CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2013, n. 23357
Licenziamento – Cessione ramo d’azienda – Dissenso – Reintegro – Legittimità.
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Padova, L.Z. deduceva di aver lavorato alle dipendenze della B. s.p.a. dal 1.10.1986; di aver ricevuto, in data 30.9.2003, comunicazione da parte della società della cessione del ramo d’azienda cui egli, secondo la prospettazione aziendale, afferiva, in favore della società H.P. S.r.l. ( (…) ); di avere, con missiva del 15.10.2003, impugnato il licenziamento comunicatogli da B. e manifestato ad (…) il proprio dissenso all’operazione di cessione; di avere, dopo l’intervento della cessione, continuato a prestare la propria attività nella stessa sede e nelle medesime condizioni di fatto. Chiedeva pertanto che fosse dichiarata l’illegittimità del trasferimento del ramo di azienda ex art. 2112 c.c., per mancanza dei presupposti o comunque per frode alla legge, e la condanna della B. al ripristino del rapporto di lavoro, oltre al risarcimento del danno.
Si costituiva in giudizio la società convenuta, eccependo in primo luogo l’inammissibilità del ricorso per asserita carenza di interesse ad agire in conseguenze delle dimissioni del lavoratore, e comunque la sua infondatezza nel merito; ne chiedeva pertanto il rigetto.
Escussi vari testimoni, il Tribunale di Padova accoglieva tutte le domande del ricorrente, condannando la società cedente a reintegrare il lavoratore nel proprio posto di lavoro. Avverso la sentenza interponeva gravame la società A. s.p.a. (succeduta alla B. s.p.a.), ribadendo le argomentazioni già svolte in primo grado; la Corte d’appello di Venezia, con sentenza depositata il 27 luglio 2011, rigettava il gravame.
Per la cassazione propone ricorso la società A., affidato a due motivi, poi illustrati con memoria. Resiste lo Z. con controricorso.
Motivi della decisione
Deve pregiudizialmente respingersi l’eccezione di inesistenza o nullità della notificazione del presente ricorso per cassazione, per essere stata eseguita presso il domicilio eletto per il primo grado (Padova, (…) ) e non quello eletto per il giudizio di appello (Venezia-Marghera, (…) ).
Ed invero è decisivo che lo Z. si sia costituito regolarmente, difendendosi ampiamente nel merito, sanando, ex art. 164 c.p.c. il vizio, da qualificarsi comunque come nullità, soggetta a rinnovazione (nella specie inutile stante la tempestiva costituzione del controricorrente), e non come inesistenza (cfr. Cass. 11 aprile 2011 n. 8177; Cass. ord. 3 aprile 2012 n. 5341; Cass. 14 maggio 2004 n. 9242; Cass. 7 novembre 2005 n. 21497), posto che dal timbro apposto nell’intestazione del controricorso emerge che entrambi i domicili risultano far capo al difensore dello Z. e dunque a lui riferibili.
1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. e degli artt. 1406, 2094 e 2112 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente sussistere un interesse ad agire del ricorrente il quale non solo si era volontariamente dimesso dalla (…), mostrando così di accettare l’intervenuta modificazione soggettiva del rapporto, ma non aveva neppure dedotto l’esistenza di un reale pregiudizio subito a causa del trasferimento del ramo di azienda, non essendovi alcun elemento fiduciario del lavoratore nei confronti dell’azienda, ed in sostanza alcun interesse del lavoratore per la persona (fisica o giuridica) del datore di lavoro. Il motivo è infondato.
Come esattamente evidenziato nella sentenza impugnata, le dimissioni dello Z. hanno determinato la cessazione del rapporto lavorativo con la (…), ma non già la rinuncia all’azione nei confronti dell’odierna ricorrente, rinuncia che difetta di qualsiasi elemento probatorio.
D’altro canto risulta erronea la tesi secondo cui, nella specie, poteva porsi esclusivamente la seguente alternativa: o doveva propendersi per l’unicità del rapporto (ed in tal caso le dimissioni dovevano produrre effetto anche nei confronti della A.), ovvero trattavasi di rapporti distinti (ed in tal caso le dimissioni comportavano il riconoscimento del cessionario come proprio datore di lavoro).
