CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 novembre 2013, n. 25467
Tributi – Accertamento – Condanna per reato di truffa ai danni dello Stato – Evasione fiscale – Elementi raccolti nel patteggiamento – Sussiste
Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Piemonte con sentenza 15.11.2010 n. 80 ha rigettato l’appello proposto da C.’S s.r.l. e confermato la sentenza di prime cure che aveva dichiarato legittimo l’avviso di accertamento emesso dall’Ufficio di Torino 2 dell’Agenzia delle Entrate con il quale veniva recuperata ad imponibile ai fini delle imposte sui redditi : a) la somma di € 543.215,00 indebitamente percepita dalla società a titolo di contributo statale in applicazione della legge 12.12.1992 n. 488 sugli interventi straordinari nel Mezzogiorno, b) la somma di € 24.000,00 oltre Iva, relativa alla fattura passiva emessa in data 20.3.2003 dalla ditta C., trattandosi di costo indeducibile in quanto relativo ad operazione fittizia (oggettivamente inesistente); ed inoltre veniva recuperata l’IVA indebitamente detratta sulle fatture passive n. 25 e n. 44 emesse nel corso dell’anno 2003 dalla ditta ARIEL cui erano stati appaltati i lavori di realizzazione degli insediamenti produttivi finanziati con il contributo pubblico, in quanto relative ad operazioni inesistenti non avendo l’appaltatrice eseguito alcuna prestazione.
I Giudici di secondo grado rilevavano che l’amministratore della società era stato condannato con sentenza penale del 16.6.2009 essendo stato accertato il suo coinvolgimento nel reato di truffa ai danni dello Stato realizzato, anche mediante fatturazione di operazioni inesistenti, al fine di ottenere illecitamente il contributo pubblico, con la conseguenza che ai sensi della legge n. 537/1993 l’importo indebitamente percepito a tale titolo doveva essere computato fiscalmente come reddito imponibile. Inoltre la mera emissione di quietanze di pagamento sulle fatture non costitutiva prova idonea a superare la contestazione di fittizietà delle operazioni e comunque non risultava alcuna prova della esecuzione dei lavori appaltati.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la società, con atto ritualmente notificato alla Agenzia delle Entrate in data 22.4.2011, affidando la impugnazione a tre motivi con plurime censure.
Non ha resistito la Agenzia intimata.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società investe la statuizione della sentenza di appello che ha ritenuto provata la natura di provento illecito del contributo pubblico erogato ai sensi della legge n. 488/1992 non essendo stata impugnata dall’amministratore la sentenza penale in data 16.6.2009.
La ricorrente sostiene che la CTR avrebbe in tal modo riconosciuto automatica efficacia di giudicato nel giudizio tributario alla sentenza penale, in violazione dell’art. 654 c.p.p. e del costante indirizzo della giurisprudenza di questo Giudice secondo cui non poteva farsi luogo a trasposizione automatica, nonché in violazione dell’art. 445 co 1 bis c.p.p., norma che esclude la rilevanza della efficacia di giudicato, nei giudizi civili ed amministrativi, alla sentenza di patteggiamento pronunciata ai sensi dell’art. 444 co. 2 c.p.p. anche dopo la chiusura del dibattimento. La ricorrente censura ancora la sentenza per vizio di omessa motivazione ex art. 360 co 1 n. 5 c.p.c. non essendo stata valutata dai Giudici di appello la rilevanza dei fatti accertati in sede penale rispetto agli elementi costitutivi della obbligazione tributaria oggetto della controversia.
