CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 ottobre 2013, n. 22502
Tributi – Contenzioso trributario – Atto impugnato oltre i termini – Utilizzo pretestuoso del processo – Abuso del processo
Ritenuto in fatto
1. Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello principale dell’Ufficio e quello incidentale del contribuente (…), è stata confermata l’illegittimità dei provvedimenti con i quali l’Agenzia delle entrate aveva opposto il diniego alla definizione delle liti pendenti, richiesta con istanze presentate ai sensi dell’art. 16 della legge n. 289 del 2002, in quanto il ricorso introduttivo avverso due avvisi di accertamento notificati il 12 dicembre 1997 era stato proposto solo in data 24 dicembre 2002.
Il giudice a quo ha ritenuto che la nozione di “lite pendente” si basa su un criterio meramente formale, per cui la proposizione di un atto qualificabile come ricorso introduttivo è sufficiente ad instaurare una lite, a prescindere dal fatto che il ricorso stesso sia valido e rituale, e il contribuente ha, quindi, diritto di avvalersi del condono fino a quando il ricorso non sia dichiarato inammissibile con sentenza passata in giudicato.
2. resiste con controricorso e propone anche ricorso incidentale.
Considerato in diritto
1. I ricorsi vanno preliminarmente riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
2. Con l’unico motivo del ricorso principale (il quale, contrariamente a quanto eccepito dal controricorrente, è ammissibile, ai sensi dell’art. 366, primo comma, n. 3, c.p.c., contenendo una esposizione dei fatti idonea a far comprendere i termini essenziali della questione proposta), viene denunciata la violazione degli artt. 15 e 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e dei “principi generali in tema di finalità del condono tributario e di inammissibilità e irricevibilità degli atti giudiziari”.
I ricorrenti formulano, in conclusione, il seguente quesito di diritto: “se, ai sensi dell’art. 16, comma terzo, lett. a), l. 289/2002, si intenda o meno per <lite pendente> quella avente ad oggetto avvisi di accertamento, provvedimenti di irrogazione delle sanzioni e ogni altro atto di imposizione, per i quali alla data di entrata in vigore della legge medesima sia stato proposto tempestivamente, ai sensi della disciplina vigente in tema di processo tributario. L’atto introduttivo del giudizio, nella quale sussista ancora margine di incertezza e che sia pertanto interesse non solo del contribuente ma anche dell’amministrazione definire, con esclusione quindi di liti aventi ad oggetto atti impositivi ormai da tempo divenuti definitivi e perciò non più <litigiosi>, neppure potenzialmente”.
3.1. Il ricorso è fondato, nei sensi di seguito precisati.
Il Collegio è pienamente consapevole del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, ai fini della definizione delle liti fiscali pendenti, la pendenza della lite deve intendersi in senso formale, per cui i vizi implicanti l’inammissibilità (ma non la radicale inesistenza) dell’atto di instaurazione del giudizio non sono ostativi alla sua definizione, essendo sufficienti la potenziale idoneità dell’atto ad aprire il sindacato sul provvedimento impositivo – indipendentemente da un preventivo riscontro e da una pronuncia sulla ritualità in concreto dell’iniziativa del contribuente – e che esso non sia già stato dichiarato inammissibile dal giudice tributario con sentenza definitiva (tra le altre, in relazione a diverse normative di condono, Cass. nn. 16000 del 2000, 2905 del 2002, 5035 del 2003, 23173 del 2005, 26841 del 2007, 1052 del 2008, 6841 del 2013).
Tuttavia, tale principio, pur condivisibile in linea generale, non può non trovare un temperamento, al fine di evitare il verificarsi di casi palesemente abnormi e immeritevoli di tutela.
3.2. Già è stato affermato, in un precedente rimasto isolato, che, in tema di condono fiscale, l’impugnazione tardiva a fini meramente strumentali, per creare cioè artificiosamente un contenzioso che permetta il pagamento di una minore imposta rispetto a quanto accertato, non può sortire l’effetto voluto poiché il pagamento di una somma inferiore si può consentire solo quando abbia per contropartita l’eliminazione di un contenzioso, non quando tale contenzioso non sussista più per essere l’atto impositivo divenuto definitivo, in assenza di tempestiva impugnazione, ancor prima dell’intervento della normativa sul condono invocato; si deve essere, cioè, in presenza di liti “reali”, che abbiano ancora un margine di incertezza, dovendo escludersi ogni interpretazione che consenta di rimettere in discussione, oltre ogni limite temporale, atti impositivi ormai da tempo divenuti definitivi e perciò non più “litigiosi”, neppure potenzialmente, posto che, diversamente opinando, la normativa in materia di condono, lungi dal deflazionare il contenzioso, indurrebbe invece un contenzioso artificioso e strumentale (Cass. n. 15158 del 2006).
Questo orientamento va precisato e supportato facendo riferimento sia ai canoni generali di correttezza e buona fede – sempre più valorizzati nei rapporti obbligatori in genere ed in quelli tra fisco e contribuente in particolare (art. 10 della legge n. 212 del 2000) – sia ai principi di lealtà processuale (art. 88 c.p.c.) e del giusto processo (art. 111 Cost.).
Deve ritenersi, intatti, che costituisce violazione di detti principi e configura, in particolare, una forma di abuso del processo l’utilizzazione di strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento appresta alla parte tali mezzi di tutela della propria posizione sostanziale (cfr. Cass., sez. un., n. 23726 del 2007, nonché Cass. nn. 28719 del 2008,28286 del 2011, 6664 del 2013).
Venendo ai casi di definizione delle liti tributarie pendenti, la sussistenza di una forma di abuso del processo va ravvisata in presenza di elementi dai quali emerga, in modo evidente e inequivoco, il carattere meramente fittizio e artificioso della controversia principale, instaurata, nonostante la palese tardività, al solo fine di creare il presupposto per poter finire del beneficio: un chiaro elemento sintomatico della configurabilità di un uso abusivo del processo è costituito dal fatto che il contribuente – come nel caso in esame – abbia impugnato l’atto impositivo ben oltre il termine di legge (nella specie, dopo cinque anni dalla notifica), senza nulla argomentare in ordine alla perdurante ammissibilità dell’impugnazione nonostante il tempo trascorso.
3.3. Pertanto, deve ritenersi che il diniego opposto dall’Ufficio alla domanda di definizione della lite sia stato, nella fattispecie, pienamente legittimo.
4. Il ricorso incidentale del contribuente deve essere rigettato, perché tutti i motivi proposti sono inammissibili in quanto completamente privi del relativo quesito di diritto, prescritto dall’art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis).
5. In conclusione, va accolto il ricorso principale e rigettato l’incidentale; la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente avverso i provvedimenti di diniego.
6. La peculiarità della fattispecie e il prevalente orientamento giurisprudenziale favorevole al contribuente inducono a disporre la compensazione delle spese dei gradi di merito, mentre quelle del presente giudizio di cassazione vanno poste a carico del soccombente e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale e rigetta l’incidentale; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente.
Compensa le spese dei gradi di merito e condanna il ricorrente incidentale alle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €. 2000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
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