CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 novembre 2013, n. 24917
Tributi – IVA – Istanza di rimborso accelerato – Indagine penale per frode fiscale riferita al medesimo periodo d’imposta – Sospensione del rimborso
Svolgimento del processo
A seguito di istanze presentate in ciascun semestre 2004 dalla società S. s.r.L. ai sensi dell’art. 38 bis comma 2 del Dpr n. 633/72, per ottenere il rimborso accelerato dell’eccedenza IVA, corredate di polizze fidejussorie, stipulate dalla contribuente con primarie società assicurative, a garanzia della eventuale restituzione degli importi chiesti a rimborso, l’Ufficio di Piacenza della Agenzia delle Entrate autorizzava la erogazione dei rimborsi con provvedimenti del 30 novembre e del 30 dicembre 2004.
Le somme non venivano pagate in quanto l’Ufficio finanziario, con provvedimenti nn. 325902 e 32503 notificati in data 3.6.2005, disponeva la sospensione dei rimborsi essendo in corso nei confronti della società una verifica a fini IVA disposta in seguito al sequestro penale della documentazione fiscale, eseguito su autorizzazione della Procura della Repubblica di Livorno, nell’ambito del procedimento penale iscritto al n. 3913/04 RGNR.
Avverso tali provvedimenti di sospensione del rimborso la società proponeva ricorso avanti il TAR di Parma per l’annullamento, nonché proponeva ricorso avanti la CTP di Piacenza per conseguire i rimborsi.
Il Giudice tributario di prime cure accoglieva il ricorso affermando la propria giurisdizione e rilevando che gli elementi indicati nei provvedimenti di sospensione non avevano fornito alcun riscontro del coinvolgimento degli organi societari in relazione ai reati di frode fiscale per illecita emissione ed utilizzazione di fatture ai fini dell’ottenimento dell’indebito rimborso d’imposta.
L’appello dell’Ufficio finanziario veniva accolto dalla Commissione tributaria della regione Emilia Romagna con sentenza 9.11.2006 n. 194.
I Giudici territoriali ritenevano legittimi i provvedimenti di sospensione in quanto fondati sulle risultanze del verbale di perquisizione eseguita in data 3.11.2004 presso la sede legale della società e sul provvedimento di sequestro di tutta la documentazione fiscale della società relativa al periodo di imposta 2004, nonché sulla “stretta coincidenza cronologica” tra il periodo in cui si erano maturate le eccedenze d’imposta richieste a rimborso ed il periodo d’imposta oggetto di indagine penale, circostanze che inducevano ad attendere l’esito di tali accertamenti in quanto potenzialmente incidenti sul credito di rimborso vantato dalla società.
Inoltre reputavano inidonee le garanzie prestate, in quanto l’importo garantito non era certo né liquido, e la natura privata della garanzia non era confacente alla particolare natura del rimborso di un tributo già versato.
La società impugna per cassazione la sentenza di appello, deducendo sei motivi, con atti notificati alla Agenzia delle Entrate ed al Ministero della Economia e delle Finanze.
Resiste soltanto la Agenzia delle Entrate con controricorso.
Motivi della decisione
1. Va preliminarmente dichiarata “ex officio” l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, per difetto di legittimazione passiva della parte resistente, non costituitasi in giudizio, non avendo assunto l’Amministrazione statale la posizione di parte processuale nel giudizio in grado di appello svolto avanti la Commissione tributaria della regione Emilia-Romagna, introdotto con atto di impugnazione proposto dall’Ufficio di Piacenza della Agenzia delle Entrate successivamente alla data 1.1.2001 (subentro delle Agenzie fiscali a titolo di successione particolare ex lege nella gestione dei rapporti giuridici tributari pendenti in cui era parte l’Amministrazione statale: cfr. Corte cass. SS.UU. 14.2.2006 n. 3116 e 3118).