2. Entrambe le censure sono infondate.
3. Premesso che i fatti accertati e le prove assunte in un diverso giudizio (penale, amministrativo, ecc.) sono pienamente utilizzabili come indizi, da sottoporre al vaglio critico, anche nel giudizio tributario (cfr. Corte cass. V sez. 2.12.2002 n. 17037; id. Ili sez. 4.3.2004 n. 4394 secondo cui il Giudice tributario “può legittimamente porre a base del proprio convincimento, in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria in lite, le prove assunte in un diverso processo e anche in sede penale, quali prove atipiche idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processoid. V sez. 21.2.2007 n. 4054), la possibilità per il Giudice di merito di trarre elementi confermativi della responsabilità dalla sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., è stata ripetutamente affermata dalla giurisprudenza di questa Corte e deriva dalla considerazione secondo cui tale sentenza “pur non determinando un accertamento insuperabile di responsabilità nei giudizi civili e amministrativi, costituisce pur sempre un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito e, sebbene priva di efficacia automatica in ordine ai fatti accertati, implica tuttavia l’insussistenza di elementi atti a legittimare l’assoluzione dell’imputato e, quindi, può essere valutata dal giudice contabile al pari degli altri elementi di giudizio” (cfr.: Corte cass. SU 12.4.2012 n. 5756; id. Sez. 2, Sentenza n. 26250 del 06/12/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 15889 del 20/07/2011 -con riferimento al giudizio disciplinare id. 6-3 sez. ord. 6.12.2011. Cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 24587 del 03/12/2010, id. Sez. 5, Sentenza n. 10280 del 21/04/2008, id. Sez. U, Sentenza n. 17289 del 31/07/2006 -tutte con specifico riferimento al giudizio tributario – ).
4. Deve aggiungersi che i principi di diritto enunciati da questa Corte in ordine alla utilizzabilità da parte del Giudice tributario di prove atipiche e di prove acquisite in altri giudizi diversi da quello tributario, non possono evidentemente estendersi all’intero apparato motivazionale della sentenza emessa dal Giudice penale che, per quanto concerne al suo contenuto critico-valutativo (dei fatti provati processualmente), non assolve direttamente ad alcuna funzione dimostrativa di un fatto storico, dovendo distinguersi a tal fine le prove raccolte nel corso delle indagini e verificate nel processo penale, dalla valutazione di tale prove compiute dal Giudice all’esito di quello stesso procedimento e compendiate nella motivazione della sentenza. Ne segue che il mero richiamo alle “conclusioni” cui è pervenuto il Giudice penale (in ordine alla valutazione della inefficacia probatoria degli elementi fattuali acquisiti al giudizio), non può dunque costituire “ex se” valido e sufficiente supporto alla decisione adottata dal Giudice tributario, stante la relazione di autonomia in cui si pongono il giudizio penale ed il giudizio tributario (che ha ricevuto espressa conferma nell’art. 20 del Dlgs 10.3.2000 n. 74), poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale ex art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992) che non operano nel giudizio penale e, dall’altro, possono invece valere anche presunzioni legali (ed anche presunzioni prive dei requisiti prescritti dall’art. 2729 c.c.) inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna (cfr. Corte cass. V sez. 24.5.2005 n. 10945; id. 8.10.2010 n. 20860), atteso che “nessuna automatica autorità di cosa giudicata può più attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente. Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.), deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare” (cfr. Corte cass. V sez. 21.6.2002 n. 9109. Vedi: Corte cass. V sez. 8.3.2001 n. 3421; id. 25.1.2002 n. 889; id. 19.3.2002 n. 3961; id. 24.5.2005 n. 10945; id. 12.3.2007 n. 5720; id. 18.1.2008 n. 1014 – in materia di fatturazione per operazioni inesistenti: ribadisce che la efficacia del giudicato concerne solo circostanze fattuali specifiche, ma non può estendersi anche agli elementi di valutazione di quei fatti-; id. 17.2.2010 n. 3724; id. 8.10.2010 n. 20860; id. 27.9.2011 n. 19786; id. 23.5.2012 n. 8129).
