CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 novembre 2013, n. 24914
Tributi – Contratto simulato – Contratto di soccida – Corresponsione ai soccidari di acconti in denaro sul valore di accrescimento del bestiame, salvo conguaglio – Elusione fiscale – Non sussiste
Svolgimento del processo
In esito a verifica fiscale condotta nei confronti di (…) società cooperativa a r.l., veniva redatto dalla Guardia di Finanza il PVC in data 13.12.1999 con il quale si contestava alla società, relativamente all’anno d’imposta 1998, la omessa fatturazione di operazioni imponibili attive relative a cessione di bestiame, la omessa regolarizzazione mediante autofatturazione, in violazione dell’art. 41 co 6 Dpr n. 633/72, di operazioni imponibili passive relative a prestazioni di servizio ricevute in esecuzione di contratti di soccida dissimulanti in realtà contratti di appalto, la presentazione della dichiarazione IVA contenente dati inesatti in violazione dell’art. 28 Dpr n. 633/72, la indebita detrazione di IVA relativa a varie fatture emesse con riferimento alla cessione di prodotti ai quali era stato attribuito un valore superiore a quello di mercato (soprafatturazione).
Entrambi i gradi del giudizio introdotto avanti le Commissione tributarie dalla società avverso l’avviso di rettifica volto al recupero della imposta evasa ed al provvedimento irrogativo di sanzioni pecuniarie, emessi dall’Ufficio IVA di Ferrara, si risolvevano a favore della contribuente. In particolare la Commissione tributaria della regione Emilia-Romagna con sentenza 14.6.2007 n. 46 rigettava l’appello dell’Ufficio finanziario rilevando:
– che la società aveva giustificato la differenza tra i capi di bestiame rinvenuti nella azienda e quelli risultanti dalle fatture di vendita e dalle giacenze di magazzino, allegando che parte dei capi non rinvenuti erano stati consegnati ai soccidari e parte erano morti nel periodo oggetto di verifica – che l’Ufficio non aveva controdedotto in merito a tali giustificazioni e non aveva fornito prova dei fatti costitutivi della pretesa tributaria dai contratti di soccida – prodotti dalla società – risultavano tutti i dati necessari per determinare il quantitativo di capi di bestiame inizialmente conferiti dalla cooperativa soccidante, il ciclo produttivo dell’allevamento e la entità dell’accrescimento del bestiame da attribuire al soccidario; inoltre la previsione nei contratti della corresponsione di “acconti” in denaro o natura a favore dei soccidari (sul valore del previsto “accrescimento” del bestiame) non alterava la natura del rapporto negoziale, essendo fatto salvo il conguaglio finale, con la conseguenza che tali operazioni si inscrivevano nella prestazione dovuta dal soccidante (di assegnazione del bestiame o della relativa quota di valore al soccidario) ed erano dunque esenti da IVA – che non essendo i contratti di soccida simulati era infondato il rilievo contenuto nell’avviso di rettifica relativo alla omessa autofatturazione, con conseguente insussistenza anche delle violazioni tributarie contestate con il provvedimento irrogativo, che doveva, pertanto, essere annullato.
Avverso tale sentenza la Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione deducendo sette motivi corredati di quesito di diritto.
Ha resistito la società contribuente con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la Agenzia deduce vizio di omessa ed insufficiente motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. rilevando che i Giudici territoriali avevano inesattamente valutato gli elementi indiziari emergenti dal verbale 13.12.1999 redatto dalla Guardia di Finanza non avvedendosi che nella rilevazione compiuta per accertare la differenza tra i capi di bestiame rinvenuti nell’azienda e quelli risultanti dalle fatture di vendita e dalle scritture contabili di carico e scarico (calcolo effettuato mediante individuazione di un “valore medio” del singolo capo di bestiame, in quanto la società, alla voce contabile “giacenze di magazzino” anziché riportare il dato numerico degli animali, si era limitata ad indicarne soltanto il valore patrimoniale complessivo) i verificatori avevano specificamente tenuto conto anche del dato relativo ai bovini ceduti direttamente ai soccidari nonché ai bovini morti nel periodo di imposta (stralcio del PVC riportato a pag. 4 dell’atto di appello).
2. Con il secondo motivo la sentenza della CTR viene impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 54 Dpr n. 633/72, dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 2722 (recte 2729) c.c., in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.
La Agenzia fiscale critica la sentenza di appello nella parte in cui ha disconosciuto la efficacia della prova presuntiva dotata dei requisiti ex art. 2729 c.c. emersa dalle indagini svolte dai verificatori ed ha comunque ritenuto sfornita di prova la pretesa della Amministrazione finanziaria in quanto non sarebbe stato prodotto in giudizio il testo integrale del verbale di verifica, senza tuttavia tenere conto che al calcolo della differenza quantitativa tra i capi di bovini in giacenza e quelli ceduti – differenza che aveva legittimato la presunzione legale di cessioni effettuate senza emissione di fattura – l’Ufficio era pervenuto mediante individuazione del “valore medio” del singolo capo di bestiame, determinato secondo le indicazioni fomite dallo stesso rappresentante legale della società che rivestivano natura confessoria.
3. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi avendo ad oggetto statuizioni della sentenza afferenti al medesimo rilievo fiscale formulato nell’avviso di rettifica opposto.
3.1 I motivi sono infondati.
3.2 La CTR della Emilia Romagna, diversamente da quanto sembra ipotizzare la ricorrente, non è affatto incorsa in un errore di apprezzamento dei rilievi e dei calcoli del numero dei capi di bestiame effettuati dall’Ufficio finanziario, ma ha invece ritenuto che la differenza quantitativa tra il numero dei capi di bestiame rinvenuti in azienda e quello risultante all’esito dell’accertamento dell’Ufficio (fondato sul valore del bestiame indicato alla voce “giacenze di magazzino” – scritture di carico e scarico – e sulla rilevazione dei dati riportati nelle fatture di vendita), non evidenziasse operazioni imponibili sottratte ad IVA, in quanto trovava adeguata giustificazione nelle prove documentali fomite dalla società cooperativa dalle quali emergeva che il numero di capi bestiame, che non trovava riscontro nelle fatture emesse dalla società, si riferiva ad operazioni non imponibili (per le quali non vi era obbligo di fatturazione) in quanto tutte riconducibili alla esecuzione del contratto di soccida (capi assegnati ai soccidari; capi deceduti nel corso del contratto).
