CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 novembre 2013, n. 24776
Contratto di agenzia – Scioglimento del contratto – Recesso senza preavviso del preponente – Diritto all’indennità sostitutiva – Funzione indennitaria – Immediata rioccupazione dell’agente – Irrilevanza – Fattispecie
Svolgimento del processo
La Corte di appello, giudice del lavoro, di Torino, decidendo sull’appello principale proposto da G.M. nei confronti della S. s.a.s. di F.V. & C. e sull’appello incidentale proposto dalla società, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torino, dichiarava che al M., agente della S. s.a.s. per la zona dell’Italia meridionale ed insulare, spettavano, a seguito della comunicazione di recesso per cessazione dell’attività, l’indennità sostitutiva del preavviso per euro 13.929,00, differenze per provvigioni arretrate per euro 3.444,07 e l’indennità ai sensi dell’art. 1751 cod. civ. per euro 18.000 (ritenendo, in particolare, quest’ultima, equitativamente determinata, spettante nell’ipotesi in questione in ragione del fatto che la cessazione dell’attività era dipesa dalla cessione a terzi dell’azienda e che nel prezzo di vendita si era tenuto conto del portafoglio clienti alla cui consistenza il M. aveva contribuito).
Per la cassazione di tale sentenza la S. s.a.s. di F.V. & C. propone ricorso affidato a due motivi.
Resiste con controricorso l’intimato G.M..
La S. s.r.l. (in cui, nelle more del presente giudizio, si è trasformata la s.a.s.) ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.).
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società ricorrente principale denuncia: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 1751 cod. civ. (art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc. civ.) – Contraddittoria ed omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ.)”. Si duole dell’avvenuto riconoscimento dell’indennità di risoluzione del rapporto e della ritenuta sussistenza dei due requisiti previsti in via cumulativa (incremento della clientela e degli affari ed equità). Rileva, in particolare, che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che il valore di avviamento del ramo di azienda (nel quale era ricompreso anche il marchio oggetto di cessione) sia rappresentato dal portafoglio clienti e che costituisca un sostanziale vantaggio del preponente. Si duole anche della ritenuta equità del riconoscimento evidenziando che l’agente non aveva subito alcuna perdita delle provvigioni dal momento che, dopo l’interruzione del rapporto con la S. s.a.s., aveva sottoscritto un nuovo contratto (migliorativo rispetto al precedente) con la S. s.r.l. (poi incorporata nella C.S. S.p.A.), mantenendo la stessa zona e lo stesso portafoglio clienti di prima.
Rileva, sul punto, anche un vizio motivazionale evidenziando che la Corte territoriale non ha precisato le ragioni della diminuzione delle provvigioni, apoditticamente ricollegate alla cessazione del rapporto con la S. s.a.s., in contrasto con i dati di fatto acquisiti e senza prendere in considerazione i motivi del calo di fatturato che possono essere molteplici ed indipendenti dai fatti di causa.
2. Il motivo non è fondato.
Non si rileva nella decisione impugnata alcuna violazione di legge.
La Corte territoriale ha, infatti, correttamente preso in considerazione le condizioni costitutive previste dall’art. 1751 cod. civ. per il riconoscimento, in favore dell’agente, dell’indennità di risoluzione del rapporto.
La suddetta norma prevede, infatti, che: “All’atto della cessazione del rapporto il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti”.