5. Tanto premesso e considerato che tanto lo “svolgimento del processo” (art. 36 co 2 n. 2 Dlgs n. 546/92), quanto la “parte motiva” della sentenza che deve contenere la “succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto” (art. 36co2 n. 4 Dlgs n. 546/92), costituiscono un “unicum” inscindibile del provvedimento giurisdizionale (come è dato dalla unitaria funzione che tali elementi assolvono che è quella di individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, nonché di controllare che siano state osservate le forme indispensabili poste dall’ordinamento a garanzia del regolare svolgimento della giurisdizione: Corte cass. sez. lav. 19.3.2009 n. 6683 e Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 22845 del 10/11/2010. con riferimento all’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. nella versione sia anteriore che posteriore alla modifica introdotta dall’art. 45, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69. Con riferimento all’art. 36 Dlgs n. 546/92, cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 13990 del 22/09/2003 ), osserva il Collegio che l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, della mancata proposizione di appello avverso la sentenza penale emessa in data 16.6.2009, trova adeguata integrazione, quanto alla sua idoneità di ragione giustificativa della decisione, nel precedente richiamo alle difese svolte dall’Ufficio finanziario dalle quali emergeva: 1-che tale sentenza era stata emessa all’esito di “indagini penali volte a dimostrare il disegno criminoso (in cui sono partecipi anche le società emittenti le fatture per cui è causa) finalizzato alla illecita percezione di contributi statali anche attraverso la emissione di fatture su operazioni inesistenti”-, 2-che il contributo pubblico, illecitamente percepito dalla società contribuente, non era stato sequestrato, né confiscato, né restituito nel medesimo esercizio attinente al periodo di imposta 2003; 3-che l’amministratore della società, imputato di concorso nel reato di truffa ai danni dello Stato “si accordava per una pena finale di anni uno e mesi sei di reclusione, oltre alle pene accessorie, avendo ritenuta corretta la qualificazione giuridica del reato”. A tali clementi i Giudici di merito aggiungono a sostegno della ritenuta illiceità delle operazioni compiute dalla società contribuente che, quanto alle fatture contestate dall’Ufficio con l’avviso di accertamento, la inesistenza delle operazioni sottostanti risultava provata dalla stessa confessione resa dal titolare della società” e riportata nel PVC redatto dalla Guardia di Finanza.
6. L’indicato complesso motivazionale della sentenza {che si sviluppa correlando la indebita percezione del contributo pubblico alla fraudolenta emissione ed all’utilizzo delle fatture per operazioni inesistenti, individuando nell’elemento della responsabilità penale dell’amministratore e nelle dichiarazioni confessorie rese ai verbalizzanti gli elementi probatori di riscontro), unitamente alla valutazione critica dei fatti penalmente accertati, compiuta dai Giudici di merito con la disamina degli elementi di prova contraria fomiti dalla società appellante a supporto della tesi difensiva della reale esecuzione delle operazioni economiche fatturate, esclude che il fondamento del “decisum” possa essere rinvenuto – contrariamente a quanto dedotto con il motivo di ricorso in esame- esclusivamente in un mero ed apodittico richiamo al giudicato penale, ovvero che possa ritenersi inficiata da vizio logico la motivazione della sentenza.
7. Con il secondo motivo la società ricorrente impugna la decisione per violazione dell’art. 14co4 legge 24.12.1993 n. 537 , in subordine sollevando questione di legittimità costituzionale della norma per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., nonché per vizio di omessa ed insufficiente motivazione, deducendo che la previsione normativa della non imponibilità del provento derivante da illecito ove sottoposto a sequestro od a confisca penale doveva essere estesa anche alla ipotesi di “spontanea” restituzione di tale provento (ipotesi verificatasi nella specie avendo restituito la società l’intero importo del contributo), in quanto anche in tal caso veniva meno il conseguimento definitivo del provento, mentre non poteva -al contrario- essere applicato l’indirizzo giurisprudenziale -cui si era uniformato il Giudice territoriale- che circoscriveva la non imponibilità soltanto nel caso in cui il provvedimento ablatorio fosse intervenuto nello stesso periodo d’imposta in cui era stato acquisito il provento illecito, attesa la non equiparabilità delle situazioni in cui versano, rispettivamente, il soggetto che trattenga il provento illecito fino a che non intervenga il provvedimento di sequestro o di confisca, ed invece il soggetto che “spontaneamente” lo restituisca (anche in periodo successivo diverso da quello in cui il provento è percepito), diversamente opinando si incorrerebbe nella violazione sia del principio che impone trattamenti differenziati in presenza di situazioni ineguali (art. 3 Cost.), sia del principio della capacità contributiva, in quanto verrebbe attribuito al soggetto che ha restituito volontariamente il provento illecito un reddito inesistente (art. 53 Cost). Inoltre la parte ricorrente censura ancora la sentenza in quanto non avrebbe sufficientemente motivato la ragione per cui, pur essendo state le somme restituite, sarebbero egualmente state recuperate come proventi illeciti al reddito imponibile.
