CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 ottobre 2013, n. 24007
Tributi – Processo tributario – Procedimento – Appello – Produzione di documenti in sede di gravame – Ammissibilità
Premesso in fatto
1. Con sentenza n. 90/36/06, depositata il 22.9.06, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio Monza 2 avverso la decisione di primo grado, con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla E. s.a. nei confronti degli avvisi di accertamento emessi ai fini IRPEG ed ILOR per gli anni 1994-1999, nonché ai fini dell’imposta sul patrimonio per l’anno 1994, con i quali si contestava alla società l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.
2. La CTR riteneva, invero, in riforma della decisione di prime cure, di dover affermare: a) la legittimità della produzione in appello di nuovi documenti ex art. 58 d.lgs. 546/92; b) la sussistenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, circa il fatto che la contribuente – società finanziaria di diritto lussemburghese – fosse, in realtà, fiscalmente residente in Italia; c) l’infondatezza delle doglianze della E. s.a. circa la prescrizione delle sanzioni e la pretesa duplicazione degli accertamenti, in violazione dell’art. 43 d.P.R. 600/73; d) l’utilizzabilità dei documenti acquisiti in sede di accesso autorizzato presso il domicilio di soggetto diverso dalla contribuente.
3. Per la cassazione della sentenza n. 90/36/06 ha proposto ricorso l’E. s.a. affidato ad undici motivi, ai quali l’Amministrazione ha replicato con controricorso.
La ricorrente ha prodotto memoria ex art. 378 c.p.c.
Osserva in diritto
1. Con il primo, secondo, terzo, quarto, quinto e settimo motivo di ricorso – che, per la loro stretta connessione, vanno trattati congiuntamente – la E. s.a. denuncia la nullità dell’impugnata sentenza per difetto assoluto di motivazione, ai sensi degli artt. 1 e 36 d.lgs. 546/92 e 132, co, 2 c.p.c., e l’insufficiente motivazione su fatti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 nn. 4 e 5 c.p.c., nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 33 d.P.R. 600/73, 58 d.lgs. 546/92, 2697 e 2729 c.c. e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c..
1.1. Osserva, anzitutto, la ricorrente che la sentenza di appello sarebbe fondata su asserzioni del tutto apodittiche, non avendo la CTR adeguatamente evidenziato le ragioni del proprio convincimento, né considerato i diversi ordini di ragioni, di segno contrario, opposti dalla contribuente alla pretesa fiscale avanzata dall’Amministrazione finanziaria. Inoltre, la CTR avrebbe preso in esame nel loro insieme i documenti versati in atti, omettendo di operarne un esame analitico, e con riferimento specifico a ciascuna annualità di imposta, al fine di stabilire in concreto se effettivamente la E. s.a. avesse avuto la residenza fiscale in Italia per tutti i periodi di imposta in contestazione.
1.2. Si duole, inoltre, la ricorrente del fatto che il giudice di appello abbia fondato la decisione circa la legittimità degli atti impositivi impugnati su elementi di prova documentale raccolti nel corso di una verifica presso altro contribuente (la C.E. s.r.l.), sebbene nessuna autorizzazione, ex artt. 33 d.P.R. 600/73 e 52 d.P.R. 633/72, fosse stata mai rilasciata all’acquisizione di tali documenti ai fini dell’accertamento nei confronti della E. s.a.
Siffatta documentazione, poi, sarebbe stata prodotta dall’Ufficio per la prima volta in grado di appello, in palese violazione del disposto dell’art. 58 d.lgs. 546/92.
1.3. La CTR avrebbe, infine, omesso di pronunciarsi sulla questione relativa alla nullità degli avvisi di accertamento impugnati per difetto di motivazione, non essendosi in alcun modo espressa sulle deduzioni svolte, al riguardo, dalla contribuente nei propri scritti difensivi.
2. Le censure suesposte sono infondate e vanno disattese.
2.1. Va anzitutto rilevato, infatti, che del tutto erroneo si palesa l’assunto della E. s.a., secondo cui la CTR avrebbe illegittimamente posto a fondamento della decisione documenti prodotti dall’Amministrazione solo nel giudizio di appello, e non anche in quello di prime cure. Secondo l’insegnamento di questa Corte, infatti, in materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dall’art. 1, co. 2, del d.lgs. 546/92, – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ ultima – non trova applicazione la preclusione, di cui all’art. 345, co. 3 c.p.c., alla produzione di documenti nel secondo grado del giudizio. La materia è – per vero – regolata in via speciale dall’art. 58, co. 2, del citato d.lgs., che consente alle parti di produrre liberamente documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (Cass. 18907/11), ed a nulla rilevando neppure l’eventuale irritualità della loro produzione in prime cure (Cass. 23616/11).
