CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2013, n. 23325
Tributi – IVA – Fatture – Operazioni inesistenti – Onere della prova – Ripartizione
Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate-Ufficio di Milano rettificava, ai fini IRPEG ed IRAP, gli imponibili dichiarati dalla C. s.r.l. per l’anno di imposta 1999.
La rettifica scaturiva da un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza da cui emergeva che la Società aveva annotato, quale costo, nelle scritture contabili, fatture emesse dalla M. s.n.c. per forniture di materiale ferroso mai eseguite.
Il ricorso, proposto avverso l’avviso di accertamento dalla Società, veniva accolto dalla Commissione Provinciale di Milano ma la sentenza, appellata dall’Agenzia dell’Entrate, veniva integralmente riformata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia con la sentenza indicata in epigrafe.
In particolare, i Giudici territoriali argomentavano la decisione rilevando che la mera produzione delle fatture, sebbene regolarmente annotate, non era idonea -in mancanza delle bolle di consegna ed a fronte degli elementi forniti dall’ufficio quali la mancanza in capo alla società fornitrice di strutture idonee- a comprovare l’effettività delle operazioni. Avverso la sentenza C. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione affidato a dieci motivi.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si censura, ai sensi dell’art. 360, I comma, n.5 c.p.c, la sentenza impugnata di omessa ed insufficiente motivazione per non avere la Commissione regionale lombarda enunciato quale fosse la prova fornita dall’Agenzia delle Entrate sulla base della quale i costi fossero da recuperare a tassazione.
Il motivo è infondato. Come evincibile dalla lettura della sentenza impugnata i Giudici di appello hanno espressamente enunciato la prova fornita dall’Amministrazione finanziaria, individuandola nel rapporto della Guardia di Finanza dal quale emergeva che la società, indicata come fornitrice dei prodotti indicati in fattura, non aveva una struttura tale da potere effettuare consegne di beni.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art.360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art.7 co. 4 d.lgs. 31.12.1992 n.546. La sentenza impugnata viene censurata per avere “ridato efficacia all’accertamento tributario facendo propri i vizi di questo provvedimento” ed in particolare, per avere fondato inammissibilmente, siccome in spregio della norma indicata (la quale sancisce il divieto di prova testimoniale nel processo tributario), la decisione sulle dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza dal legale rappresentante della società fornitrice. La dedotta inammissibilità viene posta anche a fondamento del quarto motivo con il quale la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2967 c.c. per avere la Commissione Tributaria Regionale assunto come prova la dichiarazione del terzo resa fuori udienza.
I motivi sono infondati e, comunque, inconducenti. In materia, costituisce principio condiviso quello per cui, nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 si riferisce alla prova testimoniale quale prova da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (cfr.Cass.n.9402/07; n.703/2007, e da recente n.8369/2013) .
I mezzi, -riportando, peraltro, con difetto di specificità, solo per stralcio insufficiente allo scopo, il p.v.c- appaiono, comunque, inconducenti laddove, la Commissione di appello non ha posto a fondamento della decisione la dichiarazione resa dal terzo (della quale non viene neppure fatta menzione nella decisione della sentenza impugnata) ma la diversa circostanza! data come emergente dal processo verbale redatto dalla Guardia di Finanza secondo cui la società fornitrice non possedesse alcuna struttura idonea alla vendita dei beni oggetto di fatturazione (non fatta oggetto di alcuna specifica censura).
Con il terzo motivo -rubricato in relazione all’art.360 co. 1 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art.2697 c.c. – la ricorrente deduce che la Commissione Tributaria regionale avrebbe dovuto controllare che l’Agenzia delle Entrate avesse provato che l’operazione commerciale, documentata dalla fattura, in realtà non era mai stata posta in essere, mentre avrebbe, violando l’art.2697 c.c., invertito l’onere della prova in capo alla società contribuente.
Il motivo è infondato.
L’art.39 d.p.r. n.600/73 dispone che l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile sulla base di presunzioni semplici purché queste siano gravi, precise e concordanti. E la giurisprudenza di questa Corte (cfr. tra le altre n.6229/13, n.9108/12, n.12802/11, 2598/10) è consolidatamente orientata nel ritenere che- qualora l’Amministrazione contesti indebite detrazioni di Iva e deduzioni dì costi fatturati, fornendo elementi, anche semplicemente presuntivi, purché oggettivi, atti ad asseverare l’emissione di fatture in assoluta assenza di corrispondente prestazione- è onere del contribuente che rivendichi la legittimità della deduzione degli esborsi fatturati e quella della detrazione dell’ Iva correlativamente indicata, fornire la prova dell’effettiva esistenza delle operazioni. Ai sensi dell’art.21 d.p.r. n.633/1972, la fattura è, infatti, documento idoneo a rappresentare operazioni rilevanti ai fini fiscali, ma, in presenza dì elementi seriamente inducenti a ritenere l’insussistenza di corrispondente prestazione commerciale, perde detta idoneità (non insorgendo il diritto alla deduzione e quello della detrazione fiscale per il mero fatto dell’indicazione in fattura dell’ operazione commerciale, v. C.G. 31.1.2003 in causa C-642711, punto 30 e l’ulteriore giurisprudenza ivi richiamata), così determinandosi il passaggio sul contribuente dell’ onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni rappresentate (cfr.Cass.n.6229/13 cit.).
