Corte di Cassazione sentenza n. 24899 del 25 novembre 2011
RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO – LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
massima
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Il concetto di tempestività del recesso rilevante in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto è diverso da quello proprio del licenziamento disciplinare. Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l’esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole “spatium deliberandi” che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della presenza in azienda del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali (Cass. civ., Sez. lavoro, 07/01/2005, n. 253); ne consegue che in questo caso la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative, e la cui valutazione non è sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 21350/04 il Tribunale di Roma annullava il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato da V.A. S.r.l. nei confronti di D.A.G. (poi deceduto nelle more del giudizio di primo grado), pronuncia ribaltata in appello – con sentenza n. 6564/07 – dalla Corte capitolina, che respingeva la domanda negando che potesse considerarsi tardivo il licenziamento intimato il 24.7.01, dopo che il D.A. aveva totalizzato, nel quadriennio previsto come termine esterno dal CCNL per i dipendenti di case di cura private, 753 giorni di assenza per malattia a fronte di un comporto previsto in 18 mesi dal CCNL medesimo.
Ciò la Corte territoriale affermava perché da un lato vi era incertezza oggettiva circa l’epoca in cui era spirato il periodo di comporto (se nel dicembre 2000, come sostenuto dagli aventi causa del D.A., o successivamente), dall’altro il licenziamento era stato intimato solo il 19 giorno dopo il ritorno al lavoro del D.A. (avvenuto 5.7.01) dopo un lungo periodo di malattia.
Per la cassazione di tale sentenza ricorrono gli eredi del D.A., C.A., D.A.C. e B. – affidandosi a due motivi.
Resiste con controricorso la S.r.l. V.A., che ha poi depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 – Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono di violazione e falsa applicazione degli artt. 2110 e 2118 c.c., per avere l’impugnata sentenza ritenuto tempestivo il licenziamento al loro dante causa intimato dalla S.r.l. V. A. il 24.7.01, vale a dire a distanza di circa sette mesi da quando – nel dicembre 2000 – era spirato il termine di comporto di 18 mesi previsto dall’art. 34 CCNL per i dipendenti di case di cura private e 18 (rectius: 19) giorni dopo il ritorno al lavoro del D.A. seguito all’ultimo periodo di assenza per malattia; in proposito – proseguono i ricorrenti – per giustificare il lungo lasso di tempo trascorso, erroneamente e contraddittoriamente la Corte territoriale ha parlato di una oggettiva incertezza sul computo del comporto che, invece, nessuna delle parti aveva messo in dubbio; pertanto, il lungo ritardo nell’intimare il licenziamento doveva intendersi come rinuncia ad esso per fatti concludenti.
Tale doglianza viene sostanzialmente fatta valere anche con il secondo motivo di ricorso, sotto forma di vizio di motivazione.
2- Esaminati congiuntamente, perché connessi, i due motivi di censura, osserva questa S.C. che il ricorso non può accogliersi.
Il percorso ricostruttivo che negli anni si è delineato nella giurisprudenza di questa Corte Suprema in materia di tempestività del licenziamento per superamento del periodo di comporto va ulteriormente specificato come segue, sempre nell’ottica della ricerca del necessario punto di equilibrio dei contrapposti interessi in gioco, conformemente alla ratio dell’art. 2110 c.c., e alla regola integratrice di cui all’art. 1374 c.c.
E’ fuor di dubbio che il datore di lavoro possa intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non appena il periodo di comporto risulti esaurito (e a riguardo non v’è bisogno di rammentare l’ultratrentennale giurisprudenza di questa S.C.).
Nella vicenda per cui è causa è pacifico inter partes che il termine interno del comporto è spirato già nel dicembre 2000 (come affermano gli stessi ricorrenti) e che il licenziamento è stato intimato il 24.7.01, vale a dire a distanza di circa sette mesi, ma dopo soli 19 giorni dal rientro in servizio del D.A. (avvenuto il 5.7.01) all’esito dell’ultimo lungo periodo di malattia.
Ora, il concetto di tempestività del recesso rilevante in tema di comporto è diverso da quello proprio del licenziamento disciplinare: in questo, la tempestività della reazione datoriale – in termini di contestazione dell’addebito e, se del caso, di conseguente recesso – è dovuta nel rispetto del diritto di difesa del lavoratore; in quello è, invece, finalizzata ad evitare che il lavoratore resti in una sorta di limbo, senza sapere se e a quali condizioni potrà proseguire il proprio rapporto, situazione di incertezza che si tradurrebbe in una pratica impossibilità di esercitare i diritti connessi al rapporto lavorativo per timore che la controparte reagisca in modo ritorsivo, strumentalmente “rispolverando” un giustificato motivo oggettivo non ancora fatto valere.
Coerentemente a ciò, nell’ipotesi del licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia la giurisprudenza di questa S.C. ha avuto modo di affermare che l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi da riconoscersi al datore di lavoro affinché possa valutare convenientemente la compatibilità di una rinnovata presenza del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali; ne consegue che in tale evenienza la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve operare di volta in volta, con riferimento all’intero contesto delle circostanze potenzialmente significative (cfr., ad es., Cass. 28.3.11 n. 7037; Cass. 25.11.10 n. 23920), se del caso valutando detta tempestività in relazione non al momento in cui spira il termine interno del comporto, bensì a quello di rientro in servizio del lavoratore (cfr. Cass. 7.1.05 n. 253).
