CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 ottobre 2013, n. 24430
Tributi – Reati tributari – Frode carosello – Fatture soggettivamente inesistenti – Detraibilità – Esclusione
Ritenuto in fatto
1. La S.G. s.r.l. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello della contribuente, è stata confermata la legittimità dell’avviso di rettifica dell’IVA emesso nei suoi confronti in relazione all’anno 1997.
A seguito di verifica eseguita dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, era stato accertato un credito IVA non dovuto, relativo ad acquisti di pneumatici dalla ditta tedesca E.R. di Regensburg, direttamente consegnati nei magazzini della S.G. ma fatturati attraverso due società – R.T.C.L. e P.L. s.r.l. – definite dall’Ufficio “cartiere”, cioè prive di struttura aziendale e sede operativa.
Il giudice d’appello ha ritenuto che la contribuente “da coregista del gioco commissionava trasporti con luogo di partenza o destinazione i magazzini della S.G. s.r.l., nonostante i documenti riportassero l’indicazione, quale luogo di partenza o destinazione, le sedi delle società cartiere”; inoltre, “un dichiarante” aveva dato “conferma che l’appellante fosse a completa conoscenza dell’intento fraudolento”.
2. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
3. La ricorrente ha depositato memoria.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo, la società ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 56 del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697, 2727 e 2729 cod. civ., 116 e 132 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata sostenendo che il giudice a quo ha basato la decisione su mere presunzioni addotte dall’Ufficio, prive dei caratteri di gravità, precisione c concordanza.
Con il secondo motivo, si denuncia la violazione degli artt. 112, 115 e 132 cod. proc. civ., deducendo che la sentenza, in un passaggio, avrebbe tenuto conto anche di una circostanza non contestata e nel resto ribadendo, in sostanza, le doglianze di cui al primo motivo.
Con la terza censura, infine, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 19 e 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, nonché vizio di motivazione, contestando la tesi secondo cui l’acquirente intestatario di una fattura relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti non può operare la detrazione dell’IVA, perché ciò, a suo dire, assolverebbe ad una funzione di carattere sanzionatorio non prevista dalla legge.
2.1. Il ricorso, i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente per stretta connessione, è infondato.
2.2. La tematica della detraibilità dell’IVA nel caso di fatturazione per operazioni inesistenti (oggettivamente o soggettivamente) o per operazioni comunque iscritte in un meccanismo negoziale attuato allo scopo di frodare il fisco (comunemente dette “frodi carosello”), è stata oggetto di numerose, anche recentissime, pronunce di questa Corte (emesse, doverosamente, anche alla luce di varie sentenze della Corte di giustizia in tema di IVA), i cui principi – attinenti essenzialmente al problema di cosa deve essere provato e da chi, cioè dell’oggetto della prova e della distribuzione del relativo onere tra fisco e contribuente – è utile in questa sede riepilogare e, ove occorra, precisare.
2.3. Va premesso che la fattura (di regola, salva l’ipotesi di contabilità inattendibile) è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, come si evince dall’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, purché sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto ivi prescritti, tra i quali l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo dell’operazione (cfr. art. 226 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto) (tra le altre, Cass. nn. 15395 del 2008, 9108 del 2012).
Ne deriva, in generale, che una regolare fattura, lasciando presumere la verità di quanto in essa rappresentato, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA.
A fronte, quindi, della esibizione di una tale fattura, spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per la detrazione.
E’ superfluo precisare, trattandosi di principi generali in tema di prova, che questa può ben consistere in presunzioni semplici, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 2012, cit.).
2.4. Nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”) e a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Quest’ultima prova non potrà consistere, però, per quanto detto sopra, nella esibizione della fattura, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (tra le altre, Cass. nn. 15228 del 2001, 12802 del 2011).
E’ poi evidente che, in caso di accertata assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente (il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettivamente ricevuta o meno).
2.5. Principi più articolati trovano applicazione in relazione al caso in cui l’Amministrazione contesti che la fatturazione attenga ad operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente è stato realmente destinatario).
Anche in questo caso l’IVA, in linea di principio, non è detraibile.
L’imposta è stata, infatti, versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta: non entrano cioè nel conteggio del dare ed avere ai fini Iva le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, in quanto tali fatture riguardano operazioni, per quanto lo riguarda, inesistenti, ed a nulla rileva che le medesime fatture costituiscano la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti. Il versamento dell’iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte – aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta – è, quindi, evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema IVA, essendo questo finalizzato a che l’imposta sia versata a chi ha eseguito prestazioni imponibili, perché la compensi con l’imposta, a sua volta, corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi (tra le altre, Cass. nn. 5719 del 2007, 29467 del 2008, 23987 del 2009, 735 e 4750 del 2010, 8132 del 2011, 7672 e 15741 del 2012).