3.3 Occorre considerare, inoltre, che non deve ravvisarsi alcuna contraddittorietà tra l’affermazione contenuta in sentenza, secondo cui la mancata produzione in giudizio del PVC non consentiva al Giudice di appello di verificare la fondatezza della allegazione in fatto dedotta con il motivo di gravame secondo cui “la somma dei capi di bestiame venduti con fattura, e documentato nelle fatture in atti, non corrisponde a quanto rilevato dai verbalizzanti”, e la precedente affermazione, sempre contenuta nella motivazione della sentenza, secondo cui la mancata produzione, anche in grado di appello, da parte della Amministrazione finanziaria di copia integrale del PVC, non impediva comunque “di avere una visione completa delle modalità di verifica”.
La CTR ha inteso, infatti, correttamente distinguere l’attività di allegazione da quella di deduzione probatoria, con la conseguenza che la mera allegazione in fatto – contenuta nell’atto di appello – che i verificatori avevano tenuto conto nel calcolo della differenza quantitativa anche dei bovini ceduti e di quelli morti (cfr. ricorso principale, pag. 8, in cui si dà atto che nell’atto di appello l’Ufficio aveva evidenziato che i verbalizzanti avevano tenuto conto dei “bovini acquistati e venduti come indicato nella documentazione fiscale fornita dalla parte, tenendo inoltre conto sia dei beni ceduti direttamente dalle stalle che di quelli morti”), è stata ritenuta insufficiente, in quanto priva di riscontro documentale (non avendo l’Ufficio prodotto in giudizio il PVC) ed in assenza di altre verifiche istruttorie, a confutare la prova documentale contraria – fornita in giudizio dalla società contribuente – diretta a giustificare la divergenza tra la quantità del bestiame rilevato in giacenza e quella risultante dalle operazioni di cessioni documentate nelle scritture contabili, proprio in base alle operazioni – non imponibili – di cessione del bestiame ai soccidari nonché alla perdita di animali per eventi naturali verificatasi nel corso del rapporto contrattuale.
La censura di legittimità per vizio logico della sentenza impugnata, in quanto dedotta con riferimento ad una mera “allegazione” (come tale sfornita di efficacia probatoria), risulta in conseguenza “ictu oculi” infondata, difettando nella specie la indicazione da parte della Agenzia ricorrente della prova documentale decisiva, ritualmente acquisita al giudizio di merito, che il Giudice territoriale avrebbe omesso di valutare od inesattamente valutato.
3.4 Quanto alle censure dedotte con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 co 1 n. 3) c.p.c., indipendentemente dal rilievo secondo cui risulta logicamente ed oggettivamente incompatibile la contestuale deduzione dell’ “error iuris” (che presuppone una corretta rilevazione e ricostruzione della fattispecie concreta) e dell’ “error facti” (che consiste invece nella errata rilevazione e ricostruzione della fattispecie concreta), e senza tenere conto che il vizio di legittimità denunciato (violazione di norme di diritto) non assurge ad autonoma considerazione (in quanto la prospettata violazione delle norme sul riparto dell’onere probatorio e sulla prova presuntiva è intesa dalla stessa ricorrente – come emerge dalla lettura del motivo – come mero automatico riflesso dello stesso errore di fatto già denunciato con il primo motivo – esaminato dalla Corte – in cui sarebbe incorso il Giudice di merito nella ricostruzione della fattispecie concreta), ebbene, anche a prescindere da tali considerazioni, le indicate censure appaiono tutte infondate. Dalla lettura della sentenza di appello emerge chiaramente, infatti, che la decisione impugnata rinviene la propria “ratio” nella comparazione effettuata dai Giudici di merito tra i diversi elementi probatori acquisiti nel corso della istruttoria, avendo ritenuto la CTR, con apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità:
a) che la prova documentale contraria fornita dalla società era adeguata a superare la presunzione legale dell’art. 53 co 1 Dpr n. 633/72;
b) che di contro mancavano del tutto riscontri probatori alla tesi sostenuta dall’Ufficio secondo cui la società non aveva fornito giustificazioni in ordine alla rilevata differenza quantitativa del bestiame.
Non è dato ravvisare, pertanto, alcuna delle violazioni delle norme di diritto indicate dalla Agenzia ricorrente (art. 2697 c.c.; artt. 2727 e 2729 c.c.), avendo la CTR, da un lato, fatto corretta applicazione delle regole sull’onere probatorio secondo la sequenza progressiva dei fatti dimostrati nel corso della fase istruttoria dalle parti (1-presunzione legale fornita dalla Amministrazione finanziaria, mediante la rilevata difformità del numero dei capi di bestiame; 2-prova contraria dedotta dalla società contribuente, concernente la riconducibilità del dato numerico anomalo dei capi di bestiame ad operazioni non imponibili; 3-difetto della controprova – che gravava sulla PA – diretta a destituire di efficacia la prova contraria della società), dall’altro avendo operato un giudizio di prevalenza della prova fornita dalla società, non inficiata da elementi probatori contrari fomiti dalla Amministrazione, non avendo questa comprovato (mediante produzione in giudizio del PVC o dei verbali delle operazioni di verifica) l’allegazione secondo cui i verbalizzanti avevano tenuto conto nel computo del numero dei capi di bestiame anche delle operazioni non imponibili e degli animali deceduti.
4. Con il terzo motivo si censura la sentenza della CTR per vizi logici della motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. in relazione (almeno così sembra doversi intendere) all’esame degli elementi, individuati nel PVC, ritenuti determinanti ai fini della qualificazione giuridica dei rapporti intercorsi tra la società ed alcuni imprenditori agricoli, formalmente definiti dalle parti come contratti di soccida (esenti da IVA) e che invece – secondo la tesi sostenuta dall’Ufficio – dovevano essere qualificati come contratti di appalto per l’allevamento e lo sfruttamento del bestiame (assoggettati ad IVA).
La Agenzia delle Entrate ritiene che la natura simulata del contratto di soccida debba desumersi dai seguenti elementi:
a) l’art. 4 del contratto stabiliva che le parti procedessero all’inizio di ciascun ciclo produttivo alla stima degli animali indicandone il numero ed il peso: i verbalizzanti avevano invece rilevato che le parti non avevano proceduto a tale stima, in quanto non erano stati indicati con precisione i capi di bestiame da conferire;
b) l’art. 3 del contratto prevedeva che la società cooperativa soccidante determinasse il termine del ciclo produttivo: i verbalizzanti avevano invece accertato che la dura dei cicli non era stata indicata;
c) l’art. 4 del contratto non ricollegava alle operazioni di stima del bestiame l’effetto traslativo della proprietà dei capi che rimaneva pertanto in titolo alla società cooperativa soccidante: secondo l’Ufficio finanziario si era avuta quindi una mera consegna di bestiame al soccidario e non anche un “conferimento” che doveva invece ritenersi ex art. 2170 c.c. requisito essenziale del contratto di soccida, in quanto realizzava la comunanza di scopo, determinando l’acquisto in comunione della proprietà del bestiame;
d) la concessione ai soccidari di “acconti” – in contanti o mediante assegnazione di capi di bestiame – sulla futura ripartizione di utili, anteriormente alla conclusione dei cicli, era da ritenersi incompatibile con il tipo negoziale che prevedeva la distribuzione di utili solo al termine del ciclo di attività di allevamento;
e) la società soccidante aveva ricevuto “da alcuni soccidari fatture passive afferenti alle prestazioni di servizi riconducibili al lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame, e tale circostanza era da ritenersi incompatibile con l’assenza di prestazioni corrispettive che caratterizzava il contratto associativo volto esclusivamente alla ripartizione degli utili.