Dunque, ai fini della verifica della tempestività del recesso, la giurisprudenza di questa S.C. rimette al giudice di merito sia l’apprezzamento dell’entità dello spatium deliberandi a disposizione del datore di lavoro (influenzata, com’è noto, dalle dimensioni aziendali e da ogni altra circostanza del caso) sia la concreta individuazione del dies a quo del margine temporale entro cui si debba decidere se licenziare il dipendente.
Mentre il primo profilo non è suscettibile di ulteriori chiarimenti in sede di legittimità in quanto subordinato alla valutazione (propria del giudizio in punto di fatto) delle imprevedibili circostanze del caso concreto, il secondo – in quanto connesso al modo di intendere il principio di tutela dell’altrui affidamento – può meglio essere puntualizzato.
Invero, sul piano strettamente negoziale, il diritto del dipendente di conoscere con certezza la sorte del proprio rapporto si realizza proprio attraverso la valorizzazione dell’affidamento in lui ingenerato dall’inerzia del datore di lavoro che, pur potendo recedere, abbia tuttavia proseguito nell’accettare la prestazione lavorativa.
A sua volta, in tanto può parlarsi di affidamento del lavoratore circa la rinuncia datoriale ad avvalersi del giustificato motivo oggettivo (per superamento del periodo di comporto) in quanto il datore di lavoro abbia potuto in concreto sperimentare la ripresa dell’altrui prestazione e decidere con cognizione di causa se licenziare o non il proprio dipendente.
In altre parole, fino a quando il lavoratore non sia rientrato in servizio la pura e semplice inerzia dell’imprenditore è ancora un contegno neutro, di per sé non significativo della volontà di rinunciare alla facoltà di recesso e, quindi, inidoneo a determinare l’altrui incolpevole affidamento.
Infatti, l’attesa può dipendere dall’esigenza di accertare in concreto se, una volta tornato al lavoro il dipendente (che abbia esaurito il comporto), permangano spazi di suo concreto utilizzo, ancor più se si considera che all’esito di un lungo periodo di malattia gli assetti organizzativi dell’azienda possono essersi nel frattempo modificati e richiedere, quindi, una più puntuale e pratica verifica della possibilità di mantenere in vita il rapporto.
Dunque, se è vero che tale delibazione il datore di lavoro può effettuare già in pendenza della malattia che abbia esaurito il comporto, nulla esclude – però – che possa stimare conveniente attendere ulteriormente il rientro in servizio del lavoratore per sperimentare in concreto l’utilità o meno di continuare ad avvalersi della sua collaborazione.
D’altro canto, solo al momento del rientro in servizio il dipendente sviluppa quel bisogno di certezza di cui si è già detto (prima di allora, il sinallagma funzionale del rapporto è quiescente) e che è alla base dell’imposizione del requisito della tempestività del recesso.
Dunque, fermo restando il diritto dell’imprenditore di intimare il licenziamento non appena risulti esaurito il periodo di comporto da parte del lavoratore, prima dell’eventuale suo rientro in servizio il contegno datoriale (ove consistito nel puro e semplice astenersi dall’adottare provvedimenti espulsivi) non è ancora sussumibile sub specie di condotta in sé significativa, tale da poter astrattamente ingenerare l’altrui incolpevole affidamento circa l’eventuale rinuncia a risolvere il rapporto.
Siffatta ricostruzione, oltre ad essere coerente con gli arresti giurisprudenziali maturati in materia, presenta altresì il vantaggio di sfuggire all’alternativa diabolica tra il far decorrere sempre e comunque l’arco temporale di osservazione della tempestività del recesso dall’esaurimento del periodo di comporto e il posticipare l’esercizio del potere datoriale necessariamente ad epoca successiva al rientro in servizio del dipendente: nel primo caso, anticipare sempre la decorrenza dello spatium deliberandi (e la conseguente valutazione della tempestività del recesso) si tradurrebbe in un pregiudizio per il lavoratore, inducendo il datore di lavoro a licenziarlo in via prudenziale ancor prima di poter verificare le concrete possibilità di suo utile reimpiego (e ciò per non incorrere in una sostanziale decadenza dal potere di recesso); nel secondo, invece, non consentire il licenziamento se non dopo il rientro del dipendente all’esito del periodo di malattia finirebbe con l’incoraggiare strumentalizzazioni e abusi volti a posticipare indefinitamente il dies a quo della recedibilità datoriale.
Nella vicenda in esame, il licenziamento per cui è processo è stato intimato in un arco di tempo (19 giorni dopo il rientro in servizio del D.A.) compatibile non solo con le dimensioni aziendali (secondo quanto accertato in sede di merito con motivazione immune da censure), ma anche con uno spatium deliberandi inteso alla concreta verifica di una possibile conservazione del rapporto dopo che il D. A. era tornato al lavoro.
3 – Questo, dunque, il principio di diritto applicabile: “Ferma restando la facoltà dell’imprenditore di intimare il licenziamento non appena il lavoratore abbia esaurito il periodo di comporto per malattia e, quindi, anche prima del suo rientro in servizio, nondimeno il datore di lavoro ha altresì facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno del – se del caso mutato – assetto organizzativo dell’azienda;per l’effetto, solo a partire dal rientro in servizio del lavoratore l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al potere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente”. 4- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari ed oltre rimborso spese generali, IVA e CPA.
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