2.2. Del tutto infondata, poi, si palesa la censura relativa alla pretesa irrituale acquisizione degli elementi documentali a carico della ricorrente, per essere stati detti documenti acquisiti nel corso di una verifica fiscale eseguita nei confronti della C.E. s.r.l., soggetto diverso e distinto da E. s.a., e senza che i militari disponessero della necessaria autorizzazione a procedere nei confronti di quest’ultima.
Va – difatti – osservato, in proposito, che il provvedimento di autorizzazione alla perquisizione domiciliare di un soggetto, emesso, su richiesta dell’ufficio IVA, dalla competente Procura della Repubblica, ex art. 52 del d.P.R. 633/1972 e 33 d.P.R. 600/73, allo scopo di acquisire documentazione fiscale relativa al soggetto stesso, consente di acquisire, in tale domicilio, anche ulteriori documenti di pertinenza di soggetti diversi, pur se non menzionati nel provvedimento di perquisizione. Ed invero, la “ratio” ispiratrice della previsione normativa di cui alle disposizioni succitate è quella di tutelare il diritto del soggetto nei cui confronti l’accesso viene richiesto, e non quello di creare una sorta di immunità dalle indagini in favore di terzi, siano essi conviventi, o meno, con l’interessato (Cass. 2775/01, 19837/05).
Sicché del tutto legittimamente, dapprima l’Amministrazione finanziaria, dipoi il giudice di seconde cure, hanno posto a fondamento, rispettivamente, dell’emissione e della valutazione di legittimità degli avvisi di accertamento oggetto del presente giudizio, la documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza presso un soggetto diverso dalla E. s.a.
2.3. In relazione alla documentazione di cui sopra – una volta stabilita la sua piena utilizzabilità, per le ragioni suesposte – la ricorrente ha ancora dedotto che il giudice di appello avrebbe preso erroneamente in esame nel suo insieme e non specificamente, documento per documento, la copiosa documentazione versata in atti dall’amministrazione finanziaria. Di più, la CTR sarebbe pervenuta – del tutto illegittimamente, a parere della contribuente – al convincimento della sussistenza di una residenza fiscale in Italia della E. s.a., considerando a tal fine cumulativamente, per tutti gli anni di imposta oggetto dell’accertamento (1994-1999), le prove documentali fornite dall’Ufficio in giudizio, senza operare un’analisi delle stesse anno per anno. Il che concreterebbe, altresì, ad avviso della contribuente, una palese violazione del principio di autonomia dei periodi di imposta, enunciato dall’art. 7 d.P.R. 917/86.
Ma non basta. A parere della E. s.a., il giudice di seconde cure avrebbe, inoltre, reso la sua decisione – circa l’assoggettabilità della E. al regime fiscale italiano, per avere la medesima la propria sede amministrativa in Italia – fondandosi su affermazioni del tutto apodittiche, e senza dare conto analiticamente delle prove documentali e di tutte le allegazioni difensive, di segno contrario, addotte in giudizio dalla contribuente.
2.3.1. Premesso quanto precede, va osservato che ai sensi dell’art. 87, co. 3 (ora art. 73, co. 3) del d.P.R. 917/86 (nel testo previgente, temporalmente applicabile alla fattispecie) “ai fini dell’imposta sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”. Come esattamente rilevato dalla CTR, dunque, al fine di stabilire se una società o un ente possano considerarsi residenti ai fini dell’imposta sui redditi, è necessario e sufficiente, ai sensi della norma succitata, che si verifichi almeno uno dei tre requisiti previsti dalla medesima disposizione, e cioè che, per la maggior parte del periodo di imposta, i soggetti suindicati abbiano nel territorio dello Stato: a) la sede legale (ossia quella fissata nell’atto costitutivo o nello statuto); b) la sede dell’amministrazione (ovverosia la sede effettiva dell’ente); c) l’oggetto principale (e cioè l’attività economica prevalentemente esercitata per conseguire lo scopo sociale).
Ebbene – come rilevato dalla CTR – “nel caso che ci occupa l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto di individuare nel territorio dello Stato il luogo di direzione effettiva della società”, e tale luogo è stato individuato in quello nel quale sono state prese ed elaborate le decisione più importanti per la conduzione dell’impresa societaria.
Ciò posto, va rilevato che la “sede dell’ amministrazione” , come si esprime la norma dell’art. 87 d.P.R. 917/86, è quella da cui provengono gli impulsi volitivi inerenti all’attività di gestione dell’ente. Essa rappresenta, in altri termini, il momento essenziale nello svolgersi della vita della società, nel quale i rapporti a contenuto patrimoniale della stessa vengono voluti ed economicamente determinati. Questa Corte ha – in tal senso – più volte affermato che, ai fini dell’equiparazione di fronte ai terzi, ex art. 46 c.c., della sede effettiva della persona giuridica alla sede legale, deve intendersi per sede effettiva il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti. Tale sede viene a costituire, dunque, il luogo deputato o stabilmente utilizzato, per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività economica dell’ente (cfr. Cass. 7037/04, 6021/09).
