CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 ottobre 2013, n. 24265
Lavoro autonomo e lavoro subordinato – Licenziamento – Sfera patrimoniale datore di lavoro – Assenza di nocumento – Valutazione gravità del comportamento inadempiente
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, con la sentenza di cui si chiede la cassazione, pronunciando in sede di rinvio, reputa illegittimo il licenziamento intimato ad A.F. dalla Cassa di Risparmio di Rieti e tanto sul presupposto che i fatti addebitati al lavoratore non costituiscono comportamenti rilevanti ai fini di un licenziamento.
Quanto alle conseguenze patrimoniali della acclarata illegittimità del recesso datoriale la Corte del merito ritiene di limitare, ex art. 1227, 2° comma, cc, il risarcimento del danno alle retribuzioni non percepite nei tre anni successivi al licenziamento tenuto conto, in base all’id quod prelumque accidit, che nell’indicato periodo di tempo il F., per la sua età e per la sua esperienza professionale, avrebbe potuto trovare, in base all’ordinaria diligenza, altra occupazione.
Il F. e la Cassa di Risparmio di Rieti chiedono l’annullamento della sentenza rispettivamente sulla base di tre motivi e di due censure.
Resistono con controricorso la Cassa di Risparmio di Rieti ed il F..
Vengono depositate memorie illustrative.
Motivi della decisone
I ricorsi vanno preliminarmente riuniti riguardando l’impugnazione della stessa sentenza.
E’ pregiudiziale l’esame del ricorso della Cassa di Risparmio di Rieti investendo questo la ritenuta non sussistenza di un licenziamento legittimo.
Con la prima censura la predetta Cassa, denunciando violazione dell’art. 2119 cc, sostiene che la Corte del merito erroneamente, ai fini della valutazione dei fatti posti a base del licenziamento, tiene conto della tenuità del danno economico arrecato.
La censura è infondata.
Invero, la Corte del merito accerta che per prassi aziendale gli sconfinamenti, al di là dei limiti di autonomia delle filiali, non danno luogo a provvedimenti disciplinari quando non è particolarmente elevato il danno economico dell’Istituto essendo, anzi, regola oltrepassare tali limiti al fine di non perdere la clientela.
In tale ottica va, quindi, letta la sentenza impugnata nel senso che la mancanza di un elevato danno economico dell’azienda rende irrilevante, per prassi aziendale, gli sconfinamenti sicché quelli addebitati al F., proprio per la mancanza di elevato danno economico, non possono costituire fatti idonei a giustificare il licenziamento.
Non è, quindi, contraria la sentenza impugnata al principio di diritto, espresso da questa Corte secondo la quale l’assenza di nocumento della sfera patrimoniale del datore di lavoro, se può concorrere a fornire elementi per la valutazione di gravità del comportamento inadempiente, non è decisiva per escludere che possa dirsi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia (Cass. 24 luglio 2006 n. 16864).
Né sarebbe razionale da un lato consentire per prassi aziendale sconfinamenti dai limiti autonomia quando questi non determinano un elevato danno patrimoniale per la Banca, e dall’altro ritenere giustificato il licenziamento fondato su tali sconfinamenti in assenza di elevato danno.
Con la seconda critica la Cassa citata, denunciando omessa motivazione, assume che la Corte del merito non spiega se la prassi per cui certi sconfinamenti erano tollerati poteva ritenersi applicabile anche ai ripetuti sconfinamenti riguardanti l’addebito concernente il caso C..
La critica non è fondata.
Per vero la Corte di Appello valuta in modo particolareggiato il c.d. caso C. e rileva che i vari fatti addebitati non erano idonei a costituire ipotesi rilevanti ai fini di un giustificato licenziamento in quanto tutti s’inscrivevano nell’ambito di una prassi aziendale che consentiva la gestione con una certa elasticità dei servizi forniti dalla Banca, così come attestato dalla stessa relazione ispettiva.
Del resto, se viene consentito – rectius autorizzato – per prassi aziendale un certo comportamento per così dire elastico non può, poi, certamente assumersi che la sommatoria di quei comportamenti autorizzati possa costituire fattispecie giustificativa del licenziamento.
Passando all’esame del ricorso del F., questi con il primo motivo, allegando violazione degli artt. 1219, 1223, 2697, 2729 cc, 113, 421, 432 cpc, 18 della Legge n. 300 del 1970 nonché vizio di motivazione, sostiene la erroneità della sentenza impugnata in punto dì limitazione del risarcimento del danno al triennio successivo il licenziamento.