2. La società contribuente investe la sentenza di appello con censure inerenti vizio logico di motivazione (primo e secondo motivo), errori di diritto “in judicando” (terzo, quarto, quinto e sesto motivo), deducendo la insussistenza dei presupposti per l’applicazione dei provvedimenti di sospensione della esecuzione dei rimborsi, in quanto; 1 – i fatti per cui era iniziato il procedimento penale concernevano un distinto soggetto giuridico (L. s.r.l.); 2 – i provvedimenti di perquisizione e sequestro sarebbero stati emessi “in danno della sola Società L. r.l.”; 3 – alla S. non era stato notificato alcun atto di indagine preliminare, dovendo quindi ritenersi illegittimi gli atti di indagine compiuti in difetto di autorizzazione o di convalida; 4 – la mancata contestazione di fatti-reato a carico degli amministratori della S., e comunque la assenza di prove della partecipazione degli stessi alla frode fiscale, non consentiva la sospensione della procedura di rimborso IVA, in quanto la misura era prevista dalla norma esclusivamente nei confronti del contribuente perseguito penalmente; 5 – la sospensione del rimborso doveva ritenersi altresì illegittima essendo state stipulate dalla società garanzie fidejussorie “a prima richiesta” per il corrispondente importo richiesto a rimborso.
3. Esame dei motivi del ricorso principale.
3.1 Il primo motivo (vizio logico ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) è inammissibile in quanto:
a) non risulta formulata la “sintesi del fatto controverso e decisivo”, richiesta, in relazione allo specifico vizio motivazionale ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., a pena di inammissibilità dall’art. 366 bis c.p.c. applicabile “ratione temporis” (cfr. Corte cass. SU 1.10.2007 n. 20603, id. IlI sez. 7.4.2008 n. 8897; id. SU 14.10.2008 n. 25117. Tale “sintesi”, come è dato evincere dall’art. 366 bis c.p.c., non si identifica con il requisito di specificità del motivo ex art. 366 co 1 n. 4 c.p.c., ma assume una propria autonoma funzione volta a consentire la immediata rilevabilità del nesso eziologico tra la lacuna o incongruenza logica denunciata ed il fatto ritenuto determinante – ove correttamene valutato – ai fini della decisione favorevole al ricorrente: cfr. Corte cass. IlI sez. 7.4.2008 n. 8877; id. IlI sez. n. 16567/2008; id. SU n. 11652/2008);
b) in ogni caso la omessa considerazione da parte dei Giudici di merito della circostanza che S. s.r.l. fosse stata posta a conoscenza o meno del procedimento penale – conoscenza, peraltro, confermata dalla stessa ricorrente – nonché della circostanza che il procedimento penale fosse stata instaurato nei confronti di soggetti appartenenti ad altra società, si risolve in una critica inconferente essendo del tutto inidonei gli indicati elementi ad inficiare la costruzione logica posta a fondamento della decisione che va, invece, rinvenuta nella prova indiziaria, in ordine al rischio di riduzione od inesistenza del credito di rimborso, desunta dal dato oggettivo della pendenza di un procedimento penale per frode fiscale che – quando anche instaurato nei confronti di soggetti terzi – aveva comunque coinvolto anche la società, dalla esecuzione di atti di indagine preliminare (perquisizione locale e sequestro) nei confronti della società, dalla rilevata coincidenza del periodo di imposta in cui si sarebbe consumato il reato e del periodo di imposta in cui la società aveva richiesto i rimborsi accelerati IVA.
3.2 II secondo motivo (vizio logico ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c.) è inammissibile in quanto:
a) non risulta formulata la “sintesi del fatto controverso e decisivo” richiesta, in relazione allo specifico vizio motivazionale ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c., a pena di inammissibilità dell’art. 366 bis c.p.c. applicabile “ratione temporis”;
b) difetta il requisito di specificità del motivo ex art. 366 co 1 n. 4) c.p.c., non essendo neppure indicato l’argomento logico posto a base della motivazione della sentenza impugnata che viene criticato;
c) il riferimento alla omessa considerazione da parte della CTR della assenza, nel caso specifico, dei presupposti contemplati dalla norma dell’art. 38 bis comma 3 Dpr n. 633/72, nel testo vigente ratione temporis, configura una censura riconducibile all’ “error juris” e dunque diversa ed incompatibile con quella indicata a parametro del sindacato di legittimità che ha per oggetto la denuncia di un “error facti” la conseguente incertezza sulla identificazione del parametro in relazione al quale si chiede il sindacato di legittimità della Corte determina la carenza del requisito di specificità ex art. 366 co 1 n. 4) c.p.c. richiesto a pena di inammissibilità (sulla ontologica distinzione tra vizio logico e vizio di violazione di norma di diritto cfr. Corte cass. SU 5.5.2006 n. 10313; id. I sez. 2.2.2007 n. 4178; id. sez. lav. 26.3.2010 n. 7394).