5. Con il quarto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2170, 2178 e 2181 c.c. in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c. in quanto la CTR, ritenendo compatibile con la struttura del negozio di soccida il “versamento di acconti”, non avrebbe considerato che, in difetto di preventiva stima del bestiame conferito ed in difetto di predeterminazione del ciclo di allevamento, tali acconti non erano imputabili in conto utili ma dovevano qualificarsi come veri e propri anticipi del corrispettivo pattuito per la esecuzione da parte dei “soccidari” di prestazioni di custodia ed allevamento di animali inquadrabili nello schema del contratto di appalto.
6. Il quarto motivo va esaminato congiuntamente al terzo in quanto entrambi rivolti a contestare la valutazione e qualificazione giuridica degli elementi circostanziali indicati dalla Agenzia fiscale a sostegno della tesi della natura simulata del contratto di soccida e dell’assoggettamento ad IVA delle prestazioni di appalto di servizi.
6.1 II terzo ed il quarto motivo sono infondati.
6.2 I primi due elementi circostanziali sopra indicati (cfr. indicati al paragr. 4 sub lett. a), b), e concernenti la stima del bestiame e la fissazione del termine del ciclo produttivo), diversamente da quanto ipotizzato dalla Agenzia fiscale, sono stati puntualmente presi in considerazione dai Giudici territoriali i quali, all’esito dell’esame del contenuto delle disposizioni contrattuali e dei patti modificativi successivi “debitamente sottoscritti”, nonché dell’esame degli “atti di liquidazione a favore dei soccidari”, hanno ritenuto che fossero stati sufficientemente indicati “gli animali conferiti dalla soccidante, i criteri per la determinazione del ciclo produttivo di riferimento e dell’accrescimento da riconoscere al soccidario”.
In relazione a tale accertamento in fatto, compiuto dalla CTR alla stregua dei documenti prodotti in giudizio, la Agenzia fiscale, denunciando il vizio di illogicità motivazionale, ha omesso del tutto di indicare i mezzi di prova – ritualmente acquisiti nei gradi di merito – pretermessi od erroneamente valutati dai Giudici territoriali che avrebbero determinato una diversa ricostruzione della fattispecie negoziale, ed in ogni caso ha omesso del tutto di individuare, con riferimento alle relative disposizioni contrattuali, l’errore logico in cui sarebbe incorsa la CTR nella rilevazione ed interpretazione del contenuto dei documenti negoziali indicati (“contratti”; “patti modificativi”; “atti di liquidazione”), limitandosi invece a contrapporre semplicemente all’accertamento in fatto dei Giudici di merito una propria soggettiva ricostruzione del rapporto negoziale, mutuata dagli accertamenti svolti dai verbalizzanti, senza neppure specificare se il PVC od i relativi allegati o comunque stralci di tali documenti fossero stati acquisiti nel corso della fase istruttoria e sottoposti all’esame della CTR.
Orbene è affermazione consolidata di questa Corte che il vizio di motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. deve essere supportato dalla indicazione specifica della prova omessa od inesattamente valutata dal Giudice di merito, con l’ulteriore requisito della decisività – necessario alla ammissibilità del ricorso – nel senso che, ove detta prova fosse stata correttamente considerata, avrebbe determinato con certezza un esito del giudizio favorevole alla parte ricorrente (cfr. Corte cass. IlI sez. 7.7.2005 n. 14304): l’ammissibilità del ricorso fondato sul vizio motivazionale, presuppone, pertanto, che la parte ricorrente denunci in modo specifico le ragioni di inesistenza della coerenza che deve sussistere tra il convincimento del giudice e le fonti probatorie acquisite ritualmente al giudizio (cfr. Corte cass. sez. lav. 22.7.2004 n. 13747). Orbene in difetto della indicazione della rituale acquisizione al giudizio della prova documentale in questione, non può quindi assolvere al requisito di decisività della prova richiesto dall’art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. il mero riferimento – contenuto a pag. 19 ricorso – al “fg. 23 del PVC” dal quale sarebbe data evincere la prova che “non sono stati indicati con precisione i capi di bestiame da conferire” e dunque che il rapporto costituito tra le parti non sarebbe riconducibile allo schema della soccida.
Qualora poi la Agenzia avesse inteso, invece, denunciare l’errore percettivo del Giudice di merito – il quale, travisando il contenuto dei documenti negoziali depositati in giudizio, avrebbe falsamente rilevato la indicazione del numero dei capi di bestiame, della durata dei cicli produttivi e dei criteri di ripartizione degli utili derivanti dall’accrescimento, allora il motivo si paleserebbe egualmente inammissibile in quanto diretto a far valere, non un vizio di legittimità, ma un errore di fatto revocatorio.
6.3 Quanto agli altri elementi circostanziali (cfr. paragr.4 sub lett. c), d) ed e); paragr. 5) ritenuti dalla Agenzia fiscale sintomatici della simulazione negoziale (ovvero dimostrativi della esistenza di un contratto di appalto di servizi) occorre considerare quanto segue:
– privo di pregio deve ritenersi l’argomento secondo cui la disposizione dell’art. 4 dei contratti di soccida, non riconducendo alla “stima” del bestiame effetti traslativi della proprietà, risulterebbe incompatibile con la “comunione proprietaria del bestiame” che si realizzerebbe, invece, con il “conferimento” degli animali: premesso che il “conferimento” del bestiame contraddistingue il contratto di soccida in tutti i suoi diversi sottotipi negoziali (soccida “semplice”, ex art. 2171 c.c. in cui il bestiame è conferito dal soccidante; soccida “pantana” ex art. 2182 c.c. in cui il bestiame è conferito “da entrambi i contraenti nelle proporzioni convenute”; soccida “con conferimento di pascolo” ex art. 2186 c.c. in cui il bestiame è conferito dal soccidario mentre il soccidante conferisce il terreno per il pascolo), rileva il Collegio che, diversamente da quanto affermato dalla ricorrente, il conferimento non determina – tranne nel caso della soccida parziaria e del contratto misto di soccida parziaria con conferimento di pascolo – sempre e comunque la insorgenza di una comunione sul bestiame tra soccidante e soccidario: come infatti si desume chiaramente dall’art. 2171 co 2 c.c., richiamato anche dall’art. 2186 co 3 c.c., nella “soccida semplice” e nella “soccida con conferimento di pascolo”, la “stima” del bestiame conferito “non ne trasferisce la proprietà”. Avuto riguardo, pertanto, agli elementi normativi della fattispecie negoziale in esame, deve escludersi una equivalenza tra la nozione di “conferimento del bestiame” e quella di “trasferimento della proprietà” dei singoli capi conferiti, venendosi a realizzare la “comunione di scopo” che costituisce elemento tipico del contratto associativo, non attraverso l’acquisto della comune proprietà degli animali, ma mediante l’effettivo svolgimento di un’attività economica in comune (inquadrabile nell’esercizio di attività agricola ex art. 2135 c.c.) volta all’allevamento e sfruttamento degli animali, al fine di “ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti ed utili che ne derivano” (artt. 2170 co 1, 2178 e 2181 c.c.).
