CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 giugno 2013, n. 24557
Aumento fittizio di capitale – Sequestro per responsabilità amministrativa degli enti – Sussiste
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Bologna, adito ai sensi degli artt. 322 e 324 cod. proc. pen., in accoglimento dell’istanza di riesame presentata nell’interesse della U. s.p.a., annullava il decreto del 04/05/2012, integrato con provvedimento del 18/05/2012, con il quale il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo per equivalente di somme di denaro, titoli e valori, beni mobili, immobili ed altre utilità, fino alla corrispondenza di euro 199.718.038,00, nella disponibilità della società U. ovvero di una serie di società interamente controllate dalla prima: decreto adottato ai sensi degli artt. 19, 25 ter e 53 d.lgs. n. 231 del 2001, in ragione della prospettata responsabilità amministrativa della U. (di cui al capo F bis) dell’imputazione, derivante dalla commissione, da parte di A.M. e di altri soggetti con incarichi dirigenziali nella U., del reato di formazione fittizia di capitale, di cui all’art. 2632 cod. civ. (capo F) dell’imputazione), per avere, tra il 28/02/2006 ed il 11/07/2009, aumentato fittiziamente il capitale sociale della U., incrementato fraudolentemente del 78,63% del valore conferito, pari ad euro 199.718.038, mediante la rilevante sopravvalutazione della partecipazione in C. s.p.a., conferita in U. il 28/02/2006 (partecipazione già appartenente alla C., ad A.M. ed a M.M.) e l’attribuzione gratuita di una nuova azione ogni dieci possedute, attraverso il passaggio a capitale della riserva sovrapprezzo azioni, fraudolentemente formata con l’anzidetta rilevante sopravvalutazione.
Rilevava il Tribunale come, pur sussistendo i gravi indizi di colpevolezza a carico del M. e degli altri indagati cui era stato addebitato il reato presupposto, dovesse escludersi la configurabilìtà di una responsabilità amministrativa della U. in quanto il delitto di formazione fittizia di capitale doveva considerarsi commesso nell’esclusivo interesse dello stesso M. e degli altri indagati, e non anche nell’interesse della U., la quale non aveva neppure conseguito alcun profitto dalla operazione decettiva oggetto di contestazione: situazione, dunque, che, a mente dell’art. 5 comma 2 d.lgs. cit., esclude la punibilità della relativa persona giuridica, cui gli indagati persone fisiche appartenevano con funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione.
2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna il quale, formalmente con due distinti motivi, ha denunciato la violazione di legge, in relazione agli artt. 321 cod. proc. pen., 5 e 6 d.lgs, n. 231 del 2001, per avere il Collegio del riesame immotivatamente escluso, pure con travisamento delle prove, che il M. e gli altri dirigenti della U. avessero consumato il descritto reato di formazione fittizia del capitale sociale anche nell’interesse della stessa società ovvero a vantaggio della medesima, essendo stata artificiosamente aumentata la sua affidabilità nei confronti dei terzi; nonché per avere erroneamente trascurato che, a norma dell’art. 6 comma 5 d.lgs. cit., è sempre disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche per equivalente.
3. Con memoria depositata il 12/04/2013, il difensore della U. s.p.a. ha chiesto il rigetto del ricorso, evidenziando come il provvedimento del Tribunale del riesame fosse sorretto da adeguata e corretta motivazione.
4. Ritiene la Corte che il ricorso sia fondato, e ciò per due alternativi ordini di ragioni.
4.1. Escluso che, giusta l’esplicita previsione dell’art. 325 comma 1 cod. proc. pen., in questa sede possano essere dedotti vizi di motivazione ovvero altri motivi diversi dalla violazione di legge, va rilevato come sia meritevole di positiva considerazione la censura mossa dal ricorrente in ordine alta erronea applicazione della norma prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001 per la quale “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” (comma 1) e “non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.
Anche aderendo all’orientamento di autorevole dottrina, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare che, in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, l’espressione normativa, con cui se ne individua il presupposto nella commissione dei reati “nel suo interesse o a suo vantaggio”, non contiene un’endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’Illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato “ex ante”, sicché l’interesse ed il vantaggio sono in concorso reale (Sez. 2, n. 3615/06 del 20/12/2005, D’Azzo, Rv. 232957).