3.3 II terzo e quarto motivo (vizio di violazione dell’art. 38 bis Dpr n. 633/72, nonché degli artt. 247, 253, 321, 365, 369, 369 bis, 375 c.p.p.) sono inammissibili ed infondati.
3.3.1 La società ricorrente richiede alla Corte di affermare il principio secondo cui la misura cautelare della sospensione dei rimborsi IVA prevista dall’art. 38 bis comma 3 del Dpr n. 633/1972 trova applicazione esclusivamente nel caso in cui sia contestato, al contribuente che vanta il credito a rimborso e non anche ad altri soggetti estranei al predetto rapporto tributario, uno dei fatti-reato di cui all’art. 4 co 1 n. 5) del DL 10.7.1982 n. 429 con. in legge 7.8.1982 n. 516, richiamato dalla norma tributaria (la norma penale, nel testo originario, poi riprodotta identica nell’ art. 4 co 1 lett. d), a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 6 DL 16.3.1991 n. 83, puniva “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’imposta sul valore aggiunto o di conseguire un indebito rimborso ovvero di consentire l’evasione o indebito rimborso a terzi: n. 5) emette o utilizza fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti o recanti l’indicazione dei corrispettivi o dell’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale; ovvero emette o utilizza fatture o altri documenti recanti l’indicazione di nomi diversi da quelli veri in modo che ne risulti impedita l’identificazione dei soggetti cui si riferiscono”. La norma è stata successivamente abrogata dall’art. 25 del Dlgs 10.3.2000 n. 74 che, all’art. 2, prevede il reato di utilizzo di fatture od altri documenti relativi ad operazioni inesistenti per la indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione fiscale, ed all’art. 8 punisce colui che emette o rilascia fatture od altri documenti per operazioni inesistenti al fine specifico di consentire a terzi la evasione d’imposta. Pertanto la abrogazione della precedente norma del 1982 – tuttora richiamata dall’art. 38 bis co 3 Dpr n. 633/72 – non ha comportato una “abolitio criminis”, dovendo essere riferito, il rinvio disposto dal predetto art. 38 bis coma 3, ai medesimi reati attualmente previsti e puniti dal Dlgs n. 74/2000), con la conseguenza che la sospensione dei rimborsi non poteva essere disposta dall’Ufficio finanziario in quanto il procedimento penale instaurato avanti il Tribunale di Livorno non riguardava la S. s.r.l. ma altra società.
3.3.2 I motivi sono inammissibili in quanto la censura per “error in judicando” ex artt. 360 co 1 n. 3) c.p.c.implica la necessaria esclusione di ogni contestazione a monte circa la rilevazione dei fatti di causa e la esatta ricostruzione della fattispecie concreta alla quale deve essere applicata la norma di diritto.
Nella specie, invece, è proprio tale ricostruzione che – peraltro con erronea indicazione del paradigma di legittimità – la società ricorrente censura dando per scontato ciò che è da dimostrare.
La CTR, infatti, e del pari la resistente nel controricorso, hanno affermato che gli atti di indagine preliminare sono stati compiuti proprio nei confronti della S., essendo stata effettuata la perquisizione del 3.11.2004 nei locali in cui la società ha la sede legale ed essendo stato disposta “La misura cautelare del sequestro in danno della contribuente di tutta la documentazione fiscale relativa al periodo di imposta 2004, oltre che…addirittura una perquisizione presso i locali ove la contribuente svolge la propria attività” (cfr. sentenza CTR), circostanza che, peraltro, sembrerebbe trovare riscontro nella ammissione della stessa parte ricorrente secondo cui il verbale di perquisizione locale sarebbe stato sottoscritto per la S. s.l. “non dal suo amministratore, come farebbe presumere i timbro apposto, ma da un dipendente” (ricorso pag. 9).