– la attribuzione di “acconti sull’accrescimento”, salvo conguaglio al termine del contratto o del ciclo di accrescimento, introduce nel contratto di soccida un elemento previsionale che, diversamente da quanto sostenuto dalla Agenzia fiscale, non altera la funzione economico-sociale del tipo negoziale: i Giudici di merito hanno, infatti, correttamente accertato la compatibilità con lo schema negoziale della soccida degli anticipi in denaro o natura, in quanto tale “modus operandi” non pregiudicava la successiva applicazione del criterio di prelevamento e di ripartizione degli utili stabilito dagli artt. 2178 e 2181 c.c.: la tesi della Agenzia ricorrente si fonda, infatti, sul rilievo per cui, soltanto al termine del contratto (o del ciclo di allevamento stabilito dalle parti), sarebbe possibile il raffronto tra la stima iniziale e la stima finale del bestiame. Tale considerazione, in astratto logicamente condivisibile, non appare tuttavia decisiva, in quanto la esigenza di una verifica finale non comporta “ex se” un impedimento economico o giuridico alla pattuizione di “anticipi”, laddove le parti contraenti si riservino, comunque, in sede di conguaglio finale, di operare la “definitiva” attribuzione delle quote di utili a ciascuna di esse spettanti nonché di ripartire le quote delle spese da ciascuna sostenute.
Occorre considerare al riguardo – come questa Corte ha precisato – che nella soccida, quale contratto a struttura associativa qualificato dalla comunanza di scopo, la ripartizione dell’accrescimento del bestiame e degli altri prodotti e utili, prevista dall’art. 2170 cod. civ., rappresenta solo il normale bilanciamento economico dei rispettivi interessi, sicché le parti “possono, nella loro autonomia, stabilire un diverso regime senza alterare la natura associativa del rapporto” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5613 del 08/06/1999: nella specie le parti avevano concordato che l’accrescimento e i prodotti stessi spettassero interamente al soccidario, restando invece di spettanza del soccidante ogni pubblica contribuzione finalizzata all’allevamento del bestiame).
La infondatezza della pretesa assoluta inconciliabilità del sistema del versamento di acconti – a valere sul conguaglio finale – con lo schema negoziale tipico della soccida, emerge peraltro dallo stesso “quesito di diritto”, formulato ex art. 366 bis c.p.c. in calce al quarto motivo (con il quale è stato dedotto il vizio di violazione delle norme codicistiche che disciplinano il contratto di soccida), laddove la Agenzia ricorrente ha inteso riferire la “incompatibilità” degli acconti corrisposti ai soccidari, non alla struttura dello schema negoziale codicistico, quanto piuttosto alla peculiare fattispecie concreta in cui – secondo la parte ricorrente – difetterebbe “La stima degli animali conferiti” e la “predeterminazione del ciclo di allevamento”, elementi contrattuali che, al contrario, il Giudice di merito ha ritenuto di poter rilevare dalle risultanze probatorie emerse dalla istruttoria, con la conseguenza che la censura viene ad essere fondata su un presupposto di fatto – e non su una questione di diritto – del tutto indimostrato ed anzi smentito dall’accertamento in concreto compiuto dal Giudice di merito – quanto all’elemento indiziario concernente la ricezione da parte di Co.pro.zoo. di “fatture passive afferenti prestazioni di servizi” emesse “da alcuni soccidari” la censura si palesa inammissibile in quanto l’Agenzia ricorrente omette del tutto di individuare le fatture emesse, e soprattutto di specificare e descrivere “quali” servizi siano stati in concreto prestati dai soccidari, limitandosi ad una apodittica (ed indimostrata) affermazione che detti servizi erano “riconducibili al lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame”, impedendo in tal modo a questa Corte di verificare in limine la stessa congruità e decisività della censura prospettata, non potendo escludersi che tra la predetta società cooperativa ed i soci agricoltori siano intercorsi ulteriori rapporti, distinti dal rapporto di soccida.
7. Con il quinto motivo la Agenzia delle Entrate censura la sentenza di appello per vizio di violazione e falsa applicazione della VI direttiva n. 77/388/CEE, dell’art. 37 bis Dpr n. 600/1973, dell’art. 39 Dpr n. 600/1973 dell’art. 1325 co 1 n. 2 c.c., nonché dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 2722 c.c., in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.
La ricorrente introduce, per la prima volta nel giudizio di legittimità, l’ulteriore questione – non contenuta tra le ragioni in diritto indicate a supporto della pretesa tributaria nell’avviso di rettifica e che si pone peraltro in relazione di manifesta esclusione alternativa con i precedenti motivi di ricorso – della “finalità abusiva” del negozio giuridico di soccida, concluso dalla società cooperativa con i soci, trattandosi di contratto che sarebbe stato stipulato esclusivamente al fine di conseguire un risparmio (recte una esenzione) d’imposta.
7.1 II motivo – che non può ritenersi precluso dal divieto di “jus novorum”, in quanto la violazione del diritto comunitario, che non sia stata oggetto di accertamento nei precedenti gradi di merito è rilevabile ex officio anche dal Giudice di legittimità – è inammissibile.
7.2 La ricorrente si è limitata ad una digressione sulla evoluzione dell’istituto dell’abuso del diritto di elaborazione comunitaria (in relazione ai tributi armonizzati, qual è l’IVA) e successivamente accolto anche dall’ordinamento statale (in relazione alle imposte sui redditi: art. 37 bis Dpr n. 600/1973), senza tuttavia fornire gli elementi circostanziali e le ragioni di diritto secondo cui lo schema negoziale della soccida adottato dai contraenti era volto esclusivamente al conseguimento di un risparmio d’imposta e non, invece, giustificato dalle ragioni economiche sottese alla causa tipica del contratto.
