinto motivo, da trattare congiuntamente perché connessi, sono infondati.
La Corte territoriale ha ritenuto che dalla lettura della e-mail del 10 giugno 2005, con la quale vennero impartite al ricorrente alcune disposizioni in ordine alle prestazioni da svolgersi nella settimana successiva, non emergeva in alcun modo che la società avesse inteso abdicare al suo potere di recesso, essendosi la medesima limitata a specificare le attività che il collaboratore avrebbe dovuto porre in essere a partire dal lunedì successivo.
La motivazione non è illogica, ove si consideri che, in attesa delle determinazioni da assumere in merito alle reiterate condotte tenute dal ricorrente anche nel periodo immediatamente antecedente a tale comunicazione, era del tutto normale che il ricorrente continuasse ad espletare la propria attività in base alle istruzioni fornitegli dal legale rappresentante della società (“per la prossima settimana (24°) ritengo che potrebbe dedicare alcune giornate alla visita dei clienti tedeschi ai quali ha fatto pervenire la ns. offerta…”), non essendovi incompatibilità tra la comunicazione delle suddette istruzioni ed il successivo recesso disposto dalla società all’esito della valutazione del comportamento tenuto dal ricorrente.
10. Parimenti infondati sono il sesto e il settimo motivo, con i quali si contestano la giusta causa del recesso e l’erronea valutazione delle dichiarazioni dei testi, anche in relazione al comportamento asseritamente provocatorio tenuto dal datore di lavoro.
Questa Corte ha più volte precisato, in tema di licenziamento (ma i relativi principi sono applicabili anche in caso di recesso per giusta causa del lavoratore a progetto) che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. 25 maggio 2012 n. 8293; Cass. 7 aprile 2011 n. 7948; Cass. 15 novembre 2006 n. 24349)
E’ stato altresì precisato che il controllo sulla congruità e sufficienza della motivazione, consentito dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non deve risolversi in un nuovo giudizio di merito attraverso una autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa, risultando ciò estraneo alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (cfr. Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 23 febbraio 2009 n. 4369; Cass. 10 dicembre 2007 n. 25743; Cass. 7 giugno 2005 n. 11789).
Spetta, infatti, al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti. Conseguentemente per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto il mancato esame di elementi probatori costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre circostanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva dì base (cfr., tra le altre, Cass. 15355/04; Cass. 9368/06; Cass. 9245/07; Cass. 14752/07).
Nella specie la Corte territoriale, esaminando il contenuto delle e-mail indirizzate dal ricorrente al direttore generale della società e al legale rappresentante della stessa e le espressioni profferite dal bronza nei confronti di quest’ultimo (tra l’altro, il ricorrente ha definito la sig.ra P., legale rappresentante della società, una “mentecatta e pazzoide”; ha apostrofato la stessa, dicendole di vergognarsi di lei e che non si sarebbe più fatto vedere in giro con la stessa, accusandola di aver creato una “atmosfera puzzolente1; ha accusato la Autotrasporti P. di essere una “ditta di m….dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene”;), ha affermato che “la natura gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte” appariva “talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti. Il comportamento del F. era pertanto privo di ogni plausibile giustificazione.
Ha escluso poi la sentenza impugnata che vi fosse stato un comportamento provocatorio della società ed ha concluso per la legittimità del recesso.
Trattasi di motivazione congrua, sufficiente e non contraddittoria, conseguente ad una corretta valutazione delle risultanze processuali, non censurabile in questa sede di legittimità. Da qui l’inidoneità delle censure formulate dal ricorrente ad inficiare la decisione impugnata.
11. L’ottavo motivo è fondato.
Questa Corte ha in più occasioni affermato che nei confronti della persona giuridica ed in genere dell’ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra quello relativo all’immagine, allorquando si verifichi la sua lesione. In tali casi, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, è risarcibile il danno non patrimoniale costituito – come danno ed. conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca (Cass. n, 12929/2007; Cass. n. 4542/12).
Nella specie la Corte territoriale ha ritenuto che l’immagine della società fosse stata lesa da una affermazione contenuta in una e-mail del ricorrente, trasmessa al legale rappresentante della società, nella quale così si afferma: “in nessuna azienda sana un responsabile commerciale deve fare sottoscrivere alla “mamma” le offerte che va a redigere”; ed altresì: la P. è “una ditta di m…. dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene”.
Tali affermazioni, ad avviso del Collegio, in quanto non esternate al di fuori dell’ambito aziendale, non sono idonee ad incidere sulla reputazione, sul prestigio e sul buon nome della società né tanto meno a provocarne la caduta dell’immagine.
Né la sentenza fa riferimento ai danni che la società, prima ancora di aver provato, ha dedotto di aver subito per effetto di dette affermazioni.
In tale situazione la domanda risarcitoria non poteva essere accolta.
La sentenza impugnata va conseguentemente cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa sul punto va decisa nel merito ai sensi dell’art. 384, comma 2, cod. proc. civ., con il rigetto della domanda riconvenzionale.
12. Avuto riguardo all’esito del presente giudizio e alle fasi alterne dei giudizio di merito vanno interamente compensate tra le parti le spese dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie l’ottavo motivo del ricorso e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda riconvenzionale della società relativa al risarcimento dei danni e compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
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