CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 novembre 2013, n. 25023
Contratto di agenzia – Diritti dell’agente – Provvigione – Giudizio per l’accertamento del diritto alla provvigione – Onere probatorio dell’agente
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 1° marzo 1988 A.L. proponeva opposizione al decreto in data 30 gennaio 1988, emesso dal Presidente del Tribunale di Prato, con il quale le era stato ingiunto di pagare £10.183.257 in favore della T.I. s.p.a. a titolo di corrispettivo per forniture di merci rimaste insolute.
Quale unico motivo di opposizione A.L. deduceva in compensazione un proprio maggiore credito di £ 108.698.046 derivante da cessione di credito in suo favore eseguito dalla ditta Figli di A.M., creditrice della T.I. s.p.a. per provvigioni maturate nell’ambito di un rapporto di agenzia.
Con sentenza in data 10 novembre 1998 il Tribunale di Prato respingeva l’opposizione, rilevando che il credito eccepito in compensazione non era dimostrato, in quanto la sola prova offerta era costituita da una comparsa di costituzione in altro giudizio tra la società opposta ed il terzo cedente, in cui la società riconosceva la cessione, contestava l’esistenza stessa del credito ceduto e comunque l’ammontare di esso.
A.L. proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di appello di Firenze con sentenza in data 7 settembre 2006.
I giudici di secondo grado rilevavano che l’appellante aveva prodotto in giudizio conteggi (non sottoscritti da controparte) e n. 424 fatture di vendita emesse dalla T.I. s.p.a. in data anteriore alla cessione di credito per affari procacciati dalla cedente, come si desumeva dall’annotazione “rappresentante M.” apposta sulle fatture in questione.
In tal modo, però, a tutto voler concedere, poteva ritenersi dimostrato che il cedente aveva procurato affari per la T.I. s.p.a. per l’ammontare risultante dalle fatture esibite e che la preponente li aveva eseguiti consegnando la merce alla clientela, ma non poteva ritenersi dimostrata anche la riscossione del prezzo delle forniture, in adempimento dell’onere che gravava sull’agente in base alla formulazione ratione temporis dell’art. 1748 cod. civ.
Contro tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione, con quattro motivi, P. e G.M., quali eredi di A.L.
Resiste con controricorso la T.I. s.r.l., già T.I. s.p.a.
Motivi della decisione
Da un punto di vista logico va esaminato per primo il secondo motivo, con il quale si contesta, innanzitutto, l’interpretazione data dalla Corte di appello al testo originario dell’art. 1748 cod. civ. e si sostiene che ai fini del pagamento della provvigione in favore dell’agente era sufficiente l’esecuzione dell’affare, da intendersi quale consegna della merce, non essendo invece necessario anche la riscossione del prezzo da parte del preponente.
La doglianza è infondata, in quanto la Corte di appello si è rifatta all’orientamento di questa S.C. secondo il quale nel giudizio promosso dall’agente contro la ditta proponente per l’accertamento del suo diritto al pagamento della provvigione, l’agente stesso ha l’onere di provare che gli affari da lui promossi sono andati a buon fine, ovvero che il mancato pagamento dei premi fosse dovuto a fatto imputabile al preponente (cfr., in tal senso, da ultimo, sent. 3 settembre 2003 n. 12838).
I ricorrenti deducono, poi, che la Corte di appello di Firenze non ha considerato che il mancato pagamento (eventuale) da parte dell’acquirente procacciato dall’agente rientra nell’ipotesi disciplinata dall’apposito e specifico istituto dello “star del credere”.
A prescindere dalla novità della questione, e dalla considerazione che in tema di rapporto di agenzia lo “star del credere” (ora non più consentito) avrebbe dovuto essere espressamente previsto, non si comprende l’utilità del suo richiamo nella attuale controversia, dal momento che in base ad esso l’agente avrebbe dovuto rispondere nei confronti del preponente per l’esecuzione dell’affare, percependo una provvigione ridotta.
Sempre da un punto di vista logico va poi esaminato il terzo motivo, con il quale i ricorrenti denunciano erronea interpretazione dell’art. 1748 cod. civ., sotto un altro profilo, deducendo che, anche volendo ritenere che il diritto alla provvigione fosse condizionato al pagamento del terzo, tuttavia l’onere del mancato verificarsi di questo fatto (cioè l’insolvenza del terzo acquirente procacciato) gravava sul preponente ai sensi dell’art. 2697 cpv. cod. civ., in base al quale “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti sui cui l’eccezione si fonda”; ciò a prescindere che diversamente opinando si accollerebbe all’agente una prova diabolica, dal momento che non ha la possibilità di controllare se il terzo acquirente ha pagato.
Anche tale motivo è infondato.
Nella prima parte ribadisce l’interpretazione dell’art. 1748 cod. civ., che, come già detto, questa S.C. ha ritenuto infondata.
Nella seconda parte trascura che l’art. 2697 cpv. cod. civ. si riferisce alla prova della inefficacia dei fatti costitutivi del diritto, se provati.
Nella specie, invece, come già detto, rientrava nel fatto costitutivo del diritto dell’agente alla provvigione il buon fine dell’affare e tale elemento della fattispecie è stato ritenuto non provato, per cui quando i ricorrenti deducono, sul presupposto che per il riconoscimento di tale diritto era sufficiente la prova della conclusione dell’affare, spettando al preponente la prova del mancato pagamento, operano una inversione dell’onere probatorio.
Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono della mancata ammissione del giuramento suppletorio, avente ad oggetto l’esistenza o meno di affari non andati a buon fine.
Il motivo è infondato.
E’ sufficiente in proposito ricordare che non è sindacabile la decisione del giudice di merito di non fare uso del potere discrezionale di deferire il giuramento suppletorio (cfr., in tal senso, da ultimo, la sentenza 2 aprile 2009 n. 8021), applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 cod.civ.
Con il primo motivo i ricorrenti deducono che la prova del fatto che tutti gli affari con riferimento ai quali vi era stata la cessione del credito relativo alle provvigioni fossero andati a buon fine, risultava: a) dalla stessa confessione della T.I. s.p.a. in altro giudizio; b) dal comportamento di tale società, che non ha mai espressamente dedotto che alcuni affari non fossero andati a buone fine; c) dalle fatture relative agli affari conclusi.
Il motivo è infondato.
In primo luogo non è esatto che la T.I. s.p.a. avesse espressamente riconosciuto che tutti gli affari erano andati a buon fine; il contrario risulta dagli stessi scritti difensivi di tale società citati nel ricorso.
Per le stesse considerazioni non è esatto che la T.I. s.p.a. non aveva dedotto che alcuni affari non erano andati a buon fine, a prescindere dalla considerazione che, come già detto, spettava all’agente fornire la prova di tale buon fine.
Le fatture esibite, infine, provavano la conclusione degli affari, ma non il buon fine degli stessi, come correttamente rilevato dalla Corte di appello di Firenze.
In definitiva, il ricorso va rigettato, con condanna dei ricorrenti,in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella complessiva somma di euro 3.200,00, di cui euro 200, per esborsi.
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