2.3.2. Ebbene, nel caso concreto, la CTR ha fondato la sua decisione circa la sede in Italia della E. – utilizzando le conclusioni dell’avviso di accertamento, che a sua volta aveva fatto proprie le risultanze delle indagini della Guardia di Finanza, nonché rifacendosi agli elementi di prova documentale versati in atti – basandosi sui seguenti essenziali elementi:
a) sul rilievo che tutte le decisioni più importanti della società E. erano state prese, negli anni oggetto di accertamento, dai suoi amministratori in Italia;
b) sulla considerazione che, dai documenti acquisiti e dalle verifiche operate dalla Guardia di Finanza, era possibile desumere che i più importanti ordini e direttive, essenziali per la vita dell’ente, erano stati impartiti dall’Italia;
c) sulla constatazione – desumibile dagli elementi suindicati – che le comunicazioni più importanti inviate via fax risultavano spedite da Brugherio, sede della C.E. s.r.l., società italiana che detiene il 60% del capitale sociale della E. s.a., mentre il restante capitale è detenuto da altre società italiane;
d) sul fatto che alla volontà dell’amministratore delegato della società (M.F., cittadino italiano) era stata subordinata “ogni decisione anche con riguardo alla gestione ordinaria della società”, tanto che – ha rilevato la CTR – in sostanza, senza un’autorizzazione del medesimo, “nulla poteva essere fatto dagli organi amministrativi societari esteri”.
Alla stregua degli elementi suesposti, pertanto, e rilevato che la contribuente non aveva “offerto esauriente prova del contrario”, il giudice di appello ha ritenuto raggiunta – in via presuntiva ex art. 2729 c.c. – la prova che la gestione effettiva della società E. s.a. avvenisse in Italia, negli anni oggetto di accertamento.
2.3.3. Tanto premesso, osserva la Corte che non possono, di certo, ritenersi ravvisabili, nella decisione impugnata, i vizi di motivazione dedotti dalla ricorrente. L’impianto motivazionale della sentenza in esame appare, infatti, dotato di quei requisiti, relativi all’indicazione del percorso logico seguito dal giudicante e all’individuazione delle fonti del suo convincimento, che questo giudice di legittimità ha più volte indicato come essenziali ai fini della validità della motivazione della sentenza di merito (cfr., ex plurimis, Cass. 12664/12, 7347/12) . Il giudice di appello ha, per vero, esposto compiutamente – come dianzi indicato – gli elementi indiziari e presuntivi sui quali ha ritenuto di fondare la propria decisione, indicando anche le fonti dalle quali detti elementi sono stati desunti.
Né può costituire vizio dell’impugnata sentenza -contrariamente a quanto assume la ricorrente – il fatto che tale copiosa documentazione (elencata da entrambe le parti nei rispettivi atti difensivi del presente giudizio di legittimità) sia stata richiamata nel suo insieme e valutata nella sua globalità, senza scinderne l’analisi documento per documento. Non v’è dubbio, infatti che rientri nella discrezionalità del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, considerare nel loro insieme una serie di documenti, onde inferirne elementi utili ai fini del giudizio. Per il che, qualora detto giudice abbia considerato complessivamente il contenuto dei diversi documenti prodotti nel processo, il medesimo non è, poi, tenuto a motivare analiticamente su ciascuno di questi; e siffatta opzione metodologica non è censurabile in cassazione, sotto il profilo del vizio di motivazione, qualora il giudicante – come è accaduto nel caso concreto – abbia esposto coerentemente le ragioni e le fonti del proprio convincimento, discutendo i punti essenziali della controversia (cfr. Cass. 1298/73).
D’altro canto, è del tutto evidente – e di tanto non dubita, in verità, neppure la ricorrente, che si è limitata a contestare la sussistenza, nella specie, della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi posti a base della decisione – che in subiecta materia sia del tutto legittimo il ricorso alla prova presuntiva, ex artt. 2727 e ss, c.c. Essa costituisce, invero, una prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli di individuare le fonti di prova, di verificarne l’attendibilità e di scegliere, tra gli elementi probatori acquisiti, quelli più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione (Cass. 4743/05, 9108/12). Ne discende che, una volta scartati tra i vari elementi indiziari quelli intrinsecamente privi di rilevanza come prova dei fatti, e prescelti, invece, quelli che, singolarmente considerati, presentino una – almeno potenziale – efficacia probatoria, il giudice di merito non potrà che procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi (Cass. 19894/05, 9108/12).