Palese è la confusione in cui cade la Agenzia ricorrente ove, per supportare la tesi del l’abuso del diritto, ripropone il medesimo argomento della simulazione negoziale posto a base dei precedenti motivi di ricorso, allegando nuovamente tutti gli elementi ritenuti sintomatici della diversa qualificazione giuridica del rapporto obbligatorio tra la società cooperativa ed i singoli allevatori – rilievi già formulati nel verbale di verifica – che vengono ora prospettati come “punti di anormalità rispetto al modello tipico della soccida previsto dal codice civile”.
La costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, esclude dalla nozione di abuso del diritto in materia tributaria le ipotesi di condotte illecite fraudolente od anche soltanto simulatorie, iscrivendo invece il fenomeno nell’ambito delle sole condotte lecite (idest: non violati ve di prescrizioni normative) e non occulte (essendo realmente diretta la volontà dei contraenti “abusivi” alla produzione degli effetti giuridici previsti dalla legge), che consentono di perseguire legalmente il risultato finale previsto, attraverso ad esempio l’uso indiretto del negozio od il collegamento negoziale od anche eventuali deroghe negoziali allo schema tipico dei contratti o commistioni tra discipline negoziali differenti (che collocano il rapporto nella sfera dei negozi atipici o misti rimessi all’esercizio della autonomia privata) od ancora il frazionamento in autonomi contratti di prestazioni unitariamente riconducibili ad un medesimo schema negoziale tipico, ed inoltre ravvisando il connotato della abusività della condotta nel risultato finale – da valutarsi secondo un criterio oggettivo – elusivo della imposizione fiscale, ottenuto all’esito dell’operazione negoziale, risultato che viene raggiunto dalle parti evitando che la operazione economica venga ad integrare il fatto giuridicamente rilevante che la norma impositiva assume a presupposto d’imposta.
7.3 Orbene gli indici sintomatici ai quali, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, occorre attingere per la dimostrazione della abusività della condotta, non vanno ricercati nella causa (funzione economico-sociale) o negli effetti giuridici del negozio o della complessa operazione negoziale (diretti a disciplinare il regolamento di interessi voluto dalle parti), ma debbono essere ricercati nel limite imposto dalla convenienza economica della operazione, nel senso che, data la peculiare situazione economico-patrimoniale ed il tipo di organizzazione aziendale o societaria del soggetto, rilevate “ex ante” rispetto alla operazione economica da compiere, detto limite è rispettato se la modifica di tale situazione – mediante l’attività negoziale posta in essere – appare rispondente a logiche di mercato ed in ultima analisi ai principi di economicità della gestione: ove tali requisiti di economicità (che possono essere individuati anche in modifiche di tipo organizzativo od aziendale in quanto volte a realizzare miglioramenti nella efficienza della attività od a rendere maggiormente competitiva la impresa) non siano, invece, rinvenibili nella operazione realizzata, ma la fattispecie negoziale posta in essere consenta, comunque, di realizzare, mediante una diversa allocazione delle risorse economico-patrimoniali preesistenti, un trattamento fiscale più favorevole, allora la duplice combinazione di tali elementi (carente giustificazione economica della operazione; realizzazione di un risparmio fiscale) consente di pervenire a qualificare la operazione come “abuso di diritto” in quanto diretta “esclusivamente” ad impedire la verificazione del presupposto d’imposta (cfr. Corte cass. V sez. 4.10.2006 n. 21371; id. V sez. 21.4.2008 n. 10257; id. V sez. 19.5.2010 n. 12249; id. V sez. 21.1.2011 n. 1372; id. V sez. 20.10.2011 n. 21782).
7.4 Tanto premesso gli elementi indicati dalla Agenzia fiscale a dimostrazione dell’abuso di diritto, gravando su quest’ultima l’onere della relativa prova (cfr. Corte cass. V sez. 17.10.2008 n. 25374 secondo cui “l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica incombe sull’Amministrazione finanziaria, la quale non potrà limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta; id. V sez. 21.1.2009 n. 1465; id. V sez. 22.9.2010 n. 20029; id. V sez. 30.11.2012 n. 21390) hanno trovato smentita nell’accertamento in fatto compiuto dalla CTR (stima degli animali; termine di conclusione del contratto), ovvero appaiono inconferenti (erogazione di anticipi ai soccidari), o ancora risultano privi di riscontro probatorio (fatture per servizi incompatibili con il rapporto di soccida), dovendo in conseguenza ritenersi infondato anche tale motivo di ricorso.
8. Con il sesto motivo la Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 36 e 55 Dlgs n. 546/1992, degli artt. 112 e 277 c.p.c., richiamati dall’art. 1 Dlgs n. 546/92, in relazione all’art. 360 co 1 n. 4 c.p.c., avendo omesso i Giudici di appello di esaminare l’ulteriore motivo di gravame con il quale veniva impugnata la statuizione della sentenza della CTP che aveva ritenuto infondato, sull’asserita erronea considerazione della natura sanzionatoria dell’art. 41 Dpr n. 633/72, il recupero dell’lVA dovuta sulle operazioni imponibili passive concernenti le prestazioni corrispettive ricevute dalla società cooperativa in esecuzione dei contratti di appalto dissimulati dalla soccida.
8.1 La criptica esposizione del motivo richiede un preliminare chiarimento.
La ricorrente non specifica quale fosse il contenuto delle prestazioni non fatturate, rimanendo incerto se la contestazione sia rivolta alla esecuzione di prestazioni ulteriori ed extracontratto rispetto al rapporto di soccida (a pag. 7 ricorso si afferma che “dodici soccidari” avevano omesso di emettere fatture, ma tale rilievo evidentemente non collima con il regime fiscale di esenzione IVA delle prestazioni rese nell’ambito del contratto di soccida) ovvero se, invece, la contestazione di omessa fatturazione derivi quale necessitata conseguenza della diversa qualificazione giuridica di “appalto servizi” attribuita dalla Amministrazione finanziaria al rapporto di soccida – asseritamente simulato – intercorso tra società cooperativa e soci (i “dodici soccidari”, quindi, non sarebbero tali ma dovrebbero essere ritenuti piuttosto “soci – appaltatori” ed in quanto tali erano tenuti ad emettere fattura per le prestazioni rese alla società-committente).
In ogni caso, da quanto è dato comprendere, l’Ufficio finanziario avrebbe inteso applicare alla società cooperativa la sanzione originariamente prevista dall’art. 41 Dpr n. 633/1972 – nel testo anteriore alla riforma del sistema dell’illecito tributario del 1997 – per inadempimento dell’obbligo di autofatturazione.
Al riguardo occorre premettere che l’art. 41 predetto (nel testo in vigore <ratione temporis>, anteriore all’intervento abrogativo e sostitutivo operato dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471) era collocato nel titolo III “Sanzioni” del Dpr n. 633/1972 e puniva, tra l’altro, il cessionario di beni o committente di servizi per l’illecito tributario consistente nella omessa regolarizzazione fiscale della operazione mediante autofatturazione, con “le pene pecuniarie previste dai primi tre commi, oltre al pagamento della imposta ” (comma 6).