Si richiede, in sostanza, la persistenza – al momento della cessazione del rapporto – di un portafoglio clienti procurato dall’agente, del quale benefici il mandante. In questo senso, la prima condizione considera il vantaggio che il preponente ricava dalla disponibilità di questo portafoglio; la seconda (il pagamento deve essere equo) considera la perdita, in termini di provvigioni, che l’agente subisce dalla cessazione del rapporto. Riguardo a tale ultimo aspetto è stato da questa Corte precisato che il richiamo all’equità non serve solo per determinare i casi nei quali l’indennità deve essere erogata, ma va utilizzato anche come criterio per la determinazione dell’indennità stessa (cfr. Cass. 29 luglio 2002, n. 11189; id. 23 aprile 2007, n. 9538 ). Si è anche sostenuto che la norma in questione, in ragione del riferimento alle “provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con i clienti procurati al preponente”, si pone quale disposizione di salvaguardia per l’agente, nel senso che ove quest’ultimo provi di aver procurato nuovi clienti al preponente o di aver sviluppato gli affari con i clienti esistenti (ed il preponente riceva ancora vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti) è necessario verificare, ai sensi dell’art. 1751, comma 1, cod. civ., se – fermi i limiti posti dal comma 3 della medesima norma – l’indennità come determinata, tenuto conto di tutte le circostanze del caso e in particolare delle provvigioni che l’agente perde, sia equa e compensativa del particolare merito dimostrato, dovendosi, in difetto, riconoscere la differenza necessaria per ricondurla ad equità (cfr. in tal senso Cass. 19 febbraio 2008, n. 4056; id. 1 giugno 2009, n. 12724; 23 giugno 2010, n. 15203; 15 marzo 2012, n. 4149). Secondo detta opzione interpretativa, l’equità è, dunque, utilizzata dal legislatore quale criterio per riconoscere all’agente, in mancanza di una specifica disciplina collettiva, il differenziale necessario (ferma restando la soglia – limite costituita dall’art. 1751, comma 3, cod. civ., che, invece, costituisce una limitazione a favore del preponente: l’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle “retribuzioni” – i.e. essenzialmente, ma non esclusivamente, le provvigioni – riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione -) non anche per escludere, in presenza di un risultato proficuo dovuto all’agente e non, dunque, imputabile ad elementi estranei alla collaborazione di quest’ultimo, il pagamento di detta indennità.
E’ certo, in ogni caso, che il diritto all’indennità è subordinato alla presenza di entrambe le condizioni (apporto clientela ed equità), considerato che la modifica dell’art. 1751 cod. civ. introdotta dal d.lgs. n. 65/99 lo ha ancorato a criteri prettamente meritocratici.
Nel caso di specie la Corte territoriale ha correttamente applicato la normativa di riferimento avendo ricercato e valutato la sussistenza delle condizioni legislativamente previste dell’incremento della clientela e/o del sensibile sviluppo degli affari (da una parte) e della ultraattività dei vantaggi derivati alla società preponente (dall’altra). Inoltre ha espresso il giudizio di equità “tenendo conto di tutte le circostanze del caso”.
Neppure sussiste il lamentato vizio motivazionale.
Deve rilevarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.
Per conseguenza il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; ne deriva che le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr. ex plurimis, Cass. 14 gennaio 2011, n. 824; id. 22 dicembre 2006, n. 27464; 12 maggio 2006, n. 11034; 7 marzo 2006, n. 4842; 27 aprile 2005, n. 8718). Al contempo va considerato che, affinché la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr. ex aliis, Cass. 2 luglio 2004, n. 12121; id. 1 dicembre 1999, n. 13359).
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha esaminato tutte le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch’esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr. anche Cass., 14 giugno 2010, n. 14212/2010; id. 21 giugno 2010, n. 14911).
In particolare, la Corte è pervenuta alla dimostrazione del primo requisito (che l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti) attraverso l’esame dei fatturati procurati e provati dal M. nel lungo periodo di collaborazione con la preponente (settembre 1985- febbraio 2007). Così ha valorizzato la circostanza che il M., avendo operato in una zona – Italia meridionale ed insulare – in cui la società preponente, sia per la sua recente costituzione sia per la sua localizzazione geografica (Lombardia), non era certo conosciuta, aveva realizzato fatturati costanti e del tutto soddisfacenti. Già tale valutazione era, invero, significativa di un vantaggioso consolidamento della clientela in capo alla controparte e dimostrativa del fatto che, all’atto di cessazione del rapporto, il preponente (per il quale, come si legge, il M. aveva “proficuamente operato per oltre vent’anni”) versasse in una condizione tale da ricevere ancora utilità dal portafoglio clienti facente capo all’agente. Ma la Corte ha anche fatto riferimento alla ultraattività del vantaggio derivante alla S. s.a.s. dagli affari conclusi dal M. in costanza di rapporto attribuendo significativo valore alla circostanza che proprio il suddetto consolidamento avesse contribuito alla determinazione del prezzo di vendita dell’azienda e sottolineando, al riguardo, che la cedente si era contrattualmente impegnata a non svolgere per cinque anni attività concorrenziale ed a trasmettere alla cessionaria l’elenco dei clienti.