Alla luce di tali affermazioni di principio, non è, pertanto, in alcun modo censurabile il modus procedendi seguito, nel caso specie, dalla CTR, laddove – esaminata la copiosa documentazione in atti e vagliate le opposte allegazioni difensive delle parti – ha fondato la decisione sul complesso di elementi indiziari precisi, gravi e concordanti suesposti e rappresentati (come specificato dalla stessa E. nel ricorso): 1) dalla detenzione della totalità delle partecipazioni della odierna ricorrente da parte di società tutte residenti in Italia; 2) dall’esistenza di membri del consiglio di amministrazione della E. residenti in Italia (appartenenti alla stessa famiglia), ed investiti delle decisioni più importanti per la vita dell’ente; 3) dalla localizzazione della sede legale della contribuente presso società domiciliatarie lussemburghesi, prive di autonomia decisionale, sicché la contribuente è risultata carente di una effettiva sede amministrativa all’estero. Ebbene, siffatti elementi, valutati nel loro insieme, hanno correttamente indotto la CTR a concludere che, al di la della formale ed apparente localizzazione della società in Lussemburgo, ci si trovasse in presenza di un ente da ritenersi residente in Italia, ai sensi dell’art. 87, co. 3 d.P.R. 917/86 (nel testo applicabile ratione temporis).
2.3.4. Del tutto fuori luogo ed inconferente, poi, si palesa al riguardo il riferimento operato dalla E. s.a. al principio di autonomia dei periodi di imposta, che sarebbe – a suo parare – violato dall’arbitraria unificazione del giudizio, sostanzialmente operata dal giudice di appello, laddove ha ritenuto che la situazione della società, quanto alla sua effettiva residenza in Italia, dovesse essere necessariamente la stessa nei diversi periodi di imposta (1994-1999) oggetto di accertamento. Di contro, ad avviso della ricorrente, la CTR avrebbe dovuto evidenziare, in relazione ad ogni diverso esercizio, le ragioni che la inducevano a ritenere integrato il requisito dell’esistenza in Italia della sede effettiva della società per la maggior parte del periodo di imposta, a norma della disposizione succitata.
Orbene, deve osservarsi, in proposito, che il periodo di imposta individua la dimensione temporale della fattispecie imponibile, ovverosia – come significativamente si è espressa la dottrina – il segmento temporale in cui isolare e circoscrivere, ai fini dell’imposizione periodica, il continuum rappresentato dall’attività produttiva di reddito imponibile. La determinazione e la tassazione del reddito, difatti, non possono che essere suddivise in periodi di imposta dalla durata determinata (l’anno solare, ai fini IRPEF per le persone fisiche e le società di persone, l’anno sociale per i soggetti passivi dell’IRES), atteso che, per esigenze finanziarie dello Stato, il reddito non potrebbe essere misurato alla fine della vita del contribuente. E, d’altra parte, lo stesso principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost. non vale di certo a radicare un diritto del contribuente alla valutazione globale della capacità contributiva riferita all’intero arco della sua esistenza, ma solo a determinare la necessità di un collegamento tra i diversi periodi di imposta, per tutte quelle situazioni che hanno rilievo in periodi differenti oltre a quello in cui emergono. Tra di esse rientrano, ad esempio, le perdite per il reddito di impresa (art. 8, co. 3 d.P.R. 917/86, e 102 nel testo applicabile ratione temporis) e la compensazione dell’eccedenza determinata da credito di imposta (art.11, co. 3 dello stesso decreto e 94 nel testo previgente) , che per la loro attitudine a produrre effetti per più periodi di imposta, sono considerate dal legislatore come eccezioni al principio dell’autonomia dei periodi di imposta (artt. 7, co. 1 e 90 decreto cit., nel testo applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta). Stando così le cose, è evidente che il principio di autonomia dei periodi di imposta, enunciato dalla norma succitata in materia di imposte sui redditi, si traduce esclusivamente nella tendenziale indifferenza, con salvezza delle eccezioni suindicate, della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso (Cass.S.U. 13916/06, Cass. 9512/09). Se ne deve necessariamente inferire la totale estraneità a tale principio – poiché volto a presidiare l’autonomia di ciascuna obbligazione tributaria, relativa ai singoli periodi di imposta, da fatti che riguardino periodi diversi – dell’individuazione, ai fini della tassazione e, quindi, dell’attribuzione di una soggettività passiva tributaria, del criterio di collegamento effettivo di un determinato soggetto con il territorio dello Stato italiano, cui mira la disciplina di cui all’art. 87, co. 3 (ora 73, co. 3) d.P.R. 917/86). Tale criterio può essere, pertanto, in difetto di elementi di prova di segno opposto provenienti dal contribuente, individuato una volta per tutte anche con riferimento a più annualità di imposta, fino a quando non emergano fatti che ne impongano il superamento.