8. Le censure sono soltanto apparentemente autonome in quanto il vizio motivazionale in altro non si risolve che nella critica della adesione della CTR all’indirizzo della giurisprudenza di legittimità (richiamato “expressis verbis” nella sentenza, ma con indicazione errata di precedenti), interpretativo dell’art. 14co4 legge n. 537/1993, che esclude carattere reddituale al provento illecito ove il provvedimento ablatorio sia intervenuto nel corso dello stesso periodo di imposta, venendo quindi a rifluire la critica nello stesso vizio di “error in judicando” dedotto con la prima censura.
9. Premesso che l’indirizzo interpretativo espresso da questa Corte deve intendersi stabilizzato in relazione all’enunciato di diritto secondo cui “in tema di imposte sui redditi e con riguardo alla tassazione dei proventi derivanti da attività illecite, ai sensi dell’art. 14, comma quarto, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (il quale ha natura di interpretazione autentica della normativa contenuta nel d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), affinché operi la causa di esclusione dell’imponibilità costituita dalla circostanza che i detti proventi risultino “già sottoposti a sequestro o confisca penale”, occorre che il provvedimento ablatorio sia intervenuto entro lo stesso periodo d’imposta cui il provento si riferisce” (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 7337 del 13/05/2003; id. Sez. 5, Sentenza n. 19078 del 29/09/2005 ; id. Sez, 5, Sentenza n. 4625 del 22/02/2008 ; id. Sez- 5, Sentenza n. 869 del 20/01/2010), rimane da esaminare se gli argomenti addotti dalla società ricorrente siano tali da imporre una rimeditazione della predetta soluzione interpretativa, tenuto conto che nella specificità del caso in esame, non viene in questione la mancata espressa indicazione nella norma tributaria della esclusione dal reddito imponibile dei proventi da illecito volontariamente restituiti (recte: non recuperati coattivamente), atteso che la CTR piemontese, correttamente, ha ritenuto ricompresa analogicamente anche la predetta ipotesi nella previsione normativa, in considerazione della identità in entrambi i casi della realizzazione del fenomeno oggettivo della perdita del possesso di reddito, ma viene in questione il collegamento cronologico tra detta perdita ed il fatto acquisito (del provento illecito) ad essa necessariamente presupposto, affermando l’indicato orientamento giurisprudenziale la indispensabile coincidenza del periodo d’imposta nel quale deve verificarsi l’acquisto e la perdita, e contestando invece tale necessaria coincidenza la parte ricorrente in base alla non equiparabilità del provvedimento ablatorio alla spontanea restituzione del provento derivante da illecito.
10. Occorre premettere che il principio della neutralità della imposizione rispetto alla connotazione in termini di liceità/illiceità del fatto generatore del presupposto impositivo, che trova espressione nell’art. 14co4 della legge 24.12.1993 n. 537 come modificata ed integrata dall’art. 8 comma 1, 2 e 3 del decreto legge 2.3.2012 n. 16 conv. in legge 26.4.2012 n. 44, e secondo cui la qualificazione di illecito da riconoscere al fatto produttivo di ricchezza (pecunia non olet), in forza della citata disposizione, è irrilevante ai fini dell’assoggettamento al tributo, rimane condizionato esclusivamente alla sussistenza di due condizioni: a) il primo, in diritto, riguarda la sussumibilità del reddito in una delle categorie indicate nell’art. 6 T.U.I.R.; b) il secondo, in fatto, è che il reddito non sia stato già sottoposto a sequestro o confisca penale, o -deve aggiungersi- nel caso in cui il provento sia costituito da un bene appartenente a terzi, non sia stato già integralmente restituito (atteso che tali eventi impediscono il conseguimento del “possesso del reddito” – art. 1 TUIR- e, quindi, il verificarsi del presupposto d’imposta: Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 7511 del 05/06/2000 che non ritiene quindi sufficiente ad escludere la imponibilità del provento illecito una mera pronuncia di condanna alla restituzione od al risarcimento non seguita dal materiale spossessamento), dovendo individuarsi nella locuzione avverbiale “già”, impiegata dal Legislatore, l’elemento indefettibile del collegamento causale richiesto tra fatti fiscalmente rilevanti, cronologicamente consecutivi, tale che, nell’unitario periodo fiscale (l’anno d’imposta), al fatto successivamente verificatosi (eliminazione di ricchezza) possa attribuirsi l’effetto di elidere il fatto anteriore (produzione di ricchezza).