Ne segue che la tesi in diritto della parte ricorrente secondo cui la S. non potrebbe subire le conseguenze pregiudizievoli determinate da fatti illeciti cui essa è estranea, in quanto la norma tributaria legittima la sospensione dei rimborsi IVA soltanto in caso di coinvolgimento diretto del contribuente nel procedimento penale, e dunque nel caso in cui gli atti di indagine – in quanto diretti all’accertamento della commissione del reato e sempre che non risultino affetti da vizi di invalidità – si siano svolti nei confronti del contribuente quale soggetto “indagato”, appare del tutto carente nella esposizione delle premesse in fatto, non avendo la ricorrente neppure indicato i documenti sui quali si fonderebbe l’assunto e che dovrebbero smentire la diversa ricostruzione della fattispecie concreta cui è pervenuto il Giudice territoriale laddove ha affermato, contrariamente a quanto allegato in ricorso dalla società, che gli atti di indagine penale erano stati svolti proprio nei confronti della società contribuente, quindi per ciò stesso da ritenersi anch’essa coinvolta nel procedimento penale.
La società ricorrente ha, peraltro, omesso di trascrivere il contenuto degli atti di indagine – elencati pag. 9 ricorso – dai quali risulterebbe la sua estraneità al procedimento penale, ed ha omesso anche di indicare se e quando tali documenti siano stati prodotti nel corso dei precedenti gradi di giudizio, rimanendo in conseguenza impedito a questa Corte – cui è precluso per il carattere chiuso del giudizio di cassazione l’accesso diretto agli atti e documenti del giudizio di merito – di verificare in limine la congruità della critica svolta alla sentenza impugnata.
3.3.3 I motivi si palesano, comunque, infondati.
La CTR ha puntualizzato che tra i diversi atti di indagine preliminare era stata disposta nei confronti della S. s.r.l. la misura cautelare reale del sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. (dunque non del sequestro probatorio ex art. 253 c.p.p. diretto a ricercare ed acquisire le prove necessarie all’accertamento dei fatti). Tale provvedimento, che può essere emesso anche nei confronti di soggetto estraneo al reato (cfr. Corte cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 17865 del 17/03/2009, imp. Quarta; id Sez, 4, Sentenza n. 32964 del 01/07/2009, imp. Duranti), risulta normativamente condizionato alla qualificazione delle cose che sono oggetto di sequestro (nella specie la documentazione contabile della S. s.r.l.) come “corpo del reato” (in quanto possibile oggetto di confisca: art. 321 co 2 c.p.p.) ovvero come “cose pertinenti al reato” che debbono essere sottratte alla disponibilità del soggetto che le possiede, in considerazione della valutazione compiuta dall’AG procedente secondo cui, ove lasciate in libera disponibilità, sarebbero altrimenti idonee a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato per cui si procede, ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti: tale misura cautelare reale, in quanto avente ad oggetto nella specie anche le fatture attive e passive, rispettivamente, emesse ed utilizzate nel corso dell’anno 2004 da S. s.r.l. – in quanto indispensabili documenti fiscali che, unitamente alle scritture contabili relative alle corrispondenti registrazioni delle operazioni compiute e delle relative imposte, vengono utilizzati per la richiesta dei rimborsi IVA, induce ad interpretare la disposizione dell’art. 38 bis co 3 Dpr n. 633/972 in modo diverso da quello prospettato dalla ricorrente che intenderebbe attribuire alle parole “quando sia constatato nel relativo periodo di imposta uno dei reati…” il medesimo significato di “quando sia contestato….uno dei reati da ciò volendo desumere la piena coincidenza tra il soggetto – contribuente che ha richiesto il rimborso ed il soggetto che ha assunto la qualità di indagato.