L’assunto è erroneo, restando sempre da dimostrare quel che andava provato: l’idoneità dell’atto di dimissioni nei confronti della società HP a costituire rinuncia a qualsivoglia pretesa nei confronti di altro soggetto giuridico, la società A.. La tesi, inoltre ed a ben vedere, presuppone in realtà sempre l’esistenza di un unico rapporto (“non avrebbe senso prestare le dimissioni nei confronti di un soggetto – il cessionario – con il quale il rapporto di lavoro era da considerarsi nullo sin dall’inizio”, pag. 9 ricorso), unicità che tuttavia poteva configurarsi, in presenza del contratto di cessione del ramo d’azienda e del passaggio del lavoratore presso la cessionaria, solo a seguito di pronuncia giudiziale di nullità del contratto. Occorre al riguardo rimarcare che questa Corte ha più volte osservato che l’interesse ad agire, in termini generali, si identifica nell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice (Cass. 4 dicembre 2012 n. 21710; Cass. 9 maggio 2012 n. 7096; Cass. ord. 27 gennaio 2011 n. 2051; Cass. 17 maggio 2006 n. 11536).
Quanto, infine, alla dedotta indifferenza per il lavoratore del soggetto datore di lavoro, converrà solo accennare che alla luce dell’art. 2740, comma 1, c.c. “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”, rilevando dunque per il creditore anche la persona e la consistenza patrimoniale dell’impresa debitrice (Cass. n. 21710 del 2012).
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia una omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Lamenta che la sentenza impugnata ritenne necessario, ai sensi dell’art. 2112 c.c., che il ramo di azienda ceduto fosse autonomamente produttivo e preesistente al trasferimento, ciò escludendo con motivazione insufficiente.
Lamenta che nella specie il trasferimento aveva riguardato un insieme di lavoratori addetti, “in ambito F.M. presso la B., ai presidi tecnici locali (STHS), le cui principali attività erano la gestione dei PDL – posti di lavoro – e portatili; la gestione LAN delle sedi; la segnalazione aggiornamento antivirus; la gestione chiamata manutenzione HW (pag. 12 ricorso). “Nel mese di dicembre 2002 la B. aveva proceduto ad una riorganizzazione, volta al miglioramento dei processi interni, per effetto della quale nell’ambito del settore F.M. sono state create le seguenti unità: Desktop Management; HD Tecnologico; Supporto Gestione rete; Server e applicazioni del SII (Servizio Informativo Interno)”(pag. 13). Evidenziava che lo Z. era stato assegnato al Desktop Management (DTM), continuando a svolgere le medesime mansioni cui era assegnato nel più ampio settore del F.M., settore DTM poi ceduto ad (…).
Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente, sulla base delle risultanze istruttorie di cui forniva una diversa lettura, che il settore DTM potesse configurarsi come articolazione autonoma preesistente.
Il motivo è inammissibile, demandando a questa S.C. accertamenti di fatto ed una diversa valutazione delle risultanze testimoniali, di cui sono riportati vari stralci.
Deve infatti considerarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5) cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se – confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso “sub specie” di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il citato art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. (Cass. 6 marzo 2006 n. 4766; Cass. 25 maggio 2006 n. 12445; Cass. 8 settembre 2006 n. 19274; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007 n. 4500; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394) La sentenza impugnata ha congruamente accertato che dalle risultanze istruttorie era rimasto escluso che le attività svolte dal personale DTM transitato in (…) facessero capo ad una preesistente struttura stabilmente organizzata e diretta ad un omogeneo risultato produttivo, e che ciò non poteva essere desunto dalla mera circostanza che, formalmente, le attività oggetto di cessione fossero state riunite sotto il nome di Desktop Management (DTM), ciò semmai attenendo ad un profilo meramente formale o soggettivo (inerente la volontà imprenditoriale) e non già oggettivo ed effettivo, come richiesto dall’art. 2112 c.c.
La ricorrente si limita a contestare l’accertamento, assolutamente logico, mentre gli accenni alle astratte caratteristiche del ramo d’azienda ceduto (anche sotto il profilo immateriale) ineriscono una non denunciata violazione di legge (l’art. 2112 c.c.) che non può quindi formare oggetto di esame in questa sede.
3. Il ricorso deve pertanto rigettarsi.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore dei difensori del controricorrente, dichiaratisi anticipanti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.50,00 per esborsi, €.4.000,00 per compensi, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore degli avv. G.M. e R.C..
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