11. La disposizione in esame si pone in linea con il carattere “facoltativo” della confisca del “prodotto” o del “profitto” del reato ex art. 240 co 1 c.p.: il mancato esercizio del potere di confisca da parte del Giudice penale stabilizza, infatti, definitivamente il possesso del provento derivante da illecito che, in relazione all’anno d’imposta nel quale è stato conseguito, viene ad integrare, pertanto, un componente positivo di reddito, assoggettabile ad imposta.
E’ stato correttamente osservato, in proposito, come ¡’obbligazione tributaria, riproducendosi come “autonoma” in ogni periodo di imposta (art. 7 t.u.i.r.), presenta una ineliminabile connotazione d’ordine temporale, poiché, oltrepassato quel periodo, la fattispecie rinasce come diversa. Perciò, come il presupposto dell’imposta consiste nel “possesso di redditi” (art. 1 t.u.i.r.) nel periodo considerato, così eventuali vicende di quel possesso, oltre lo stesso arco temporale, saranno per risultare irrilevanti sulla fattispecie tributarià” (cfr. Corte cass. n.7337/2003, cit.), con la conseguenza che nei caso in cui il provento -pur riferibile al medesimo illecito- sia stato realizzato in successivi anni d’imposta, e l’adozione del provvedimento ablatorio sia intervenuta nell’ultimo anno, è stato chiarito che la non imponibilità del reddito ai sensi dell’art. 14co4 legge n. 537/1993, può essere opposta alla Amministrazione finanziaria soltanto in relazione alla quota di provento derivante da illecito conseguito nel medesimo anno d’imposta in cui si è realizzato lo spossessamento mediante il provvedimento ablatorio, rimanendo invece assoggettati ad imposta quale reddito imponibile le quote di provento percepite negli anni precedenti in relazione a ciascuno dei quali il presupposto d’imposta si era compiutamente e definitivamente realizzato (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 869 del 20/01/2010).
12. Nella Specie (la parte ricorrente non riferisce, né è dato ricavare dalla sentenza impugnata, in che anno sarebbe stata “spontaneamente” restituito l’importo di € 610.500,00 a fronte del contributo statale percepito dalla società nell’ano 2003 di € 543.215,00. E’ circostanza tuttavia incontestata che tale restituzione non sia stata eseguita nello stesso anno d’imposta 2003) non è dato pertanto ravvisare -per il solo fatto che il provento derivante da illecito sia stato volontariamente restituito anziché appreso coattivamente mediante provvedimento di sequestro o di confisca del Giudice penale- elementi dirimenti a differenziare le due situazioni rappresentate dalla parte ricorrente, atteso che la restituzione del capitale operata in un diverso anno d’imposta non può incidere in alcun modo su un autonomo e distinto rapporto tributario attinente ad un pregresso periodo d’imposta in relazione al quale debbono ormai ritenersi esauriti i fatti economici genetici della obbligazione tributaria, tra i quale deve ricomprendersi anche la percezione del provento illecito (in quanto equiparata ex lege a reddito imponibile).
12. La restituzione del capitale potrà, del caso, assumere rilevanza quale fenomeno incidente sulla determinazione della base imponibile relativa all’anno d’imposta in cui si è verificato (secondo la disciplina fiscale propria da riconoscersi alla componente di reddito: a) onere deducibile dal reddito: art. 10 co. 1 lett. d-bis) TUIR -somme restituite al soggetto erogatore, se hanno concorso a formare il reddito negli anni precedenti-; b) sopravvenienze passive – art. 101 co 4 TUIR-; c) perdite di esercizio artt. 83 e 84 TUIR; d) spese e componenti negativi di reddito art. 109 comma 4 e 5 TUIR), questione che rimane peraltro estranea alla presente controversia, ma non potrà comunque impedire il fatto produttivo di ricchezza (conseguimento del provento derivante da illecito) già realizzatosi negli anni di imposta precedenti.