Tale soluzione interpretativa, prospettata dalla parte ricorrente, non può essere condivisa, oltre che per la differente portata semantica che ai due termini lessicali viene comunemente riconosciuta anche nell’ambito del lessico giuridico (la “constatazione” attiene alla mera rilevazione degli elementi di fatto; la “contestazione” veicola la imputazione di responsabilità del fatto ad un soggetto), per il dirimente rilievo secondo cui le fatture passive sequestrate presso S. s.r.l. – ove in ipotesi illecitamente emesse dai terzi in relazione ai quali si procede penalmente – bene possono dare origine ad indagini volte ad accertare se la società contribuente, che ha subito il sequestro, abbia fruito di indebiti rimborsi o detrazioni (appunto nel caso di utilizzo di false fatture passive emesse dal soggetto indagato): appare evidente, pertanto, come il rinvenimento presso la S. anche di “fatture per operazioni inesistenti” (secondo la tesi accusatoria, desumibile dal breve stralcio della sentenza di primo grado riportata a pag. 4 ricorso, che fa riferimento ai fatti di illecita emissione o utilizzazione di fatture”. Dallo stralcio della sentenza non è, invece, dato comprendere a quale fase del procedimento penale – atti di indagine; contestazione della imputazione; provvedimenti del GIP; sentenza – la CTP si riferisca rilevando “la totale mancanza di riscontri di un coinvolgimento penale” dell’amministratore della S. ai fatti di frode fiscale) emesse dal diverso soggetto indagato nel procedimento penale, e cioè di documenti che possono aver dato luogo o possano essere utilizzati per conseguire indebiti rimborsi d’imposta, non soltanto legittimi il sequestro penale ma legittimi anche l’impiego da parte della Amministrazione finanziaria del provvedimento di sospensione della procedura di rimborso di cui all’art. 38 bis co3 Dpr n 633/72, in attesa della definizione delle indagini penali. Come infatti è stato precisato dalla giurisprudenza penale di questa Corte “Il sequestro preventivo può avere ad oggetto beni appartenenti a terzi estranei al procedimento penale, incombendo, in tale caso, sul giudice un dovere specifico di motivazione sul requisito del “periculum in mora” in termini di semplice probabilità del collegamento di tali beni con le attività delittuose dell’indagato, sulla base di elementi che appaiano indicativi della loro effettiva disponibilità da parte di quest’ultimo, per effetto del carattere meramente fittizio della loro intestazione ovvero di particolari rapporti in atto tra il terzo titolare e l’indagato stesso” (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 11287 del 22/01/2010, imp. Cartone): e nel caso di specie il collegamento di tali documenti con l’attività delittuosa andrebbe individuato proprio nelle operazioni economiche rappresentate falsamente nelle fatture utilizzate da s s.r.l. per le richieste di rimborso accelerato IVA relative all’anno 2004 oggetto della indagine penale.
3.3.4 Inammissibile deve essere poi dichiarato il terzo motivo nella parte in cui la società ricorrente mira ad introdurre la questione del tutto nuova – non risultando acquisita all’oggetto del giudizio di merito né esaminata in primo o secondo grado – della inutilizzabilità, ai fini della sospensione dei rimborsi IVA, degli atti di indagine penale svolti nei suoi confronti, in quanto le attività di indagine risultavano affette da vizi di legittimità per omessa formalizzazione e notifica di provvedimenti autorizzatori di perquisizione o sequestro e per difetto di previa trasmissione della informazione di garanzia.
Ed infatti in tema di ricorso per cassazione, qualora una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 1435 del 22/01/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 4843 del 01/03/2007; id. Sez, L, Sentenza n. 230 del 11/01/2006).
Ad abundantiam la censura si palesa anche infondata laddove, per un verso, il verbale di perquisizione risulta regolarmente sottoscritto “per conto” della S. s.r.l., mentre il provvedimento di sequestro preventivo, in quanto “atto a sorpresa” non richiedeva la preventiva notifica della informazione di garanzia (e ciò anche nel caso in cui le indagini penali avessero avuto per oggetto fatti reato ascrivibili agli amministratori di S. s.r.l.), non essendo neppure richiesto l’avviso al difensore, come ripetutamente affermato dalle sezioni penali di questa Corte (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2889 del 18/09/1997, imp. Di Stefano; id. Sez, U, Sentenza n. 7 del 23/02/2000, imp. Mariano; id. Sez. 2, Sentenza n. 13678 del 17/03/2009, imp. Zaccaria).
