Corte di Cassazione sentenza n. 23841 del 21 dicembre 2012
LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – INFEDELTA’ DEL DIPENDENTE – MANCATA CONTESTAZIONE TEMPESTIVA – REINTEGRA – SECONDO LICENZIAMENTO FONDATO SULLO STESSO FATTO OGGETTO DELLA PRIMA CONTESTAZIONE
massima
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In forza del generale principio del ne bis in idem, comune a tutti i rami del diritto, il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato.
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Svolgimento del processo
Z.C., dipendente della Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., a seguito di una prima contestazione disciplinare del 10 settembre 2003 (utilizzo arbitrario di due carte di credito intestate a due clienti della Banca, accesso sui conti correnti degli stessi e prelievo ad uso personale da tali conti correnti dell’importo complessivo di € 31.750), veniva prima sospeso dal servizio e successivamente licenziato.
Il lavoratore impugnava il licenziamento ed il Tribunale adito, con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Napoli, dichiarava illegittimo il licenziamento e ordinava la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro, per violazione del principio della immediatezza della contestazione (i fatti, accertati il 7 gennaio 2003 erano stati contestati nel settembre dello stesso anno).
La Banca reintegrava il lavoratore e con la stessa lettera di reintegra gli contestava altro illecito disciplinare, e cioè che nel frattempo era intervenuta nei suoi confronti, per i fatti come sopra contestati, sentenza penale di condanna di primo grado alla pena di otto mesi di reclusione e lire 300.00 di multa per il reato a truffa in danno della Banca, nonché al risarcimento dei danni a favore della stessa, da liquidare in separata sede. Gli contestava altresì che, dopo aver reso edotta la Banca del procedimento penale promosso nei suoi confronti ai sensi dell’art. 35 CCNL delle aziende di credito del 2005, il lavoratore aveva omesso di comunicare alla stessa Banca la motivazione della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti.
A seguito di tale seconda contestazione, la Banca procedeva nuovamente a licenziare lo Z..
Il lavoratore impugnava il licenziamento ed il Tribunale adito, con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Napoli il 14 ottobre 2009, oggetto del presente giudizio, dichiarava illegittimo anche il secondo licenziamento.
Ha osservato la Corte territoriale che i fatti che avevano dato luogo al secondo licenziamento erano sostanzialmente gli stessi posti alla base del primo recesso; che la banca era a conoscenza del procedimento penale promosso dalla Procura della Repubblica di Nola per i fatti in questione -procedimento cui aveva poi fatto seguito la condanna – sin dalla prima contestazione disciplinare; che, dunque, se il primo licenziamento era stato dichiarato illegittimo per tardività della contestazione disciplinare, anche il secondo licenziamento, a maggior ragione, doveva ritenersi tardivo, tanto più che la Banca, in relazione al procedimento penale, non aveva ritenuto di sospendere in via cautelare dal servizio il lavoratore e di differire la contestazione definitiva all’esito di detto procedimento.
Quanto all’obbligo di informativa di cui all’art. 35 CCNL, la Corte territoriale osservava che tale obbligo doveva ritenersi limitato alla notizia dell’avvio del procedimento penale nei confronti del lavoratore e non sussisteva anche per la comunicazione della motivazione della relativa sentenza.
Avverso la decisione della Corte territoriale la Banca ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, articolati in più censure.
Il lavoratore ha resistito con controricorso, depositando altresì memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunziando vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.), la ricorrente deduce che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che il secondo licenziamento fosse stato intimato per gli stessi fatti posti alla base del primo.
Ed infatti con la prima contestazione disciplinare del 10 settembre 2003 era stato fatto carico al lavoratore di avere utilizzato arbitrariamente due carte di credito intestate a clienti della Banca al fine di accedere ai conti correnti degli stessi, e di essersi appropriato dell’importo complessivo di € 31.750. Con la seconda gli era stata contestata, in data 10 ottobre 2006, l’intervenuta condanna, con sentenza di primo grado, per i fatti in questione, alla pena di otto mesi di reclusione ed € 300.00 di multa per il reato di truffa aggravata in danno della banca, nonché al risarcimento del danno in suo favore. Era evidente la radicale differenza tra i due addebiti, riconducibili a fatti materiali di natura diversa, come era evidente che la sentenza penale costituiva un elemento nuovo, suscettibile di un rilievo disciplinare del tutto autonomo e distinto rispetto al primo, che determinava la lesione del vincolo fiduciario insito nel rapporto di lavoro.
La contestazione relativa alla sentenza di condanna non poteva poi essere considerata tardiva, atteso che la motivazione di tale sentenza, emessa il 20 giugno 2006, era stata depositata il 4 agosto 2006, mentre il licenziamento, a seguito della contestazione disciplinare avvenuta il 10 ottobre 2006, era stato intimato con lettera dell’8 novembre 2006, e cioè entro un lasso di tempo assolutamente fisiologico.
Quanto alla ritenuta mancata sospensione cautelare del servizio – rimedio questo idoneo a salvaguardare il principio di immediatezza della contestazione – la Corte territoriale, ad avviso della ricorrente, non ha considerato che con lettera del 7 luglio 2006 la Banca, disponendo la reintegra del lavoratore a seguito dell’annullamento del primo licenziamento, ha comunicato al medesimo che era stato promosso nei suoi confronti altro procedimento disciplinare in relazione alla intervenuta sentenza di condanna nei suoi confronti ed ha contestualmente disposto il suo allontanamento cautelare dal servizio.
2. Con il secondo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 35 CCNL delle aziende di credito e degli artt. 2104 e 2105 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (n. 5 dello stesso articolo), la ricorrente deduce che se è vero che l’art. 35 dianzi indicato non prevede espressamente l’obbligo di informativa per le sentenze di condanna, tuttavia non può dubitarsi che il dovere di comunicazione previsto per l’avvio del procedimento penale si estenda a tutte le fasi ad esso successive.