13. Né tale soluzione interpretativa può dar luogo ai sospetti di illegittimità costituzionale paventati dalla parte ricorrente.
Premesso che la società censura la sentenza muovendo dall’erroneo presupposto -che sembra richiamarsi piuttosto alla dottrina penalistica- della differente situazione dell’imputato di reato al quale il provento illecito viene sequestrato/confiscato e dell’imputato di reato che invece si attiva spontaneamente per la riparazione del danno o la restituzione del bene sottratto (in tal senso sembra doversi comprendere l’affermazione a pag. 18 del ricorso secondo cui ‘‘’’mentre nel caso di confisca e sequestro vi è una ablazione autoritativa delle somme percepite, donde ha senso che l’esonero dalla tassazione avvenga soltanto quando il provvedimento ablativo intervenga nel periodo d’imposta cui il provento si colloca, nel caso di restituzione volontaria , manca il presupposto stesso del conseguimento del provento”), non avvedendosi che tale aspetto, volto a valorizzare la soggettiva condotta del reo, non assume alcun rilievo ai fini della determinazione della base imponibile che risponde esclusivamente a criteri oggettivi, venendo ad essere riguardato dalla normativa tributaria il fenomeno della acquisizione di ricchezza o dello spossessamento/perdita di ricchezza, come mero dato economico in funzione del tipo di imposizione, indipendentemente dalla soggettiva intenzione che ha determinato la condotta dell’operatore-contribuente, osserva il Collegio che, se da un lato, ai fini della esclusione del provento illecito dai componenti positivi di reddito integranti la base imponibile nel periodo d’imposta dato (2003), è richiesta dalla norma la “neutralizzazione” del presupposto impositivo, essendo irrilevante se questa è determinata da provvedimento coattivo o da atto volontario o da altro evento non riconducibile al contribuente (semprechè sia fornita, in quest’ultime ipotesi, la relativa prova che grava sul contribuente), dall’altro lato, è proprio la diversa soluzione interpretativa proposta dalla ricorrente -che collega i diversi eventi fiscalmente rilevanti prescindendo dal periodo di imposta- ad andare incontro a seri dubbi di costituzionalità, per un verso alterando mediante azzeramento del reddito “ex post” la effettiva capacità contributiva da riconoscere al soggetto nel periodo in cui ha percepito il provento derivante da illecito; per altro verso introducendo, come è stato evidenziato nel precedente di questa Corte 7337/2003 citato, una ingiustificata discriminazione nel trattamento delle “perdite” tra i percettori di proventi illeciti ed i possessori di redditi leciti, per i quali -secondo i principi generali del sistema tributario: artt. 84 e 109col TUIR- i redditi medesimi sono esclusi da imposizione solo se perduti nello stesso periodo d’imposta considerato.
14. In conseguenza ritenuto infondato il motivo di ricorso, deve essere dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14co4 legge n. 537/1993, prospettata dalla società ricorrente, in relazione agli artt. 3 e 53 Cost.
15. Con il terzo motivo la società impugna la decisione della CTR per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c., nonché per omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione in relazione all’art. 360 co l n. 5 c.p.c., deducendo che la CTR ha operato una illegittima inversione dell’onere probatorio, ritenendo che oltre alla prova del pagamento, la società – per dimostrare la esistenza della operazione rappresentata nella fattura emessa dalla ditta C. in data 20.3.2003- avrebbe dovuto fornire anche la prova del lavoro svolto, e censurando altresì la sentenza in quanto i Giudici territoriali non avrebbero dato conto delle ragioni per cui veniva negata rilevanza all’avvenuto pagamento del corrispettivo.
16. Il motivo deve ritenersi infondato alla stregua del principio -peraltro confermato anche dal precedente di questa Corte V sez. ord. 6.10.2009 n. 21317 richiamato dalla stessa ricorrente- secondo cui, premesso che la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa -attesa la disciplina del suo contenuto di cui all’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633-, “qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative ad operazioni asseritamene inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata mai posta in essere incombe all’Amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento (e quindi l’esistenza di un maggior imponibile), e può essere adempiuto, ai sensi dell’art. 39, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale” (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 1023 del 18/01/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 10157 del 28/04/2010). Ne consegue, ai fini della corretta applicazione della regola del riparto dell’onero probatorio ex art. 2697 c.c., che, una volta fomiti dalla Amministrazione finanziaria, ai sensi degli artt. 39, comma primo, lett. d), e 40 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché, in materia IVA, dell’art. 54, comma secondo, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, elementi indiziari -dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza- della discordanza tra la operazione rappresentata in fattura e quella diversa effettivamente realizzata ovvero non affatto realizzata dalle parti, passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, a norma dell’art. 2697, secondo comma, cod. civ, (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 91Q8 del 06/06/2012).