Dalla lettura dello stralcio della motivazione della decisione della CTP impugnata (ricorso pag. 7), emerge che il Giudice di prime cure aveva ritenuto di escludere la fondatezza della pretesa sanzionatoria estesa anche all’ammontare della imposta, in quanto L’art. 6 comma 8 del Dlgs n. n. 471/1997 (entrato in vigore dall’ 1.4.1998), a differenza dell’art. 41 del Dpr n. 633/72 (abrogato dall’art. 16 del Dlgs n. 471/1997), si limitava a comminare esclusivamente la sanzione pecuniaria, senza più prevedere anche l’obbligo di versamento della relativa imposta, ed il Giudice di prime cure aveva quindi ritenuto applicabile il principio del “favor rei” di cui agli artt. 2 e 3 Dlgs n. 472/1997.
La Agenzia fiscale aveva impugnato tale statuizione, in grado di appello, sostenendo che la estensione al cessionario/committente dell’obbligo di pagamento della imposta era disposizione priva di carattere sanzionatorio ed alla quale non poteva pertanto applicarsi il principio della norma sanzionatoria più favorevole stabilito in materia di illeciti tributari dall’art. 3 comma 3 del Dlgs n. 472/1997.
Tale motivo di gravame non ha costituito oggetto di specifico esame da parte della CTR che, statuendo sulla illegittimità della pretesa impositiva fatta valere dalla PA con l’avviso di rettifica opposto ha ritenuto che “conseguentemente l’atto di contestazione delle sanzioni diventa anch ’esso infondato non sussistendo a parere della Commissione le violazioni sanzionate”.
8.2 Tanto premesso osserva il Collegio che la censura di nullità processuale per violazione dell’obbligo di pronuncia su tutta la domanda, si palesa manifestamente inammissibile in quanto il Giudice di merito, una volta accertata la insussistenza della simulazione del contratto di soccida e la infondatezza della pretesa tributaria, correttamente ha ritenuto superfluo esaminare anche l’ulteriore motivo di gravame relativo alla asserita inapplicabilità del principio del “favor rei”, in quanto la pretesa sanzionatoria doveva, evidentemente, intendersi implicitamente disattesa per essere venuto meno lo stesso presupposto impositivo cui si ricollegava la violazione dell’obbligo di autofatturazione.
Sul punto il Giudice di merito – diversamente da quanto prospettato dalla Agenzia ricorrente – ha reso implicita pronuncia, non essendo pertanto configurabile il vizio processuale denunciato, dovendo ribadirsi il principio affermato da questa Corte secondo cui “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia” (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 16788 del 21/07/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 5351 del 08/03/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 10636 del 09/05/2007; id. Sez. 2, Sentenza n. 20311 del 04/10/2011).
8.3 Qualora poi la critica formulata con il sesto motivo di ricorso dovesse, invece, interpretarsi come riferita alla omessa pronuncia della CTR sul motivo di gravame con il quale l’Ufficio finanziario riteneva di affermare l’assoggettamento della società cooperativa, non alla sanzione pecuniaria, ma all’autonoma obbligazione tributaria che insorgerebbe a carico del cessionario/committente in caso di omessa auto-fatturazione, secondo la peculiare interpretazione della disposizione del comma 6 dell’art. 41 Dpr n. 633/1972 proposta dall’Amministrazione finanziaria (volta a distinguere, nel l’ambito di tale disposizione, la comminatoria della sanzione e l’obbligo di versamento della imposta), premesso che la omessa pronuncia sul punto, da parte della CTR, non impedisce alla Corte di pronunciarsi sul motivo di gravame attenendo a questione di mero diritto, osserva il Collegio che il motivo si paleserebbe del tutto infondato.
8.4 Premesso che l’art. 41 del Dpr n. 633/72 è stato abrogato dall’art. 16 del Dlgs 18.12.1997 n. 471, a decorrere dall’1.4.1998, e che l’art. 6 del medesimo Dlgs n. 471/1997, comma 8, lett. a) pur prevedendo – fin dalla sua originaria formulazione, analogamente al previgente art. 41 comma 6 lett. a) del Dpr n. 633/1972, che in caso di omessa fatturazione il cessionario/committente deve presentare un documento sostitutivo (con le indicazioni richieste per la fattura) “previo pagamento della imposta” (cfr. art. 6 co 8 Dlgs n. 471/1997: “Il cessionario o il committente che, nell’esercizio di imprese, arti o professioni, abbia acquistato beni o servizi senza che sia stata emessa fattura nei termini di legge o con emissione di fattura irregolare da parte dell’altro contraente, è punito, salva la responsabilità del cedente o del commissionario, con sanzione amministrativa pari al quindici per cento del corrispettivo, con un minimo di lire cinquecentomila, semprechè non provveda a regolarizzare l’operazione con le seguenti modalità a) se non ha ricevuto la fattura, entro quattro mesi dalla data di effettuazione dell’operazione, presentando all’ufficio competente nei suoi confronti, previo pagamento dell’imposta, entro il trentesimo giorno successivo, un documento in duplice esemplare dal quale risultino le indicazioni prescritte dall’articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, relativo alla fatturazione delle operazioni;”), non riproduceva più nel caso di inosservanza dell’obbligo di regolarizzazione (e cioè nel caso di mancata emissione del documento sostitutivo, previo pagamento della imposta) la comminatoria del pagamento di una somma pari all’ammontare della imposta oltre alle pene pecuniarie, limitando invece l’intervento repressivo alla applicazione della sola sanzione pecuniaria, ebbene tutto ciò premesso, diversamente da quanto opinato dalla Agenzia ricorrente, la disposizione dell’art. 41 Dpr n. 633/72, al pari di quella dell’art. 6 Dlgs n. 471/97, non introduce alcuna modifica alla struttura del rapporto tributario ed al fatto generatore della obbligazione relativa all’IVA, come disciplinati dalla sesta direttiva CEE e dal Dpr n. 633/72, ed in particolare non individua affatto un nuovo soggetto passivo d’imposta (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 10512 del 23/04/2008 secondo cui “tra il cedente ed il cessionario di beni, qualora non sia stata emessa resolare fattura, non sussiste alcuna solidarietà nei confronti dell’erario per il pagamento dell’IVA dovuta sulla cessione”), ma si limita soltanto a prevedere le condizioni di non punibilità del cessionario/committente che abbia effettuato operazioni imponibili senza ricevere la fattura o ricevendo una fattura irregolare (dal cedente commissionario), comminando una misura pecuniaria, con funzione punitiva-repressiva, in caso di violazione dell’obbligo di regolarizzazione.
