Corte di Cassazione sentenza n. 23416 del 10 novembre 2011
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – MATRIMONIO – SUSSISTE
massima
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Ai sensi dell’art. 7 della legge 300 del 1970, il comportamento addebitato al dipendente ma non fatto valere nel procedimento, non può essere addotto dal datore di lavoro per sottrarsi all’operatività della tutela apprestata al lavoratore dall’ordinamento, anche se effettivamente sussistente e rispondente alla nozione di giusta causa e giustificato motivo. Nell’ipotesi di licenziamento della lavoratrice intimato nel periodo compreso fra la richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze, la presunzione legale, stabilita dalla L. 9 gennaio 1963, n. 70, art. 1, comma 3, che esso sia stato disposto a causa di matrimonio resta superata qualora il datore di lavoro, su cui grava il relativo onere, fornisca la prova della sussistenza di una delle cause di licenziamento tassativamente elencate nello stesso art. 1, che rinvia alle ipotesi previste dalla L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2, fra le quali rientra il caso di colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 24.1.06, l’avv. T. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del lavoro, con cui veniva dichiarato nullo, perché attuato a causa di matrimonio, il licenziamento da lui intimato a Ti.Ro. il 4.11.02, con ripristino del rapporto e condanna al pagamento delle retribuzioni globali di fatto lorde pari ad Euro 1174,71 mensili, con gli interessi legali sulle somme “via via” rivalutate, dal 4.11.2002 alla data della sentenza (23.6.05).
Si costituiva la Ti., resistendo al gravame e proponendo, a sua volta, appello incidentale.
Con sentenza del 2 aprile 2008-2 marzo 2009, l’adita Corte d’appello di Roma rigettava l’appello principale ed, in accoglimento dell’appello incidentale, condannava il T. al pagamento della retribuzione globale di fatto pari ad Euro 1174,71 mensili dal 4.11.02 sino all’effettiva riammissione in servizio, oltre al versamento dei relativi contributi previdenziali.
A sostegno della decisione osservava che il licenziamento, in quanto intimato nel periodo di irrecedibilità di cui alla L. n. 7 del 1963, art. 1, senza adeguata giustificazione, era nullo -come statuito dal primo Giudice, con le conseguenze appena indicate. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre il T. con un unico motivo. Resiste la Ti. con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso, l’avv. T.S., denunciando omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa due fatti controversi e decisivi per il giudizio: art. 360 c.p.c., n. 5, lamenta che, nel ritenere la carenza di immediatezza del recesso, la Corte d’appello non avrebbe considerato che almeno alcuni dei comportamenti ascritti alla lavoratrice, sotto profilo temporale, rispetto al licenziamento, sarebbero di recente se non di “coeva” realizzazione e che, nell’affermare che lo stesso datore di lavoro appellante nulla aveva dedotto in ordine al particolare grado di gravità delle mancanze, sì da avvalorare che ricorresse un’ipotesi di colpa grave, non avrebbe considerato che, già nella lettera di licenziamento e, successivamente, nel ricorso in appello, era stato addotto il venir meno dell’ “elemento fiduciario”.
Il ricorso, così articolato, non può trovare accoglimento per mancata impugnazione di tutte le “rationes decidendi” indicate dalla sentenza impugnata.
Come emerge dall’esame della motivazione della sentenza, la Corte territoriale non si è, infatti, limitata alle statuizioni censurate dal ricorrente in ordine alla carenza di immediatezza del recesso ed alla mancanza di allegazioni circa la gravità delle mancanze, ma ha ulteriormente rilevato che “il fatto, ontologicamente disciplinare, non ritualmente contestato, non può comunque essere utilizzato al fine di giustificare il licenziamento” ed ha ulteriormente ricordato il noto principio applicativo della L. n. 300 del 1970, art. 7, alla cui stregua “il comportamento addebitato al dipendente ma non fatto valere attraverso il suddetto procedimento non può, quand’anche effettivamente sussistente e rispondente alla nozione di giusta causa o giustificato motivo, essere addotto dal datore di lavoro per sottrarsi all’operatività della tutela apprestata al lavoratore dall’ordinamento”. Così statuendo il Giudice a quo si è conformato al condivisibile orientamento di questa Corte, alla cui stregua, nell’ipotesi di licenziamento della lavoratrice intimato nel periodo compreso fra la richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze, la presunzione legale, stabilita dalla L. 9 gennaio 1963, n. 70, art. 1, comma 3, che esso sia stato disposto a causa di matrimonio resta superata qualora il datore di lavoro, su cui grava il relativo onere, fornisca la prova della sussistenza di una delle cause di licenziamento tassativamente elencate nell’u.c., dello stesso art. 1, che rinvia alle ipotesi previste dalle lett. a, b, e c, della L. 26 agosto 1950, n. 860, art. 3, sostituito dalla L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2, fra le quali rientra il caso di colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto. Peraltro, nella ipotesi suddetta, ai fini del superamento della menzionata presunzione, il carattere ontologicamente disciplinare del licenziamento comporta che, pur se intimato in area di libera recedibilità anteriormente all’entrata in vigore della L. 11 maggio 1990, n. 108, esso debba essere adottato nel rispetto delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 Statuto Lavoratori, in mancanza delle quali il datore di lavoro non può far valere quale circostanza idonea a vincere la sopra indicata presunzione comportamenti della lavoratrice costituenti violazione degli obblighi tipici del rapporto di lavoro ancorché meritevoli della sanzione espulsiva (Cass. n. 11448/1995).
Coerentemente, quindi, la pronuncia afferma che “la prova richiesta dal T.. risulta, alla luce di quanto detto, irrilevante”.
Pertanto, non essendo stata rivolta dal ricorrente alcuna censura a tali statuizioni, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del disposto di cui all’art. 385, u.c. c.p.c. (come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006), invocato dalla Te. nel controricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari ed oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A.
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