17. Orbene i Giudici territoriali, con valutazione di merito insindacabile avanti la Corte in quanto esente da errori o vizi logici, hanno ritenuto che gli elementi esaminati dal Giudice penale nella sentenza di applicazione della pena su richiesta della parti, dai quali emergeva l’accordo fraudolento diretto all’illecito conseguimento del contributo statale tra la società contribuente e le ditte C. ed Ariel che avevano emesso le fatture (rispettivamente utilizzate da C.’S s.r.l. per la deduzione dei costi -C.- e per la detrazione dell’IVA -Ariel-), integrassero, in considerazione delle stesse dichiarazioni confessorie del titolare della società in ordine alla fittizietà delle operazioni economiche, i requisiti di precisione e gravità da riconoscersi agli indizi offerti nel giudizio tributario dall’Ufficio finanziario, correttamente ponendo a carico della società contribuente la prova contraria che non poteva ritenersi assolta con la mera produzione in giudizio della documentazione del pagamento dei corrispettivi, formalmente regolare, conformemente ai principi enunciati in materia da questa Corte secondo cui è proprio attraverso la apparenza della situazione fondata sulla regolarità formale della documentazione commerciale e delle registrazioni nelle scritture contabili che si intende dissimulare la condotta -nella specie recettiva – diretta all’evasione fiscale (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 15228 del 03/12/2001; id. Sez. 5, Sentenza n. 1779 del 06/02/2003; id. Sez. 5, Sentenza n. 28695 del 23/12/2005; id. Sez. 5, Sentenza n. 7146 del 23/03/2007).
Per completezza deve aggiungersi che nella specie non può trovare applicazione la disposizione dell’art. 14 comma 4 bis della legge n. 537/1993 come modificata dall’art. 8 comma 1 del DL n. 8/2012 conv. nella legge n. 44/2012 che ha circoscritto la indeducibilità ai costi ed alle spese “dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo” (rispetto alla originaria previsione normativa che estendeva la indeducibilità indifferenziatamente ai costi ed alle spese comunque riconducibili a fatti , atti ed attività qualificabili come reato”), nonostante l’espresso riconoscimento, operato dal comma 3 del medesimo art. 8 del DL n. 8/2012, della efficacia retroattiva della nuova disposizione, difettando i presupposti di legge: il reato commesso (art. 640 bis c.p.) si configura come delitto doloso; in relazione a tale delitto è stata esercitata l’azione penale ed è intervenuta in esito al procedimento sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p..
18. Ad analoga conclusione di infondatezza deve pervenirsi, richiamando le precedenti considerazione in diritto, anche in relazione alle identiche censure mosse alla sentenza in ordine alla prova della inesistenza della operazione regolata dal contratto di appalto lavori -avente ad oggetto la costruzione dell’impianto produttivo per il quale era stato indebitamente erogato dallo Stato il contributo in conto capitale- stipulato tra la società ricorrente e la ditta ARIEL ed in ordine al quale erano state emesse nel corso dell’anno 2003 le fatture n. 25 e n. 44 con pagamenti mensili effettuati dalla committente (sembra in relazione all’avanzamento lavori), non assumendo rilievo in contrario che in questo caso il recupero fiscale non aveva avuto ad oggetto la indeducibilità del costo, ma la indetraibilità dell’IVA: in presenza di operazioni inesistenti , infatti, non si realizza comunque l’ordinario presupposto impositivo, né la configurabilità stessa di un “pagamento a titolo di rivalsa”, né i presupposti del diritto alla detrazione di cui all’art. 19 comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
19. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, non occorrendo provvedere sulle spese del giudizio in assenza di difese svolte dalla parte intimata.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso della società contribuente.
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