2.3.5. Neppure coglie nel segno, inoltre, la doglianza della E. s.a., relativa al fatto che la CTR non abbia espressamente ed analiticamente preso in esame tutte le deduzioni e gli elementi di prova da essa addotti a sostegno delle proprie difese. Secondo il costante insegnamento di questa Corte, infatti, ai fini di una corretta decisione adeguatamente motivata, il giudice non è tenuto a dare conto in motivazione del fatto di aver valutato analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti. Ai fini di escludere vizi della motivazione, infatti, è sufficiente che il giudicante, dopo avere vagliato nel loro complesso le diverse risultanze acquisite agli atti del giudizio, nonché le tesi difensive prospettate dalle parti, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e “l’iter” logico seguito nella valutazione degli stessi per giungere alle proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli morfologicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass. 14972/06).
Ne consegue che, nel caso concreto, non è censurabile la sentenza di seconde cure che, dopo avere complessivamente ed adeguatamente valutato – come dianzi detto – i diversi elementi di prova acquisiti al giudizio, è pervenuta alla conclusione dell’infondatezza delle allegazioni difensive proposte dalla E. s.a., mediante individuazione e specificazione delle opposte ragioni dell’Amministrazione ritenute condivisibili, con ciò implicitamente negando rilievo a quelle, di segno contrario, offerte dalla contribuente .
2.3.6. Quanto alla pretesa omissione di pronuncia della CTR sulla questione relativa al difetto di motivazione degli atti impugnati, basti rilevare che tutte le violazioni ascritte alla contribuente negli avvisi di accertamento – come dalla stessa riconosciuto in ricorso (pp. 4, 128-129) attengono all’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, conseguente alla pretesa fissazione della residenza fiscale della medesima in Lussemburgo. Di conseguenza la motivazione degli atti impositivi – come evidenziato nell’impugnata sentenza, nonché dalla stessa E. in ricorso (pp. 12-13) – non poteva che riguardare gli elementi – sopra evidenziati – in base ai quali la medesima era stata considerata soggetta ad imposizione in Italia, poiché sostanzialmente residente nel territorio nazionale; e su tali elementi – come dianzi detto – la CTR si è adeguatamente soffermata, pronunciandosi, quindi, espressamente sulla questione proposta, al riguardo, dalla contribuente.
3. Con il sesto motivo di ricorso, la E. s.a. denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
3.1. La CTR avrebbe, invero, omesso di pronunciarsi, ad avviso della ricorrente, sulla doglianza afferente alla pretesa inesistenza della notificazione degli avvisi di accertamento impugnati, poiché notificati in Italia e precisamente in Brugherio ove ha sede la C.E. s.r.l., società che detiene la maggioranza del capitale sociale della odierna contribuente. I suddetti atti impositivi, invero, avrebbero dovuto essere notificati – a parere della ricorrente – presso la sede della E. ossia in Lussemburgo, per cui tale radicale vizio di notificazione – discendente dall’essere stata la notifica effettuata in luogo che non ha nessuna attinenza con il destinatario della stessa – non potrebbe ritenersi neppure sanata, a parere della ricorrente, per effetto dell’avvenuta impugnazione degli avvisi di accertamento.
3.2. La censura è del tutto infondata.
3.2.1. Va osservato invero, al riguardo, che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile solo allorquando manchi completamente, nella sentenza impugnata, l’esame di una censura mossa al giudice di primo grado. Tale violazione non ricorre, invece, nel caso in cui il giudice d’appello fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda che si assume pretermessa, come nel caso – ricorrente nella specie – in cui il giudice di secondo grado ritenga la questione, dedotta dalla parte che si duole dell’omessa pronuncia, irrilevante ai fini della decisione poiché assorbita nella sentenza da altra questione avente carattere dirimente, che renda, pertanto, del tutto inutile l’esame della censura in questione (cfr. Cass. 16254/12, 11756/06).
3.2.2. Ciò posto, non può revocarsi in dubbio, a giudizio della Corte, che nel caso concreto non possa ravvisarsi alcuna omissione di pronuncia, al riguardo, da parte della CTR, atteso che la questione della pretesa inesistenza della notifica degli atti impositivi è rimasta assorbita, nella decisione di seconde cure, da quella dell’individuazione della sede della E.
E difatti, una volta accertato dal giudice di appello che detta sede era in Italia, è di chiara evidenza che la questione della validità della notifica ivi avvenuta è rimasta inevitabilmente assorbita da tale statuizione.
