CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 ottobre 2013, n. 23233
Risarciscono il fallimento i sindaci della Spa che non si adoperano per contenere l’esposizione debitoria
Svolgimento del processo
Il fallimento della s.p.a. C. – (…) (dichiarato con sentenza del 26 febbraio 1988) conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Salerno, G.F., amministratore della società, nonché F.B., G.C. ed U.A., componenti del collegio sindacale, chiedendone la condanna al risarcimento dai danni patiti dalla società. In particolare, a fondamento della responsabilità dei sindaci, il fallimento deduceva che essi avevano omesso di vigilare sull’osservanza degli obblighi legali e statutari da parte dell’amministratore il quale, tra l’altro, aveva: a) omesso di convocare l’assemblea per i provvedimenti di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c., resi necessari dall’ingente perdita registrata nell’esercizio 1986 e risultante dal relativo bilancio approvato con ingiustificato ritardo soltanto in data 28 giugno 1987; b) occultato dolosamente perdite ben più gravi di quelle esposte in bilancio, riportando ingenti crediti al loro valore nominale, malgrado ricorressero ragioni per una loro prudenziale riduzione, ed iscrivendo il valore di alcune partecipazioni al prezzo di acquisto, senza tenere conto delle variazioni di valore intervenute.
Con sentenza del 23 novembre 2000 il Tribunale di Nocera Inferiore, al quale, dopo la sua istituzione, la causa era stata trasferita, condannava i sindaci, insieme all’ amministratore, al risarcimento dei danni nella misura di lire 15.000.000.000, osservando che ai convenuti non si poteva ascrivere la responsabilità dell’intero dissesto ma soltanto quella per l’aggravamento delle esposizioni debitorie, conseguito al ritardo nella dichiarazione di fallimento ed individuato negli interessi per un biennio sulle esposizioni bancarie e sulle altre esposizioni, quasi tutte verso imprenditori commerciali.
Con sentenza del 20 marzo 2006, la Corte di appello di Salerno, in parziale accoglimento delle impugnazioni proposte dai convenuti, riduceva la condanna ad 6 3.700.000,00, osservando, per quanto ancora interessa e perciò con specifico riferimento alla posizione dei sindaci, odierni ricorrenti, che: a) i sindaci rispondono dei pregiudizi arrecati al patrimonio della società che siano conseguenza diretta ed immediata delle condotte illecite degli amministratori, quando essi non abbiano ottemperato ai doveri di vigilanza inerenti alla loro carica e ricorra un nesso di causalità tra tali inosservanze ed il danno; b) dalla consulenza tecnica d’ufficio, espletata nel giudizio di primo grado, erarisultato che: in sede di bilancio erano mancati i necessari chiarimenti sui rapporti tra la C. e le società collegate; non erano state indicate le ragioni della valutazione al costo di acquisto delle partecipazioni in alcune società, malgrado il loro patrimonio netto avesse subito significative variazioni; non erano state indicate le ragioni della indicazione dei valori nominali di numerosi crediti; la perdita dell’esercizio 1986 doveva ritenersi ben maggiore di quella di lire 1.888.131.937 evidenziata nel bilancio e doveva ascriversi a condotte di cattiva gestione coperte con non veritiere risultanze dei precedenti bilanci; c) l’assemblea per l’approvazione del bilancio al 31 dicembre 1986 si era tenuta solo nel mese di giugno 1987 e non erano stati adottati né allora né successivamente i provvedimenti previsti nel caso di riduzione del capitale sociale al disotto del limite di legge; d) i sindaci, in grado di percepire il dissesto già alla chiusura dell’esercizio 1986 anche in considerazione dell’analogo ruolo da essi svolto nelle società collegate, avevano mancato ai loro doveri di vigilanza e non avevano azionato i poteri sostitutivi con ricorso al tribunale, ai sensi degli artt. 2446 – 2450 c.c.» e con esposto al p.m. per sollecitare una richiesta di provvedimenti ex art. 2409 c.c.; in tal modo essi avevano aggravato il
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 2407, 2393, 2043 c.c. e 146 l. fall, nonché il vizio di motivazione, lamentando che nella specie il fallimento non aveva dimostrato e la Corte di appello non aveva accertato un nesso di causalità giuridicamente rilevante tra le condotte dei sindaci, asseritamente in violazione dei loro doveri, e l’evento dannoso.
Si deve premettere che i ricorrenti non hanno affatto censurato la configurabilità di un danno con riferimento al ritardo con cui nella fattispecie è divenuto operativo il blocco degli interessi previsto dall’art. 55 l. fall.; in questa sede, pertanto, non si deve accertare se può parlarsi di danno con riferimento alla società, considerato che il blocco degli interessi opera ai fini del concorso e non nei rapporti tra debitore e creditore e neppure si deve accertare in quali termini possa parlarsi di danno con riferimento ai creditori, considerato che il blocco degli interessi è intervenuto in ritardo per tutti i creditori, con la conseguenza che tutti i crediti ammessi al passivo devono ritenersi essere aumentati in misura proporzionale e, pertanto, all’esito del riparto riceveranno probabilmente una somma identica a quella che avrebbero ricevuto nel caso di tempestiva dichiarazione di fallimento.