Ne deriva che la responsabilità della persona giuridica non è affatto esclusa laddove l’ente abbia avuto un interesse concorrente a quello dell’agente o degli agenti che, in posizione qualificata nella sua organizzazione, abbiano commesso il reato presupposto. Sotto questo punto di vista, se è ragionevole ritenere, sulla base della motivazione dell’ordinanza gravata, che il M. ed i suoi odierni coindagati abbiano avuto di mira il conseguimento di benefici personali (consistenti nell’artificiosa sopravvalutazione del conferimento operato dai soci facenti capo alla C. ed alla conseguente acquisizione di un numero di azioni molto superiore a quella che sarebbe loro spettato), appare frutto di un’erronea applicazione della norma in esame l’aver affermato che l’accertato fittizio aumento del capitale sociale non fosse stato realizzato anche nell’interesse ovvero in vantaggio della medesima U. ciò tenuto conto, in generale, che non è corretto far coincidere l’interesse oggettivo con le soggettive intenzioni e rappresentazioni dell’agente o degli agenti, poiché quel requisito finirebbe per essere ingiustificatamente identificato con il dolo specifico che riguarda la sfera soggettiva dell’autore o degli autori del reato presupposto, e non l’ente; e, in particolare, che dagli elementi di prova acquisiti – già evidenziati nel decreto genetico della misura cautelare reale e pure analiticamente richiamati nel ricorso oggi portato all’attenzione di questo Collegio – era risultato che quell’incremento di capitale aveva determinato un aumento dell’affidabilità della medesima compagine sociale nei confronti dei terzi (operatori economici, nuovi investitori, clienti e fornitori, istituti di credito aventi rapporti con la U. assolvendo il capitate sociale, come riconosciuto dalla difesa della ricorrente nella memoria del 12/04/2013, anche una funzione supplementare di garanzia per i terzi) ed una sensibile moltiplicazione del valore delle azioni della società quotata in borsa, anche in conseguenza della successiva diffusione di comunicati in ordine all’avvenuta capitalizzazione.
4.2. Nella motivazione dell’ordinanza gravata risulta sussistere anche una ulteriore manifesta violazione di legge, per avere il Tribunale del riesame annullato il decreto applicativo della misura del sequestro preventivo ed ordinato, conseguentemente, la restituzione di quanto già sottoposto a vincolo, senza in alcun modo considerare che quella misura cautelare reale era stata disposta dal Giudice per le indagini preliminari anche perché i falsi valori patrimoniali, che avevano incrementato il patrimonio della U. per un importo pari ad euro 199,718.038, dovevano essere qualificati come profitto del reato di formazione fittizia del capitale, tratto dalla stessa società (v. pag. 55 del decreto 04/05/2012 e pag. 4 del provvedimento, integrativo del primo, del 18/05/2012): profitto, come tale, sempre confiscabile a mente dell’art. 6 comma 5 d.lgs. n. 231 del 2001, anche laddove dovesse essere esclusa la responsabilità amministrativa dell’ente.
Al riguardo va rammentato l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità per il quale, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, la confisca del profitto del reato prevista dagli artt. 9 e 19 d.lgs. n. 231 del 2001 si configura come sanzione principale, obbligatoria ed autonoma rispetto alle altre previste a carico dell’ente, e si differenzia da quella configurata dall’art. 6 comma 5 del medesimo decreto, applicabile solo nel caso difetti la responsabilità della persona giuridica, la quale costituisce invece uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato presupposto, i cui effetti sono comunque andati a vantaggio dell’ente (Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, F.I. Spa e altri, Rv. 239925).
4.3. L’ordinanza gravata va, dunque, annullata con rinvio al Tribunale di Bologna che nel nuovo esame della richiesta ex art. 322 cod. proc. pen., a suo tempo presentata nell’interesse della U. s.p.a., si uniformerà ai principi di diritto innanzi esposti.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia, per nuovo esame, al Tribunale di Bologna.
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