4. Con l’ottavo motivo di ricorso, l’E. s.a. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 40, co. 1, 42 e 43, co. 3 del d.P.R. n. 600/73, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
4.1. Avrebbe errato la CTR, a parere della ricorrente, a ritenere legittima la notifica di due separati avvisi di accertamento per l’anno 1994, il primo ai fini dell’imposta patrimoniale, il secondo ai fini delle imposte dirette (IRPEG ed ILOR), sul presupposto che i due atti impositivi avevano avuto ad oggetto il medesimo imponibile e, pertanto, nessun accertamento in aumento si sarebbe verificato, ai sensi dell’art. 43 d.P.R. 600/73.
Di contro, ad avviso della contribuente, l’esercizio da parte dell’Amministrazione di una seconda attività di accertamento concernente il medesimo contribuente e lo stesso anno di imposta ai quali si era riferita la prima, ed espletata al fine di integrare o modificare in aumento quest’ultima, postula, ai sensi dell’art. 43, co. 3 d.P.R. 600/73, la “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi” da parte dell’Ufficio, da indicarsi nel secondo atto impositivo – unitamente agli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’Amministrazione – “a pena di nullità”. Per cui, ad avviso della E., non essendo stata allegata dall’Ufficio la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, del tutto erronea, alla stregua dei parametri normativi suindicati, sarebbe l’impugnata sentenza, nella parte in cui ha ritenuto legittima l’adozione dei due avvisi di accertamento, nei confronti dello stesso contribuente e per il medesimo periodo di imposta.
4.2. Il motivo di ricorso è infondato e va disatteso.
4.2.1. Ed invero, va rilevato – in proposito – che l’integrazione o la modificazione in aumento dell’originario avviso di accertamento, condizionate alla conoscenza di elementi sopraggiunti, a norma dell’art. 43 d.P.R. 600/73, si verifica solo allorquando l’Amministrazione provveda ad integrare l’originario avviso dì accertamento, sulla scorta di elementi sopravvenuti tali da integrare una pretesa tributaria diversa rispetto a quella originaria, ma pur sempre strettamente correlata a quest’ultima. Deve, invero, considerarsi al riguardo che la disciplina dell’accertamento officioso da parte dell’Amministrazione finanziaria è ispirata al criterio della “globalità” dell’atto impositivo, dalla medesima posto in essere nei confronti del contribuente.
La disciplina di tale atto è, difatti, diretta a soddisfare due esigenze, opposte ma complementari: a) quella dell’efficienza ed economicità dell’attività amministrativa, che richiede la concentrazione, ove possibile, della pretesa tributaria in un atto unico e globale; b) quella di tutela dell’interesse del contribuente, che viene esposto a maggiori costi e disagi, se la pretesa fiscale è frammentata in una pluralità di atti, dovendo ciascuno di essi essere impugnato con separato ricorso. Per i suesposti ordini di ragioni, dunque, la legge richiede che l’Amministrazione consumi – almeno tendenzialmente – il proprio potere di accertamento nell’atto impositivo emesso, in relazione agli elementi posti a sua disposizione (Cass. 10526/06), fatta salva la sola ipotesi in cui vengano ad emergere “nuovi elementi”, che consentano – ma pur sempre in relazione alla pretesa tributaria già manifestata – di integrare o sostituire quella stessa pretesa mediante l’emissione di un nuovo avviso di accertamento .
4.2.2. Se ne deve, pertanto, necessariamente inferire – con riferimento al caso di specie – che tale ipotesi di integrazione o sostituzione dell’originario avviso di accertamento, con altro emesso in relazione agli stessi presupposti, ma sulla base di nuovi elementi ex art. 43, co. 3 d.P.R. 600/73, non ricorre nel caso in cui, come nella specie, ci si trovi in presenza di due atti coevi che abbiano ad oggetto imposte diverse, fondate su presupposti differenti e dirette a colpire manifestazioni diverse di capacità contributiva.
Non può revocarsi in dubbio, infatti, che l’imposta sul patrimonio netto delle imprese – istituita dall’art. 1 d.l. n. 394/92, convertito nella l. n. 461/92, e poi abolita dall’art. 36 del d.lgs. n. 446/97 (con effetto dall’1.1.98) sia del tutto differente, sotto i profili suindicati, dalle imposte sui redditi, trattandosi di un intervento fiscale a carattere straordinario e transitorio, diretto a colpire, non i redditi della società, bensì la componente del patrimonio netto costituita dal capitale sociale annualmente rilevato in bilancio (Cass. 16018/05) . Ne deriva che i due atti impositivi – notificati nella specie alla E. s.a. – in quanto aventi ad oggetto, l’uno, le imposte sui redditi, l’altro, l’imposta sul patrimonio netto delle imprese, entrambe applicabili a tutte le società e agli enti dì cui all’art. 87 d.P.R. 917/86, ben potevano coesistere nella fattispecie in esame.