Alla luce di detti principi la norma di riferimento risulta correttamente interpretata dalla Commissione di secondo grado la quale -dando atto della sussistenza di dette presunzioni (quali emergenti dal “rapporto” della Guardia di Finanza circa la mancanza di struttura produttiva idonea della società fornitrice)- ha, poi, ritenuto che le stesse non fossero state superate dalla contribuente con l’allegazione di idonei elementi di prova contraria (quali, secondo la sentenza impugnata, per esempio, la produzione delle bolle di consegna della merce che, pure, risultavano riportate nelle fatture) .
Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art.360 n.5 c.p.c. e con violazione dell’art.115 c.p.c., la contraddittorietà tra il materiale acquisito al giudizio e le conclusioni raggiunte dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano.
In particolare, il fatto controverso in relazione al quale la motivazione della sentenza impugnata si assume contraddittoria viene individuato nell’avere la Commissione tributaria regionale affermato che l’Agenzia delle Entrate di Milano avrebbe fornito la prova per la ripresa a tassazione dei costi per inesistenza dell’operazione di acquisto quando invece, dalla dichiarazione di terzo acquisita agli atti del giudizio emerge che l’operazione economica di acquisto vi è stata”.
Con il sesto motivo si deduce, sulla base degli stessi elementi fattuali sopra rassegnati, la violazione dell’art.115 c.p.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c.
Quest’ultimo motivo è inammissibile deducendosi erroneamente la violazione dell’art.115 c.p.c. sotto l’egida del n.3 dell’art.360, I comma, c.p.c. anzicchè del n.5 stessa norma come, peraltro, correttamente dedotto dalla ricorrente con il quinto motivo il quale, però, va incontro a rigetto.
Costituisce ius receptum che l’omesso esame di un fatto previsto dall’art.360 n.5 c.p.c. è costituito da quel difetto di attività del giudice di merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia trascurato una circostanza obiettiva acquisita alla causa idonea di per sé, qualora fosse stata presa in considerazione a condurre con certezza ad una decisione diversa da quella adottata. Ad integrare, pertanto, il suddetto difetto occorre, pertanto, non solo che il fatto sia stato totalmente trascurato dal giudice ma anche che il fatto in questione, per la sua diretta inerenza al rapporto in contestazione sia dotato di una intrinseca valenza tale da non potere essere escluso dal novero delle emerge processuali decisive per una corretta soluzione della lite.
Alla luce di detti principi, il motivo si appalesa inammissibile.
Le dichiarazioni rese dal terzo alla Guardia di Finanza, infatti, non integrano una circostanza obiettiva onde non se ne apprezza la decisività mentre il motivo così come articolato, tende ad una nuova valutazione del fatto accertato dal giudice di merito con decisione, in questa sede insindacabile perché sorretta da motivazione congrua ed esauriente.
Quanto esposto comporta, altresì, l’assorbimento del settimo e dell’ottavo motivo di ricorso con i quali si è denunciata sotto diversi profili, ai sensi dell’art.360 n.3 c.p.c, la violazione dell’art. 2727 c.c..
Entrambi i motivi hanno, infatti, quale presupposto fattuale il contenuto delle dichiarazioni rese dal terzo alla Guardia di Finanza il quale, come già sopra esposto, è inconducente (avendo la Commissione regionale fondato la propria decisione su altra ratio decidendi) ed irrilevante (non essendo decisivo).
Con il nono motivo si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt.52 e 75 d.lgs.n.917/1986 nel testo applicabile ratione temporis, per non avere l’Amministrazione finanziaria addotto alcuna ragione che le consentisse, come avvenuto, di discostarsi dalle risultanze del conto economico, con conseguente errore della Commissione tributaria nell’avere confermato l’accertamento.
Con il decimo motivo, infine, si deduce, in relazione all’art.360 co. 1 n.3 c.p.c, la violazione o falsa applicazione degli artt.4 e 5 d.lgs. 15.12.1997 n.446 in materia di IRAP. Secondo la prospettazione difensiva la sentenza impugnata che aveva confermato il recupero di costi perfettamente deducibili si poneva in contrasto con le norme indicate le quali dispongono che agli effetti IRAP la base imponibile sia data dalla differenza fra la somma delle voci classificabili nel valore della produzione netta di cui al primo comma, lettera a, dell’art. 2425 c.c. e la somma di quelle classificabili nei costi di produzione di cui lettera b del medesimo comma, ad esclusione delle perdite su crediti e delle spese per il personale dipendente.
Entrambi i motivi sono inammissibili risultando le questioni agli stessi sottese introdotte, per la prima volta, in questo grado di legittimità.
In conclusione il ricorso va rigettato. In ossequio al principio di soccombenza, la ricorrente va condannata alla refusione in favore dell’ Agenzia delle Entrate delle spese processuali liquidate, come in dispositivo, sulla base dei parametri di cui al D.M.n.140/2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente, in persona del legale rappresentante pro-tempore, alle spese processuali che liquida in complessivi euro 8.000,00 oltre spese prenotate a debito.
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