La Corte di appello, poi, una volta riscontrata in punto di fatto la ricorrenza dei presupposti dell’indennità, ha proceduto a verificare, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto emergenti dal concreto svolgimento del rapporto di agenzia, se l’indennità di cessazione del rapporto, potesse anche considerarsi equa.
Ha, così, ritenuto che il riconoscimento dell’indennità soddisfacesse anche alla suddetta ulteriore condizione considerato che, nel caso concreto, pur con la stipula del nuovo contratto di agenzia con condizioni “potenzialmente” più favorevoli “perché a scaglioni progressivi”, vi era stata una diminuzione delle provvigioni (dato questo rilevato da un raffronto tra le fatture emesse dal M. alla S. s.a.s. e quelle dallo stesso emesse alla S. s.r.l., poi incorporata nella C.S. S.p.A.) ed ha ricollegato tale diminuzione “oggettivamente” alla cessazione del rapporto di agenzia. Ha, inoltre, evidenziato che l’intervenuta cessione dell’azienda avrebbe, di fatto, impedito al M. di rivendicare, in futuro, nei confronti della cessionaria il giusto compenso per il raggiungimento di quel portafoglio clienti (determinativo del prezzo di cessione) per il quale si era impegnato per oltre un ventennio. Infine la Corte di merito ha ritenuto che tale indennità potesse essere equamente ed adeguatamente determinata in euro 18.000,00, tenuto conto dei criteri di cui all’art. 1751, comma 3, cod. civ., e della non contestata fatturazione M./S. s.a.s. per gli anni 2002/2006 ammontante a complessivi euro 136.954,44.
Sotto i vari aspetti considerati, la valutazione della Corte territoriale non è censurabile in sede di legittimità essendo coerente con la lunga durata della collaborazione tra le parti – circostanza, invero, già di per sé idonea a dimostrare (indirettamente) la proficuità del rapporto specialmente in mancanza di elementi per ritenere che l’evidenziato soddisfacente risultato fosse dovuto ad elementi estranei alla collaborazione dell’ex agente – ed altresì congrua in rapporto alla natura dell’indennità in questione diretta a compensare l’agente delle perdite allo stesso derivate dalla cessazione di un rapporto nell’ambito del quale egli aveva operato sviluppando affari e determinando per il preponente un “plusvalore” rispetto alla situazione commerciale nella quale quest’ultimo si trovava prima dell’intervento dell’agente, consentendogli così di trarre sostanziali vantaggi da tali affari.
Del resto l’utilità per il preponente va valutata al momento della cessazione del rapporto assumendo rilevanza la cristallizzazione dei risultati ottenuti dall’agente a tale momento. La scelta del preponente di ottimizzare per sé tali risultati proseguendo l’attività e, dunque, gestendo direttamente il portafoglio clienti così vantaggiosamente consolidato ovvero di cedere ad altri l’azienda (per un prezzo indubbiamente determinato, oltre che dal marchio, anche dall’avviamento e cioè dalla capacità per l’impresa di produrre redditi nel tempo, costituita appunto da quel fattore oggettivo o reale, intrinseco all’organizzazione aziendale, che è il portafoglio clienti) non può risolversi in un pregiudizio per l’agente che in entrambi i casi, e salvo che non venga accertato che l’incremento di clientela sia dipeso da fattori esterni all’agente ovvero che quest’ultimo non abbia in concreto subito alcuna perdita, ha diritto a vedersi riconosciuta l’indennità in questione. Si richiama, sul punto, il principio espresso da questa Corte nella sentenza del 26 giugno 2002, n. 9317 secondo cui: “Poiché l’indennità di cessazione del rapporto di agenzia compensa l’agente per l’incremento patrimoniale che la sua attività reca al preponente sviluppando l’avviamento dell’impresa, tale condizione deve ritenersi sussistente, ed è quindi dovuta l’indennità, allorquando i contratti conclusi dall’agente siano contratti di durata, in quanto lo sviluppo dell’avviamento e la protrazione dei vantaggi per il preponente, anche dopo la cessazione del rapporto di agenzia, sono “in re ipsa”, mentre resta irrilevante la circostanza che i vantaggi derivanti dai contratti in questione non possano essere ricevuti dal preponente per suo fatto volontario (nella specie, consistente nella deliberazione di porre in liquidazione la società)”.