5. Con il nono motivo di ricorso, la E. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, co. 2 e 17, co. 1 della L.n. 4/29, e 20, co. 1, d.lgs. n. 472/97, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
5.1. Il giudice di appello avrebbe, invero, erroneamente applicato per le sanzioni conseguenti all’omessa dichiarazione dei redditi, lo stesso termine di decadenza previsto per l’accertamento, ai sensi degli artt. 45 e 55 d.P.R. 600/73 (ora art. 20 del d.lgs. 472/97). Di contro, ad avviso della ricorrente, avrebbe dovuto trovare applicazione nella specie, trattandosi di violazioni anteriori all’entrata in vigore del d.lgs. n. 472, cit., il termine di prescrizione quinquennale, con decorrenza dal giorno della commessa violazione, previsto dall’art. 17, co. 1 n. 4 l. 4/29.
5.2. Anche la censura in esame è, peraltro, del tutto infondata.
5.2.1. A tal proposito va osservato, infatti, che l’art. 55 del d.P.R. n. 600/73, nella parte in cui contempla l’irrogabilità, assieme all’accertamento in rettifica, delle pene pecuniarie per infrazioni inerenti alla dichiarazione annuale, assoggetta il corrispondente potere- dovere dell’Ufficio allo stesso termine di decadenza stabilito dal precedente art. 43 per la rettifica medesima (31 dicembre del quinto anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione). Tale disposizione, dunque, prevede una disciplina autonoma ed esaustiva in ordine al tempo entro il quale le pene pecuniarie sono applicabili, in tal modo sottraendole alla prescrizione prevista, con riferimento in genere alle violazioni finanziarie, dall’art. 17 della L. n. 4/1929.
Né tale conclusione può considerarsi in alcun modo impedita dal disposto cui all’art. 1, co. 2 del menzionato art. 17 – secondo il quale “le disposizioni della presente legge (…) non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori concernenti i singoli tributi, se non per dichiarazione espressa del legislatore con specifico riferimento alle disposizioni modificate o abrogate” – essendo stata la norma succitata espressamente abrogata, sin dall’1.1.1983 – ossia da epoca ampiamente precedente i fatti di causa (1994-1999) – dall’art. 13 del d.l., n. 429/82, convertito nella l. n. 516/82 (cfr. Cass. 25627/10, 17520/12).
5.2.2. Per tali ragioni, pertanto, del tutto legittimamente la CTR ha considerata corretta – alla stregua del suesposto quadro normativo di riferimento – l’irrogazione delle sanzioni nello stesso termine di decadenza previsto per l’accertamento dall’art. 43 d.P.R. 600/73.
6. Con il decimo motivo di ricorso, la E. s.a. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
6.1. La CTR avrebbe, difatti, illegittimamente omesso di pronunciarsi – secondo la ricorrente – sul motivo di appello avente ad oggetto l’illegittimità dell’irrogazione delle sanzioni, da parte dell’Amministrazione finanziaria, in misura superiore del 50% al minimo edittale, sul presupposto della particolare gravità della condotta posta in essere dalla contribuente, laddove tale gravità nella specie non sarebbe affatto ravvisabile, per cui le sanzioni avrebbero dovuto essere irrogate nel minimo edittale.
6.2. Il motivo è infondato.
6.2.1. Correttamente, infatti, la CTR non è entrata nel merito di tale domanda, vertendosi in materia rientrante nella discrezionalità dell’amministrazione, come tale non sindacabile da parte del giudice. Ed invero, il sindacato giurisdizionale sul quantum della sanzione che la pubblica amministrazione, nell’esercizio di poteri autoritativi che le siano conferiti dall’ordinamento, infligga al privato, può riguardare, nel rispetto dei principi di cui all’art. 23 Cost., solo l’osservanza dei minimi o dei massimi, al di sotto ed al di sopra dei quali l’amministrazione non può spingersi, ovvero di obiettivi parametri di quantificazione direttamente fissati dalla legge. Tale sindacato non può, invece, incidere – salva espressa diversa previsione normativa – sulla valutazione di congruità che la legge stessa, nell’ambito dei predetti limiti, devolva nel caso concreto alla discrezionalità di merito dell’autorità amministrativa (Cass.S.U. 926/78).
6.2.2. La censura in esame, in quanto diretta a contestare il mancato intervento del giudice sull’ esercizio di un potere squisitamente discrezionale dell’Amministrazione finanziaria, si palesa, dunque, del tutto destituita di fondamento e non può, pertanto, che essere rigettata .
7. Con l’undicesimo motivo di ricorso, la E. s.a. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
7.1. Il giudice di appello avrebbe, difatti, omesso di pronunciarsi – secondo la ricorrente – sulla mancata applicazione della continuazione tra le diverse violazioni ascritte alla società, ai sensi dell’art. 12, co. 5 del d.lgs. 472/97, avendo il medesimo calcolato le sanzioni separatamente per ciascun periodo di imposta.