Affermare il contrario significherebbe, ad avviso della ricorrente, svilire, se non addirittura contraddire, la ratio della predetta norma contrattuale che è quella di consentire al datore di lavoro la conoscenza e la valutazione dell’intero evolversi della vicenda penale che ha investito il proprio dipendente.
Nella specie peraltro la Banca aveva espressamente invitato il lavoratore a far pervenire alla stessa copia della sentenza di condanna, ma tale imito era rimasto inevaso, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede che incombono sui dipendenti.
La circostanza ora indicata, benché assolutamente rilevante, non è stata presa in alcuna considerazione dalla sentenza impugnata, che, anche per tale motivo, è dunque meritevole di riforma.
3. Osserva la Corte che il primo motivo non è fondato.
In forza del generale principio del ne bis in idem, comune a tutti i rami del diritto, il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato.
Il relativo giudizio presuppone necessariamente un raffronto fra gli elementi di fatto e le circostanze di tempo, di luogo e di persona che hanno dato luogo alle contestazioni disciplinari. Solo quando vi sia corrispondenza tra tutti detti elementi sussiste l’identità del fatto che integra la preclusione connessa con il principio del ne bis in idem.
La Corte territoriale, con argomentazioni immuni da vizi e coerenti sul piano logico, ha ritenuto che i due licenziamenti erano stati intimati sulla base degli stessi fatti, rilevando che ancorché la seconda contestazione avesse trovato fondamento nella sopraggiunta condanna penale, ciò non valeva a mutare i termini della questione, atteso che i fatti oggetto di imputazione erano gli stessi di quelli menzionati nella prima lettera di contestazione ed erano stati già acquisiti esaustivamente alla cognizione della Banca in occasione di tale contestazione.
Ritiene questo Collegio di condividere tale assunto.
In effetti, con la prima contestazione disciplinare del 10 settembre 2003 -che poi diede luogo al primo licenziamento – venne fatto carico allo Z. di avere utilizzato arbitrariamente due carte di credito intestate a due clienti della Banca e di essersi impossessato, previo accesso sui conti correnti degli stessi, dell’importo complessivo di € 31.750.
Con il secondo addebito disciplinare, la Banca, traendo spunto dal fatto che, per gli stessi fatti, il lavoratore era stato nel frattempo condannato, in primo grado, per il delitto di truffa aggravata in danno della stessa Banca, ha contestato al medesimo tale illecito, procedendo al secondo licenziamento.
Ma, come appare evidente, vi è una totale coincidenza fra i fatti addebitati al lavoratore con la prima contestazione e quelli che hanno dato luogo alla sentenza di condanna, determinando il secondo licenziamento.
Né vale ad escludere l’identità della condotta la circostanza che la seconda contestazione abbia fatto riferimento solo alla sentenza di condanna. Essa infatti non può acquistare rilevanza autonoma ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem e, nella specie, ha un senso solo se collegata ai fatti sostanziali che alla stessa ha dato luogo.
In altre parole la sentenza di condanna emessa nei confronti del lavoratore non può essere scissa dai fatti – già contestati al lavoratore – che hanno determinato tale condanna, onde, pur trattandosi di due addebiti formalmente diversi, essi sono riconducibili a fatti materiali totalmente coincidenti nel soggetto, nella condotta e nell’oggetto materiale.
E’ dunque evidente che la sentenza penale non costituiva un elemento nuovo, suscettibile di un rilievo disciplinare autonomo e distinto rispetto al primo.
4. Anche il secondo motivo è infondato.
La Corte territoriale ha affermato che la disposizione di cui all’art. 35 CCNL delle aziende di credito del 2005, laddove prevede che il lavoratore “il quale venga a conoscenza, per atto dell’autorità giudiziaria (Pubblico Ministero o altro magistrato competente) che nei suoi confronti sono svolte indagini preliminari ovvero è stata esercitata l’azione penale per reato che comporti l’applicazione di pena detentiva anche in alternativa a pena pecuniaria, deve darne immediata notizia all’impresa. Analogo obbligo incombe sul lavoratore che abbia soltanto ricevuto informazione di garanzia.”, deve essere interpretata nel senso che nessun’altro obbligo di informativa gravi sul lavoratore, una volta ottemperato a quello che gli impone di dare notizia al datore di lavoro dell’avvio dell’azione penale.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte del merito ha dato rilievo, con motivazione congrua e coerente, al criterio primario previsto dall’art. 1362 c.c., vale a dire al criterio dell’interpretazione letterale del contratto, con una operazione ermeneutica immune da vizi logici e giuridici che, essendo espressione di un apprezzamento di fatto, è incensurabile in sede di legittimità
Al riguardo, va ribadito il principio ripetutamente enunciato da questa Corte, secondo cui, qualora il giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza e univocità la loro volontà comune, così che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente compiuta, dovendosi far ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale delle espressioni adoperate dai contraenti, collegamento logico tra le varie clausole) siano insufficienti alla identificazione della comune intenzione stessa (cfr., fra le altre, Cass. 18 aprile 2002 n. 5635; Cass. 13 dicembre 2006 n. 26690; Cass. 28 agosto 2007 n. 18180).
Deve peraltro rilevarsi, in punto di fatto, per completezza, che la Banca si era costituita parte civile nel procedimento penale a carico dello Z., onde era ben a conoscenza della relativa sentenza.
5. Alla stregua di tutto quanto precede il ricorso deve essere rigettato, previa condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 40,00 per esborsi ed € 3.000,00 per compensi difensivi, oltre accessori come per legge.
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