3.4 II quinto motivo con il quale si censura la violazione dell’art. 38 bis Dpr n. 633/72, non avendo la CTR ritenute idonee le polizze fidejussorie a prima richiesta presentate dalla società a soddisfare le esigenze erariali, è inammissibile per assoluta genericità del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. (si chiede alla Corte di affermare che la norma non può essere applicata in difetto dei presupposti in essa considerati), ed è anche infondato laddove la ricorrente intende sostenere che la prestazione delle garanzie – richieste dall’art. 38 bis comma 1 Dpr n. 633/72 quale condizione per la erogazione dei rimborsi – costituirebbe una misura alternativa rispetto alla sospensione della esecuzione del rimborso prevista dal comma 3 del medesimo articolo.
Ed infatti questa Corte ha già avuto modo di rilevare come la sospensione della esecuzione dei rimborsi, costituisce “una” delle misure che compongono, unitamente al rilascio di polizza fidejussoria – a garanzia dell’eventuale obbligo di restituzione all’Erario delle somme erogate, qualora in esito al successivo accertamento fiscale emerga l’indebito rimborso, un “sistema integrato” (cfr. Corte cass. V sez. 26.6.2003 n. 10199; id. V sez. 2012.2006 n. 27265) volto ad assicurare al massimo grado, non soltanto il recupero dell’indebito ma anche ad impedire, in via preventiva, la indebita erogazione delle somme, con la conseguenza che la mera prestazione della garanzia, da un lato, non rende per ciò solo eseguibile il rimborso, dall’altro si configura come tutela di carattere recessivo rispetto alla misura cautelare della sospensione del rimborso che la PA è legittimata ad adottare in seguito alla eventuale conoscenza di fatti, penalmente rilevanti, incidenti sulla stessa spettanza del rimborso.
3.5 Anche il sesto motivo è infondato.
La ricorrente censura la sentenza per violazione della regola sul riparto dell’onere della prova (art. 2697 c.c.), nonché per violazione della norma processuale che vieta la produzione di nuovi documenti in grado di appello (art. 58 Dlgs n. 546/1992).
3.5.1 Orbene, quanto all’onere probatorio è sufficiente rilevare come lo stesso venga a configurarsi in relazione alla titolarità del diritto controverso e non in relazione al modello impugnatorio del giudizio tributario. Ne segue che, se nel giudizio di impugnazione degli atti impositivi (con i quali l’Amministrazione finanziaria richiede il pagamento della imposta o di una maggiore imposta – individuando fatti economici idonei a costituire od ampliare la base imponibile-) è la PA, che avanza la pretesa fiscale, a dover fornire la prova dei presupposti cui è ricollegata l’applicazione del tributo, diversamente la prova dei fatti costitutivi grava interamente sul contribuente – secondo il principio per cui “onus probandi incumbit ei qui dicit” – laddove la controversia ricada su un diritto soggettivo che questi vanti in giudizio nei confronti della Amministrazione finanziaria (tale è la ipotesi in cui si controverta sul diritto ad esenzioni, agevolazioni e benefici fiscali in genere, ovvero sul credito di imposta richiesto a rimborso, o portato in detrazione, od utilizzato in compensazione).
3.5.2 Manifestamente infondata la critica concernente il divieto di produzione in grado di appello di nuove prove costituite (nella specie la “segnalazione della Polizia tributaria di Piacenza” e il “verbale di acquisizione documentazione”), attesa la deroga al divieto di nuove prove di cui all’art. 345 co 2 c.p.c., contenuta nel comma 2 dell’art. 58 Dlgs n. 546/1992 che fa espressamente salva “la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”, dovendo ribadirsi al riguardo il principio enunciato da questa Corte secondo cui in materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dall’art. 1, comma 2, del d.Igs. 31 dicembre 1992, n. 546 – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima – non trova applicazione la preclusione di cui all’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69), essendo la materia regolata dall’art. 58, comma 2, del citato d.lgs., che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 18907 del 16/09/2011; id. Sez, 5, Sentenza n. 20103 del 16/11/2012).
6. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna della parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
– Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero della Economia e delle Finanze;
– Rigetta il ricorso proposto nei confronti della Agenzia delle Entrate e condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in € 25.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
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