Come ripetutamente affermato da questa Corte di legittimità l’art. 41 Dpr n. 633/1972 era, infatti, da considerarsi “norma sanzionatola” che prevedeva come misura repressiva una sanzione che cumulava “quoad poenam” l’importo delle pene pecuniarie ed un ulteriore importo corrispondente alla imposta od alla maggiore imposta non fatturata (cfr. Corte cass. V sez. 10.3.2005 n. 5268; id. SU 27.12.2010 n. 26126; id. V sez. 12.12.2011 n. 26513).
8.5 Ne segue che in alcun caso potrebbe essere preteso dal cessionario/committente, per omessa auto-fatturazione, il pagamento della imposta evasa dal cedente/commissionario in quanto:
– ove si facesse questione, con la censura in esame, dell’applicazione della sanzione pecuniaria nella originaria forma prevista dall’art. 41 comma 6 Dpr n. 633/72, in relazione a fatti anteriori alla intervenuta abrogazione della norma, la statuizione della CTP impugnata con il motivo di gravame pretermesso dai Giudici di appello, dovrebbe ritenersi esente da vizi, in quanto conforme al principio enunciato da questa Corte secondo cui la sanzione irrogata non poteva comprendere anche il maggiore importo corrispondente alla imposta, in applicazione del principio del “favor rei”, avuto riguardo al migliore trattamento sanzionatorio riservato per il medesimo illecito al contribuente dalla legge successiva (cfr. Corte cass. V sez. 10.3.2005 n. 5268; id. V sez. 13.6.2005 n. 12678; id. V sez. 18.6.2008 n. 16490; id. V sez. 2.7.2009 n. 15538; id. SU 27.12.2010 n. 26126) – ove, invece, il motivo di gravame pretermesso dalla CTR dovesse riferirsi ad un ipotetico “autonomo” obbligo del cessionario/committente al pagamento della imposta (relativa alla operazione non fatturata dal cedente/commissionario), il motivo dovrebbe allora rigettarsi in quanto manifestamente infondato nel merito: a) non essendo dato desumere dal senso della disposizione dell’art. 41 comma 6 Dpr n. 633/72, secondo il significato fatto palese dalle parole del testo ed avuto riguardo anche alla inequivoca collocazione sistematica della norma nel Titolo III del decreto presidenziale concernente la disciplina delle “Sanzioni”, che la norma abbia inteso prevedere un presupposto impositivo (omessa auto-fatturazione) ulteriore e diverso rispetto a quello (cessione di beni e prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di attività economica) che giustifica razionalmente l’imposta sugli affari (IVA) in quanto conforme al principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost., ulteriore presupposto che non trova, peraltro, alcun fondamento nelle norme di diritto comunitario, risultando in conseguenza manifestamente infondata la pretesa tributaria volta a far valere una inesistente ipotesi di “coobbligazione solidale” nel debito IVA della società cooperativa “committente”, in quanto rivolta nei confronti di soggetto diverso dal cedente o commissionario (nella specie gli asseriti appaltatori del servizio di allevamento) cui soltanto spetta la qualifica di soggetto passivo d’imposta ai fini IVA; b) fondandosi la tesi interpretativa della Amministrazione finanziaria su un presupposto fattuale (obbligo di auto-fatturazione della Coprozoo per mancata emissione delle fatture da parte dei soci-soccidari per le prestazioni rese alla società cooperativa, in quanto riferibili ad un rapporto di appalto di servizi dissimulato dai contratti di soccida) che ha ricevuto ampia smentita nella decisione di merito da ritenersi, come visto, esente dai vizi di legittimità denunciati con i motivi di ricorso per cassazione già esaminati e ritenuti inammissibili o infondati dal Collegio.
9. Con il settimo motivo la Agenzia ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 36 e 55 DIgs n. 546/1992, degli artt. 112 e 277 c.p.c., richiamati dall’art. 1 Dlgs n. 546/92 in relazione all’art. 360 co 1 n. 4) c.p.c., avendo omesso i Giudici di appello di esaminare il motivo di gravame con il quale si censurava la sentenza di prime cure nella parte in cui aveva escluso la “soprafatturazione” dei prodotti ceduti alla cooperativa dai soci sul presupposto che la maggiore remunerazione offerta ai soci rientrava nello scopo mutualistico in quanto consentiva ai soci di ridurre i costi di vendita che altrimenti avrebbero dovuto sostenere (per intermediazione), nonché in base alla considerazione che il prezzo indicato in fattura era stato effettivamente corrisposto ai soci con assolvimento della relativa imposta.
9.1 Sostiene la Agenzia ricorrente che i prodotti conferiti dai soci (mais ceroso, paglia e fieno), rilevati dal libro degli inventari, erano stato remunerati, come confermato dalla stessa società cooperativa, a prezzi maggiori di quelli correnti di mercato (mais ceroso: lire 32.067 rispetto a lire 7.581,53) e che i maggiori importi corrisposti, definiti dalla società come “ristorar, erano “coincidenti con il risultato positivo conseguito dalla cooperativa nell’anno cui ci si riferisce, ripartito tra i soci in proporzione alle quantità di materie prime rispettivamente conferite”, con la conseguenza che l’importo indicato in fattura non rispecchiava in alcun modo il valore del prodotto, venendo a tradursi nella distribuzione tra i soci del “vantaggio mutualistico” conseguito al termine di ogni esercizio.
9.2 La CTR ha omesso del tutto di esaminare il motivo di gravame in questione, attinente ad un capo autonomo della sentenza di prime cure e ad uno specifico rilievo fiscale (recupero indebita detrazione IVA) mosso con l’avviso di rettifica, incorrendo pertanto nel vizio di nullità processuale censurato.
Tuttavia il vizio processuale riscontrato non determina il rinvio della causa al Giudice di merito, non essendo impedito alla Corte – in conformità al principio di economica processuale di ragionevole durata dei processi ex art. 111 Cost. – di procedere direttamente all’esame del merito della domanda o della eccezione pretermessa nel caso in cui, come nella specie, non occorra procedere ad ulteriori accertamenti in fatto.
9.3 Tanto premesso il motivo si palesa inammissibile, per difetto di specificità, ed è comunque infondato.
9.4 L’assunto teorico della Agenzia fiscale si compendia nella equivalenza tra “soprafatturazione” (dei beni ceduti alla cooperativa dai soci-produttori agricoli) ed indebita detrazione IVA effettuata dalla società cooperativa cessionaria.
A quanto è dato comprendere dal ricorso il carattere indebito della detrazione sarebbe determinato dalla mancanza di corrispondenza tra ammontare del corrispettivo fatturato (sul quale è liquidato l’importo dell’IVA) e valore di mercato del bene ceduto.