Rileva al riguardo il ricorrente che la Corte del merito ha posto a carico del lavoratore l’onere di dimostrare la permanenza dello stato di disoccupazione nonostante l’art. 1227, 2°comma, cc non esoneri il debitore dall’onere di provare e di allegare la negligenza del creditore. Deduce di aver chiesto di provare di non essere riuscito a trovare altra occupazione, ma la Corte non ha dato ingresso alla prova senza spiegare le ragioni di tale provvedimento.
Sottolinea, inoltre, il F. I’apoditticità del riferimento alle condizioni del mercato del lavoro e lamenta il mancato ricorso all’assunzione, ex art. 421 cpc, d’informazioni presso l’Istituto Nazionale di Statistica ed il Ministero del lavoro.
Il motivo è infondato.
Al riguardo va rimarcato che, come ribadito di recente da Cass. 21 settembre 2012 n. 16076, l’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte sulla interpretazione dell’art. 1227 cc è pervenuta ad affermare i seguenti principi 1) tale articolo contiene ai commi 1 e 2 due distinte norme che regolano fattispecie diverse (Cass. 14 gennaio 1992 n. 320; Cass. 22 agosto 2003 n. 12352): il comma 1 regola il concorso del danneggiato nella produzione del fatto dannoso ed ha come conseguenza una ripartizione di responsabilità, rappresentando un’ipotesi particolare della più generale previsione del concorso di più autori del fatto dannoso (art. 2055 c.c.), nel quale uno dei coautori è lo stesso danneggiato. Il comma 2 contempla una situazione, del tutto diversa, di danno causato dal solo debitore, e quindi non concerne problemi di nesso causale, ma solo di estensione o di evitabilità del danno; si tratta di conseguenze dannose che si sono effettivamente verificate, ma che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la ordinaria diligenza. 2) Quanto al contenuto dell’ordinaria diligenza esigibile, l’art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche ad evitare le conseguenze dannose. La norma che onera il danneggiato ad uniformarsi ad un comportamento attivo ed attento dell’altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa “evitabilità” del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell’art. 1175 cc, applicabile ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un’apprezzabile sacrificio a suo carico (Cass, 7 aprile 1983 n. 2468; Cass. 14 gennaio 1992 n. 320 cit.). 3) Il limite alla esigibilità del comportamento attivo è costituito dalla “ordinaria” e non “straordinaria” diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell’evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, come esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici (Cass. 15 luglio 1982 n. 4174; Cass. 14 novembre 1978 n. 5243; Cass. 25 gennaio 1975 n. 304; Cass. 6 luglio 2002 n. 9850). In applicazione degli esposti principi alla materia in oggetto, questa Corte ha affermato che il lavoratore, licenziato senza giusta causa, deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre, ex art. 1127 c.c., il pregiudizio subito (ex multis Cass. 18.2.1980 n. 1208; Cass. 11 novembre 2002 n. 15838; Cass. 22 agosto 2003 n. 12352).
La Corte di Appello ha fatto corretta applicazione di tale principio, in quanto ha basato il proprio decisum sul rilievo secondo il quale non era risultato che, dopo il licenziamento, il lavoratore si era adoperato per la ricerca di un posto di lavoro.
Siffatta argomentazione è conforme al principio secondo cui, in tema di risarcimento del danno, cui è tenuto il datore di lavoro in conseguenza del licenziamento illegittimo e con riferimento alla limitazione dello stesso ex art. 1227 cc, comma 2, l’onere della ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione deve ritenersi assolto dal lavoratore con l’iscrizione nelle liste di collocamento, mentre spetta al debitore provare ulteriori elementi significativi della mancanza dell’ordinaria diligenza. (Cass. 11 maggio 2005 n. 9898 e Cass.11 marzo 2010 n. 5862 cit.).
Né sotto diverso profilo risulta incongrua la motivazione della sentenza impugnata laddove, avuto riguardo alle condizioni di mercato ed a quelle
soggettive del lavoratore (ed in particolare all’ età del lavoratore), la Corte del merito ritiene che, nell’arco di tempo di tre anni dall’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro, il F. avrebbe potuto trovare un’altra occupazione se si fosse diligentemente attivato in tal senso.
Quanto alla dedotta mancata ammissione della prova articolata dai lavoratore è assorbente la considerazione che il ricorrente non trascrivendo nel ricorso i capitoli di prova impedisce a questa Corte di delibarne la decisività ( V. per tutte Cass. 11 giugno 2001 n. 7852 e Cass. 20 gennaio 2006 n. 1113 che ha appunto ritenuto necessario che il ricorrente riporti nel ricorso i capitoli di prova non ammessi).