Tanto premesso, il motivo è infondato. La sentenza impugnata ha, infatti, individuato il danno cagionato dalla condotta omissiva dei sindaci non nel dissesto, ma nel suo aggravamento conseguito, per effetto dell’aumentato ammontare degli interessi, al ritardo con cui è stato dichiarato il fallimento. Può dirsi, pertanto, in re ipsa, il nesso di causalità considerato che ai sindaci si è addebitato la mancata formulazione di rilievi critici su poste di bilancio palesemente ingiustificate ed il mancato esercizio di poteri sostitutivi che, secondo l’id quod plerumque accidit, avrebbero condotto ad una più sollecita dichiarazione di fallimento.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto l’irrilevanza dei documenti prodotti senza considerare che la loro formazione in un diverso procedimento non ne impediva la libera valutazione come elemento indiziario e che il giudice del gravame aveva l’obbligo di estendere il proprio giudizio a tutte le risultanze probatorie.
Il motivo è inammissibile in quanto non prende in considerazione l’assorbente causa di irrilevanza indicata dalla Corte di appello e cioè il fatto che l’esistenza di una causa del dissesto non addebitabile ad amministratore e sindaci non escludeva, comunque, la loro responsabilità per l’aggravamento del dissesto.
Con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 61, 115, 116 e 196 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello non aveva disposto la rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio, partendo dall’erroneo presupposto che gli appellanti non avessero formulato circostanziate doglianze avverso la c.t.u. espletata nel giudizio di primo grado. Al contrario, gli appellanti, nel contestare la sussistenza del rapporto causale, avevano prospettato ben dieci quesiti da sottoporre al nominando c.t.u.
Il motivo è infondato. Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio secondo cui spetta al giudice di merito, nell’esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione dell’opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini, ed il mancato esercizio di tale potere, così come il suo esercizio, non è censurabile in sede di legittimità (e plurimis Cass. 3 aprile 2007, n. 8355; Cass. 29 maggio 2008, n. 14462; Cass. 14 novembre 2008, 27247). Il giudice di appello “deve, tuttavia, prendere in considerazione i rilievi tecnico-valutativi mossi dall’appellante alle valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata” (Cass. 17 dicembre 2010, n. 25569). Di tali rilievi, tuttavia, non vi è cenno nei motivi di appello, come riportati nel ricorso (pp. 10-14); pertanto, la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica, formulata in appello dagli odierni ricorrenti ed intesa ad accertare il valore dei crediti vantati dalla C.. ed il valore delle sue partecipazioni, non era, come esattamente rilevato dalla sentenza impugnata, giustificata dai motivi di gravame ai quali è limitato l’effetto devolutivo dell’appello. Né al riguardo, secondo quanto già esposto nell’esame del primo motivo, potevano giovare le contestazioni circa la sussistenza di un nesso di causalità tra il dissesto e le condotte di amministratore e sindaci. Ne consegue che il rilievo della mancanza di adeguate critiche alla consulenza tecnica d’ufficio svoltasi in primo grado esauriva l’obbligo di motivazione del giudice d’appello quanto al diniego della rinnovazione richiesta.
Con il quarto motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 1226, 2056 e 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello, dopo avere individuato il danno nella maturazione di ulteriori interessi sulle esposizioni debitorie della società dissestata, lo aveva liquidato equitativamente, esonerando di fatto il curatore dall’onere di fornire gli elementi di prova utili alla quantificazione dei danno e principalmente le informazioni in possesso della curatela in ordine alle singole esposizioni debitorie della società fallita e in ordine ai tassi di interesse applicabili ed applicati.
Il motivo è infondato. L’esercizio in concreto del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, nonché l’accertamento del relativo presupposto, costituito dall’impossibilità o dalla rilevante difficoltà di precisare il danno nel suo esatto ammontare, sono il frutto un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato (e plurimis Cass. 2 aprile 2001, n. 4788; Cass. 21 giugno 1995, n. 7024). Nella specie la Corte di appello, ritenute certo ed esistente il danno, individuato negli ulteriori interessi maturati sull’esposizione debitoria della società, ha desunto equitativamente l’ammontare di quest’ultima dal bilancio del 1986 in quanto, pur dando atto che la curatela non aveva messo a disposizione la documentazione contabile, ha formulato un assorbente giudizio circa “la notevole difficoltà dei conteggi, da operarsi sulle singole voci di credito ammesse al passivo, depurate eventualmente dagli esiti delle contestazioni insorte e plausibilmente possibili con precisione solo al momento della chiusura del fallimento” e, inoltre, in considerazione della “complessità dei conteggi con riferimento alle singole voci, alla stregua della difficoltà di reperimento della documentazione necessaria per ciascuna ragione di credito” ha ritenuto di applicare equitativamente, ma sulla base delle nozioni di comune esperienza in ordine ai tassi all’epoca correnti sia nei rapporti bancari che in quelli commerciali, un tasso del 20 % annuo sulla detta esposizione. È evidente, pertanto, che la Corte di appello non ha affatto illegittimamente esonerato la curatela dall’onere di provare il danno, ma una volta ritenuta certa l’esistenza dello stesso, ha dato rilievo, come consentito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., alla difficoltà di reperimento della documentazione necessaria, la cui presenza, comunque, non avrebbe eliminato “la notevole difficoltà dei conteggi”.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al rimborso delle spese di lite liquidate in € 15.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CP.
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