7.2. La censura è infondata.
7.2.1. E’ del tutto pacifico – essendosi espressa in tal senso anche la difesa della E., nel calcolo della continuazione operato in ricorso (pp. 129-130) – che nel caso concreto ricorre un’ipotesi di pluralità di violazioni che rilevano ai fini di più tributi (art. 12 co. 3 decreto cit.), con comportamenti reiterati per più esercizi (art. 12, co. 5), e costituenti violazioni cd. plurioffensive (art. 12, co.1). In siffatte ipotesi, dal complesso normativo suesposto si evince che i diversi aumenti – che sono tutti applicabili, trattandosi di fattispecie diverse, ma correlate ai fini sanzionatori – vanno applicati nel seguente modo: in ipotesi di violazioni rilevanti ai fini di più tributi, la sanzione base a cui riferire l’aumento indicato nel primo comma è quella più grave aumentata nella misura prevista dal terzo comma e quest’ultima, ove le violazioni riguardino periodi d’imposta diversi, deve essere aumentata per effetto del quinto comma prima dell’ulteriore aumento di cui al comma primo (cfr. Cass. 21043/07).
7.2.2. Nel caso concreto, la E., nel calcolo della continuazione effettuato in ricorso, che – a suo dire- dovrebbe condurre ad un importo, a titolo di sanzioni, nettamente inferiore a quello applicato all’Amministrazione, ha correttamente proceduto al computo della sanzione rispettando la sequenza degli aumenti suindicata. E tuttavia, la ricorrente ha applicato l’aumento di cui al co. 5 dell’art. 12 d.lgs. cit. nel minimo, ossia in misura pari alla metà della sanzione base, mentre la norma prevede un aumento dalla metà al triplo. Come pure, per l’aumento di sanzione di cui al co. 1 dell’art. 12, la contribuente ha applicato la misura minima ossia quella di un quarto, laddove la disposizione prevede un aumento della sanzione base da un quarto al doppio.
Né la ricorrente ha neppure dedotto che l’Amministrazione abbia superato i massimi edittali suindicati, al fine di consentire un intervento del giudice – attesa la vista discrezionalità di cui l’amministrazione dispone nel calibrare la sanzione tra il minimo ed il massimo – in risposta alle censure proposte della E., circa la necessità di fare corretta applicazione della continuazione, ai sensi dell’art. 12 d.lgs. 472/97. In difetto di elementi di riscontro in ordine alla doverosità dell’intervento giudiziale, precluso ove l’applicazione delle sanzioni – pur se in misura superiore al minimo edittale – si fosse mantenuta nei limiti della discrezionalità dell’Amministrazione, il dedotto vizio di omessa pronuncia non può ritenersi sussistente.
8. Per tutte le ragioni che precedono, pertanto, il ricorso della E. s.a. non può che essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio, nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida in € 15.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- Corte di Cassazione sentenza n. 14339 depositata il 5 maggio 2022 - Nel processo tributario è ammissibile la produzione di nuovi documenti in appello, in quanto, alla luce del principio di specialità espresso dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 23 dicembre 2020, n. 29438 - Nel giudizio per cassazione è ammissibile la produzione di documenti non prodotti in precedenza solo ove attengano alla nullità della sentenza impugnata o all'ammissibilità processuale del…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 13 giugno 2022, n. 18992 - Nel giudizio per cassazione è ammissibile la produzione di documenti non prodotti in precedenza solo ove attengano alla nullità della sentenza impugnata o all'ammissibilità processuale del…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 maggio 2022, n. 13935 - In tema di giudizio per cassazione, l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall'art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di…
- Corte di Cassazione, ordinanza n. 32213 depositata il 21 novembre 2023 - Nel processo tributario, in cui è ammessa la produzione di nuovi documenti in appello, è consentito alla parte, rimasta contumace in primo grado, produrre per la prima volta nel…
- Corte di Cassazione ordinanza n. 5607 depositata il 2 marzo 2021 - Nel processo tributario, l'art.58 comma 2 decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, con disposizione derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria prevista dall'art.345, terzo…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- Gli amministratori deleganti sono responsabili, ne
La Corte di Cassazione, sezione I, con l’ordinanza n 10739 depositata il…
- La prescrizione quinquennale, di cui all’art. 2949
La Corte di Cassazione, sezione I, con l’ordinanza n. 8553 depositata il 2…
- La presunzione legale relativa, di cui all’a
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 10075 depos…
- Determinazione del compenso del legale nelle ipote
La Corte di Cassazione, sezione III, con l’ordinanza n.10367 del 17 aprile…
- L’agevolazione del c.d. Ecobonus del d.l. n.
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 7657 depositata il 21 ma…