Né può sottacersi, per quanto concerne la dedotta richiesta d’informazioni presso l’Istituto Nazionale di Statistica ed il Ministero del lavoro,che secondo giurisprudenza di questa Corte l’esercizio del potere, previsto dall’art. 213 cpc, di richiedere d’ufficio alla P.A. le informazioni relative ad atti e documenti della stessa che sia necessario acquisire al processo rientra, ai pari del ricorso ai poteri istruttori previsti dall’art. 421 cpc, nella discrezionalità del giudice e non può comunque risolversi nell’esenzione della parte dall’onere probatorio a suo carico, con la conseguenza che tale potere può essere attivato soltanto quando, in relazione a fatti specifici già allegati, sia necessario acquisire informazioni relativi ad atti o documenti della P.A. che la parte sia impossibilitata a fornire e dei quali solo l’Amministrazione sia in possesso proprio in relazione all’attività da essa svolta (per tutte Cass. 13 marzo 2009 n. 6218).
Con la seconda censura il F., prospettando violazione degli artt. 18 della Legge n. 300 del 1970, 112 e 132 cpc nonché omessa pronuncia,asserisce che la Corte del merito non ha liquidato, a titolo di risarcimento del danno, una somma corrispondente alle retribuzioni globali di fatto, così come richiesto e prescritto dal denunciato art. 18 della Legge n. 300 del 1970, ma una somma pari alle retribuzioni non percepite.
La censura non è fondata.
E’ pur vero che la formula adottata dalla Corte del merito nel commisurare l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, vigente ratione temporis, non corrisponde a quella legislativamente prevista che fa riferimento alle retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento, ma è altrettanto vero che la parametrazione dell’indennità in questione, operata dalla Corte di Appello, alla retribuzione non percepita all’atto del licenziamento rappresenta un formula equipollente a quella stabilita dal citata art. 18, non potendosi escludere che la retribuzione non percepita all’atto del licenziamento equivalga a quella globale di fatto.
Né, e vale la pena di rimarcarlo,emerge,se non in via meramente ipotetica, che la diversa formula adottata dalla Corte del merito incida, nel concreto, in maniera deteriore sul computo della riconosciuta indennità risarcitoria, anche in considerazione che, in violazione del principio di autosufficienza, non si è fatto riferimento a risultanze processuali attestanti la concreta differenza tra quanto riconosciuto in sentenza e quanto in realtà spettante al lavoratore.
Neppure è ravvisabile il denunciato vizio di omessa pronuncia in quanto tale vizio risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, presuppone un difetto di attività del giudice di secondo grado che, nella specie, non è riscontrabile atteso che la domanda è stata presa in considerazione dalla Corte del merito.
Con il terzo motivo il F., allegando violazione degli artt. 1282 cc, 112, 115, 132, 429 cpc, 150 disp.att.cpc nonché omessa pronuncia, rileva la Corte di Appello ha limitato, erroneamente e senza alcuna motivazione,il calcolo della rivalutazione monetaria alla data della sentenza senza estenderla alla data del soddisfo.
Il motivo non è condivisibile.
Infatti la Corte di Appello nel liquidare l’indennità risarcitoria, ex art. 18 della Legge n. 300 del 1970, ha condannato, altresì, la Cassa di Risparmio di Rieti al pagamento della rivalutazione monetaria sino ad “oggi” – ossia alla data della sentenza – e “dalle singole scadenze per le mensilità successive”.
Orbene secondo risalente giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non vi è ragione per discostarsene, la rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro, prevista dal terzo comma dell’art. 429 cpc, dev’essere determinata, ai sensi dell’art. 150 disp. att. stesso codice, sulla base dell’indice istat calcolato al momento dell’approvazione della sentenza in cui la determinazione stessa va effettuata – anche d’ufficio – dal giudice, mentre attiene alla fase dell’esecuzione la determinazione, in base agli indici maturati fino al giorno dell’effettivo pagamento, della svalutazione verificatasi dopo la sentenza (Cass 9 luglio 1984 n. 4000).
La sentenza impugnata è, quindi, sul punto corretta in diritto in quanto ha disposto secondo massima di questa Corte.
Né vi è spazio per il vizio di omessa pronuncia, essendovi sulla questione di cui trattasi specifico dictum.
Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso va rigettato.
La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del giudizio di legittimità
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