L’Agenzia tuttavia, anche nel laconico quesito di diritto formulato in calce al motivo, non chiarisce se la sopravvalutazione delle materie prime sia o meno rifluita anche nella determinazione del prezzo al quale la società cooperativa ha ceduto tali prodotti sul mercato.
In difetto di tale chiarimento non è dato verificare se nel caso di specie sia venuto meno lo scopo mutualistico, e più specificamente se la maggior valutazione dei beni che la cooperativa ha acquistato dai soci sottenda anziché l’attribuzione di un regolare “ristorno” (inteso come distribuzione del vantaggio mutualistico ottenuto dalla cooperativa mediante gli scambi intrattenuti con i terzi sul mercato) un guadagno per i soci ben superiore al predetto vantaggio mutualistico, tale da configurare un abnorme profitto che il produttore agricolo (socio) non avrebbe potuto, neppure in ipotesi, realizzare attraverso l’esercizio in forma organizzata di un’attività commerciale conformata allo scopo di lucro.
9.5 Lo scopo mutualistico, infatti, è diretto, nelle cooperative di produzione, a ridurre i costi di vendita cui andrebbero incontro i singoli produttori, ma non per questo legittima anche una gestione dell’attività societaria, qual è anche quella svolta dalle cooperative, in contrasto con i principi di efficienza e conservazione della impresa ai quali evidentemente non si possono sottrarre gli organi societari (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 9513 del 08/09/1999; id. Sez. 1, Sentenza n. 16558 del 14/07/2010): l’esercizio dell’attività da parte della società cooperativa, non può pertanto prescindere dal principio di economicità della gestione.
Tuttavia nel caso di specie tale antieconomicità nella gestione di impresa non è stata neppure allegata dalla Agenzia fiscale: non risulta infatti accertato dai verbalizzanti che la società cooperativa abbia agito in perdita nel corso dell’esercizio, ovvero che siano emerse anomalie nella situazione economico-finanziaria della cooperativa o ancora condotte incongruenti nella offerta dei prodotti sul mercato a prezzi inferiori a quelli praticati – al netto dei ristorni – ai soci (ovvero che la quota di ammontare concernente il ristorno, attribuita ai singoli soci, ecceda l’ammontare complessivo dei ricavi conseguiti dalla cooperativa dall’attività di vendita dei prodotti).
Ne segue che difettano del tutto gli elementi indiziari minimi per poter disconoscere, nella specie, al maggior prezzo praticato ai soci, la natura di “ristorno” legittimamente erogato dalla cooperativa.
Occorre rilevare in proposito che il “ristorno” non si identifica negli utili di gestione, in quanto “pur avendo con essi in comune la caratteristica della aleatorietà (in quanto la società può distribuirli solo se la gestione mutualistica dell’impresa si chiuda con un’eccedenza dei ricavi rispetto ai costi)”, come precisato da Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 9513 in data 8/9/1999, “gli utili costituiscono remunerazione del capitale e sono perciò distribuiti in proporzione al capitale conferito da ciascun socio, i “ristorni” costituiscono uno degli strumenti tecnici per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico (risparmio di spesa o maggiore retribuzione) derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa, traducendosi in un rimborso ai soci di parte del prezzo pagato per i beni o servizi acquistati dalla cooperativa (nel caso delle cooperativa di consumo), ovvero in integrazione della retribuzione corrisposta dalla cooperativa per le prestazioni del socio (nel caso di cooperative di produzione o di lavoro)”.
Il “ristorno” (che ha ricevuto espressa disciplina nell’art. 2545 sexies c.c., introdotto con la riforma societaria dal Dlgs 17.1.2003 n. 6) deve ritenersi, pertanto, compatibile con lo scopo mutualistico, in quanto il vincolo cooperativo è assunto dal socio proprio in vista della realizzazione di un vantaggio patrimoniale che non è riducibile – come nelle società di capitali – alla quota di capitale investito ma corrisponde, invece, alla soddisfazione di “un comune preesistente bisogno economico (il bisogno del lavoro, il bisogno del bene casa, il bisogno di generi di consumo, di credito, ecc.) e di soddisfarlo conseguendo un risparmio di spesa, per i beni o servizi acquistati o realizzati dalla propria società (cooperative di consumo), o una maggiore retribuzione per i propri beni o servizi alla stessa ceduti (cooperative di produzione e di lavoro)n (Corte cass. n. 9513/1999 cit.).
9.6 Del tutto inconferente, in proposito, è il richiamo operato dalla Agenzia ricorrente al precedente di questa Corte V sez. 20.6.2005 n. 13280 che, in relazione alla agevolazione fiscale concessa dall’art. 10 del Dpr n. 601/1973 (esenzione da IRPEG e ILOR dei redditi conseguiti dalle cooperative agricole e loro consorzi, mediante l’allevamento degli animali con mangimi ottenuti per almeno un quarto dai terreni appartenenti ai soci nonché mediante la manipolazione, conservazione, valorizzazione, trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli e zootecnici e di animali conferiti prevalentemente dai soci), ha statuito che “la conformità degli statuti ai principi legislativi in tema di mutualità comporta una presunzione di spettanza delle agevolazioni ed esenzioni tributaria. Tale presunzione è relativa, non assoluta, e non impedisce all’Amministrazione finanziaria di disconoscere, per ogni singolo periodo di imposta, le agevolazioni suddette, sempreché fondi il suo accertamento su dati concreti, atti a dimostrare che la veste “mutualistica” funge da copertura ad una normale attività imprenditoriale
Indipendentemente dalla oggettiva diversità delle questioni esaminate, rileva il Collegio che il precedente giurisprudenziale invocato dalla ricorrente puntualizza in modo chiaro come la contestazione mossa dall’Ufficio finanziario con l’atto impositivo, ove volta a disconoscere il carattere mutualistico dell’attività in concreto svolta dalla società cooperativa, debba necessariamente fondarsi su elementi probatori idonei ad inficiare la presunzione di corrispondenza tra forma societaria e scopo mutualistico perseguito: e proprio tale carenza probatoria è riscontrabile nel caso di specie atteso che, se il maggior prezzo corrisposto ai soci dalla società cooperativa appare certamente rispondente allo scopo di distribuzione del vantaggio mutualistico, non sono stati, invece, allegati dalla Agenzia fiscale elementi circostanziali volti a dimostrare che i dati indicati in fattura non corrispondessero alla operazione realmente realizzata tra le parti o che il vantaggio attribuito al socio non corrispondesse ai ricavi effettivamente conseguiti dalla società cooperativa mediante la rivendita sul mercato dei prodotti acquistati dai soci.
10. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la Agenzia fiscale soccombente condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in € 1.500,00 per compensi professionali, oltre gli accessori di legge.
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