2.6. In relazione al tema delle fatture per operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, sorge, tuttavia, l’esigenza della tutela della buona fede del contribuente, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
In particolare, il giudice comunitario ha ripetutamente affermato i seguenti principi: a) il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o versata a monte per i beni acquistati e per i servizi loro prestati costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni; b) il sistema comune dell’IVA garantisce la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano di per sé soggette all’IVA; c) è irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA pagata a monte, stabilire se l’IVA dovuta sulle operazioni di vendita precedenti o successive riguardanti i beni interessati sia stata versata o meno all’Erario; d) peraltro, dalla formulazione dell’articolo 168, lettera a), della direttiva 2006/112 emerge che, per poter beneficiare del diritto a detrazione, occorre, da un lato, che l’interessato sia un soggetto passivo ai sensi di tale direttiva e, dall’altro, che i beni o servizi invocati a base di tale diritto siano utilizzati a valle dal soggetto passivo ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta e che, a monte, detti beni o servizi siano fomiti da un altro soggetto passivo; e) la lotta contro evasioni, elusioni ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto ed incoraggiato dalla direttiva 2006/112; i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione, e pertanto, è compito delle autorità e dei giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione ove sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che lo stesso diritto è invocato fraudolentemente o abusivamente; f) un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA dev’essere considerato, ai fini della direttiva 2006/112, partecipante a tale evasione, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle; g) ne consegue che è possibile negare ad un soggetto passivo il beneficio del diritto a detrazione solamente qualora si dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che detto soggetto passivo, al quale sono stati ceduti o fomiti i beni o i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di tali cessioni o prestazioni; h) non è invece compatibile con il regime del diritto a detrazione previsto dalla suddetta direttiva sanzionare con il diniego di tale diritto un soggetto passivo che non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore, o che un’altra operazione nell’ambito della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella realizzata da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’IVA; infatti, l’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario; i) l’amministrazione tributaria non può, d’altra parte, esigere in maniera generale che il soggetto passivo che intende esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA, da un lato – al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni a livello degli operatori a monte – verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio di tale diritto abbia la qualità di soggetto passivo, che disponesse dei beni di cui trattasi e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o, dall’altro lato, che il suddetto soggetto passivo disponga di documenti a tale riguardo; 1) di conseguenza, dato che il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, spetta all’amministrazione tributaria dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di cessioni (cfr. sentenze 6 luglio 2006, Kittei e Recolta Recycling, C-439/04 e C-440/04; 21 giugno 2012, Mahagében e David, C-80/11 e C-142/11; 6 settembre 2012, Tóth, C- 324/11; 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; 31 gennaio 2013, Stroy Trans, C-642/11).
In applicazione della citata giurisprudenza, questa Corte ha avuto occasione recentemente di affermare che spetta, in primo luogo, all’amministrazione finanziaria, la quale contesti il diritto del contribuente a portare in detrazione l’IVA pagata su fatture emesse da soggetto diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, provare, in base ad elementi oggettivi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente; ove l’amministrazione abbia assolto a tale onere probatorio, passa poi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria (Cass. n. 23560 del 2012).
2.7. Deve, al riguardo, precisarsi che, quanto meno nella ipotesi – più semplice e comune – di fatturazione per operazione soggettivamente inesistente di tipo triangolare, caratterizzata dalla interposizione di un soggetto italiano – fittizio – nell’acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale cedente) ed un altro soggetto italiano (reale acquirente), il detto onere probatorio dell’amministrazione ben può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sé, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poiché l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’lVA a soggetto non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta; con la conseguenza che, in tal caso, sarà poi il contribuente a dover provare – ipotesi poco verosimile, ma in assoluto da non potersi escludere – di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri (da ult, Cass. n. 6229 del 2013).
2.8. Resta, infine, il fenomeno genericamente noto come “frode carosello”: con tale definizione si intende indicare, più propriamente, una combinazione fraudolenta posta in essere per far sì che una stessa operazione, mediante strumentali interposizioni anche di cosiddette società filtro, passi attraverso una catena di soggetti che si avvalgono in vario modo del mancato versamento dell’IVA da parte di un cedente (e potendo anche avvenire che l’ultimo cessionario, anziché immettere il bene sul mercato, lo rivenda a sua volta al primo cedente).
Nella frode carosello, quindi, possono riscontrarsi, nei vari passaggi, sia fatturazioni per operazioni oggettivamente inesistenti, sia fatturazioni per operazioni solo soggettivamente inesistenti. E può anche accadere che un singolo operatore, che abbia realmente acquistato la merce da un fornitore formalmente effettivo, sia inconsapevole di essere stato inserito in un circuito fraudolento ideato da altri. Spetterà pertanto all’Amministrazione, in base ai principi sopra enunciati, l’onere di provare gli elementi di fatto che concretizzano la frode, nonché la partecipazione ad essa, o la consapevolezza di essa, da parte del contribuente (Cass. nn. 10414 del 2013, 15741 del 2012, 6229 del 2013).
3. Nella fattispecie in esame, relativa, come risulta dalla esposizione dei fatti riportata nella sentenza impugnata, a fatturazioni di operazioni soggettivamente inesistenti di tipo triangolare, il giudice di merito ha accertato, con congrua motivazione, che la società ricorrente era pienamente a conoscenza del carattere fraudolento delle operazioni, delle quali era, anzi, la “coregista”.
Ne deriva, in base agli enunciati principi, che il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in €. 12000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
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