A fronte della situazione descritta e valutata dalla Corte torinese, le doglianze mosse dalla società ricorrente (per lo più incentrate sulla pretesa mancanza di perdita delle provvigioni in conseguenza del nuovo contratto stipulato dal M. con la S. s.r.l. e su un asserito calo di fatturato anche in costanza di rapporto di agenzia con la S. s.a.s.) si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice di merito in senso contrario alle aspettative della medesima ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.
3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia: “Contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio con riferimento all’indennità di mancato preavviso (art. 360, comma 1 n. 5 cod. proc. civ.). Rileva l’incongruenza del ragionamento decisorio della Corte che, da una parte, ha stigmatizzato la sottrazione al M. del tempo (preavviso) per cercare nuove opportunità lavorative e, dall’altra, ha ritenuto che tale sottrazione non potesse essere compensata dalla sottoscrizione, appena nove giorni dopo, del contratto di collaborazione con la cessionaria S. s.a.s..
4. Il motivo è infondato sol che si consideri che se il M. avesse avuto il tempo di preavviso fissato per legge (sei mesi) avrebbe potuto cercare soluzioni più vantaggiose (anche di quella del contratto di agenzia con la cessionaria). Tale possibilità gli è stata sottratta e, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, non può ritenersi compensata dalla instaurazione di un nuovo rapporto di collaborazione nove giorni dopo l’interruzione di quello con la cedente.
Si osserva, infatti, che la regola del preavviso, esplica i suoi effetti, per la sua portata generale (fuori dell’ipotesi di giusta causa), in tutti i casi in cui il recesso ha efficacia estintiva del rapporto di lavoro (Cass. 14 giugno 2006, n. 13732).
L’obbligo di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso è, poi, imposto al datore di lavoro in correlazione con l’inadempimento dell’obbligo di comunicare al lavoratore il recesso con congruo anticipo rispetto alla cessazione del rapporto (salve le ipotesi di giusta causa).
Nella disciplina del recesso unilaterale dal rapporto di lavoro subordinato, posta dall’art. 2118 cod. civ., così come in quella di cui all’art. 1750 cod. civ. ( “ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all’altra entro un termine stabilito’’; al 3° comma, vengono indicati i suddetti termini “minimi”, per i quali la scadenza del termine di preavviso deve coincidere con l’ultimo giorno del mese di calendario) il preavviso ha la funzione economica di attenuare le conseguenze dell’improvvisa interruzione del rapporto per chi subisce il recesso.
Alla stessa funzione va ricondotta l’indennità sostitutiva prevista per il caso di violazione del suddetto obbligo, onde la funzione di tale erogazione non è risarcitoria di un danno certo, ma indennitaria, ossia di rimedio contro la semplice eventualità di mancato reperimento di una nuova occupazione e di tutela della parte che subisce l’iniziativa dell’altra di porre fine al rapporto, attenuando le conseguenze della sua improvvisa interruzione. Tutela che, ove il recesso sia subito dal lavoratore, si concreta nel consentirgli non soltanto la ricerca di un’altra possibilità di lavoro ma, in ogni caso (anche cioè a prescindere da una simile necessità), di nuovamente e diversamente organizzare la propria esistenza nella imminenza del fatto “traumatico” della cessazione del rapporto, non geneticamente prevista e non a lui dovuta. In conseguenza il lavoratore ha diritto all’indennità anche nel caso in cui, dopo il licenziamento, trovi immediatamente un’altra occupazione (si vedano Cass. sent. n.3307 del 1956 e n. 1102 del 1976, riportate, in motivazione, da Cass. Sez. Un. 29 settembre 1994, n. 7914; si veda anche Cass. 12 agosto 1994, n. 7417 nonché Cass.20 marzo 1998, n. 2985; id. 24 ottobre 2006, n. 22830; 20 febbraio 2013, n. 4192).
5. In definitiva il ricorso deve essere rigettato.
6. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore di G.M., delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 50,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge.
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