CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 novembre 2013, n. 25526
Lavoro – Previdenza e assistenza – Lavoratori autonomi – Commercialisti – Esercizio della professionale – Potere autonomo della cassa previdenziale
Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 4.12.06 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame contro la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva respinto la domanda avanzata da R.S. contro l’annullamento, disposto dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti, delle annualità contributive dal 1983 al 1998 per incompatibilità dell’esercizio della libera professione di dottore commercialista con l’assunzione nel periodo suddetto, da parte dell’attore, della carica di socio accomandatario della S.a.s. A.
Per la cassazione di tale sentenza ricorreva R.S. affidandosi a tre motivi.
Resisteva con controricorso la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti.
Entrambe le parti depositavano memoria ex art. 378 c.p.c.
Alla precedente udienza del 25.10.12 la Corte disponeva acquisirsi relazione dell’Ufficio del Ruolo e del Massimario sulla questione, avente carattere potenzialmente pregiudiziale ed assorbente rispetto alle ulteriori censure mosse dal ricorrente, relativa all’esistenza o meno del potere della Cassa di annullare periodi contributivi durante i quali la professione di dottore commercialista fosse stata svolta in situazione di incompatibilità, ove detta situazione non avesse condotto alla cancellazione dall’albo del professionista.
La Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti ha depositato nuova memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1- Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 22 legge n. 21/86 nonché vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto che, ai fini dell’integrazione del requisito dell’esercizio continuativo della libera professione richiesto per l’iscrizione alla Cassa di previdenza, la mera investitura formale della carica di socio accomandatario di una S.a.s. escluda di per sé la libertà dell’attività professionale espletata in favore della società medesima e in favore di altri.
Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 22 legge n. 21/86 e 3 d.P.R. n. 1067/53, nonché vizio di motivazione, laddove la Corte territoriale ha ritenuto che la suddetta Cassa di Previdenza possa, pur in assenza di una norma attributiva del relativo potere, annullare periodi contributivi durante i quali la professione di dottore commercialista sia stata svolta in situazione di incompatibilità, ove detta situazione non sia stata già sanzionata con la cancellazione dall’albo del professionista.
Con il terzo motivo ci si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 d.P.R. n. 1067/53 in combinato disposto con L’art. 420 c.p.c., nonché di vizio di motivazione, per mancata ammissione della prova testimoniale con cui il ricorrente aveva chiesto di dimostrare che, ad onta della formale assunzione della carica di socio accomandatario della S.a.s. A., in realtà non aveva esercitato alcuna attività commerciale per conto della società medesima, limitandosi a svolgere nel suo interesse meri compiti di amministrazione del patrimonio aziendale e incarichi di consulenza contabile e fiscale, emettendo regolari parcelle caricate del contributo del 2%.
2- Il primo e il terzo motivo di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perché connessi – sono infondati.
Si premetta che l’incompatibilità dell’esercizio della libera professione di dottore commercialista con l’assunzione (in arco temporale coincidente), da parte di R.S., della carica di socio accomandatario di una s.a.s. è stata valutata alla stregua delle disposizioni dell’ordinamento professionale di cui al d.P.R. 27.10.53 n. 1067, il cui art. 3 prevede, fra le incompatibilità, anche “l’esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui” (restano irrilevanti – perché successive ai fatti di causa – le modifiche introdotte dal d.lgs. 28.6.05 n. 139).
Ciò detto, si tenga presente che ex art. 2313 c.c. l’odierno ricorrente, in quanto socio accomandatario di una s.a.s., rispondeva personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni sociali e nel proprio agire spendeva il nome della società ed il proprio (essendo l’unico accomandatario, necessariamente il suo nome doveva comparire nella ragione sociale: v. art. 2314 c.c.), spendita del nome che costituisce il prioritario criterio di imputazione degli effetti attivi e passivi di ogni attività negoziale (v. art. 1705 c.c.).
L’eventuale carattere meramente formale dell’attribuzione della carica non incide sui rapporti coi terzi né evita l’estensione di un eventuale fallimento anche al socio accomandatario (v, art. 147 L.F.), essendo indubbio che anche un soggetto fittiziamente interposto, agendo pur sempre in nome proprio, acquista per ciò solo la qualità di imprenditore.
Per altro, essendo socio della S.a.s. A. (diversamente, non avrebbe potuto ricoprirne la carica di accomandatario), R.S. non poteva che esercitare l’attività di impresa anche nel proprio interesse, interesse effettivo perché – come accertato in sede di merito ed espressamente valutato ai fini della decisione da parte della Corte territoriale, senza che a tale riguardo l’odierno ricorrente abbia mosso contestazione alcuna – egli era titolare di una quota del 50% dell’intero capitale sociale, vale a dire di una quota tutt’altro che non significativa o comunque marginale.
Ne consegue che la prova testimoniale chiesta dal ricorrente era ininfluente, giacché le circostanze che precedono erano di per sé idonee a dimostrare l’esercizio di attività di impresa in nome proprio e nel proprio interesse da parte dello S. (anche se davvero egli si fosse, in concreto, limitato a meri compiti di amministrazione del patrimonio aziendale e ad incarichi di consulenza contabile e fiscale).
3- Del pari infondato è il secondo motivo di ricorso.
Preliminarmente deve darsi atto che persistono contrasti nella giurisprudenza di questa S.C. sul tema dell’esistenza o meno del potere della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti (qui di seguito indicata, anche più semplicemente, come “Cassa”) di annullare periodi contributivi durante i quali la professione sia stata svolta in situazione di incompatibilità, sebbene tale incompatibilità non sia stata accertata e sanzionata dal Consiglio dell’Ordine competente.
Un primo indirizzo giurisprudenziale nega alla Cassa tale potere quando la situazione di incompatibilità non sia stata già sanzionata dal competente Consiglio dell’Ordine con un provvedimento di cancellazione dall’albo del professionista (cfr., ad esempio, Cass. 13.4.96 n. 3493; Cass. 12.7.88 n. 4572; Cass. 6.7.88 n.4441), mentre altro orientamento glielo riconosce a prescindere da un previo provvedimento in tal senso (cfr., ad esempio, Cass. 25.1,88 n. 618; Cass. 4.4.03 n.5344), dovendo l’ente accertare il requisito dell’esercizio della professione periodicamente e comunque prima dell’erogazione dei trattamenti previdenziali od assistenziali (cfr. Cass. 15.4.05 n. 7830; Cass. 13.3.03 n. 5344).
Anche altre sentenze (cfr. Cass. 3,11.99 n. 12239; Cass. 12.7.95 n. 7637; Cass. 20.11.93 n. 11466; Cass. 9.11.91 n. 11948; Cass. 20.10.90 n. 10191; Cass. 21.11.87 n. 8601) asseriscono che, ai fini del conseguimento del diritto alle prestazioni previdenziali a carico della Cassa, il requisito dell’esercizio della libera professione di dottore commercialista, richiesto sia dall’art. 2 legge n. 100/63 che dall’art. 2 legge n. 21/86 (non avente sul punto carattere di innovazione), deve essere effettivo, sicché non può ravvisarsi nei periodi in cui l’interessato abbia svolto attività incompatibili con quella libero-professionale.
Dunque, implicitamente confermano l’esistenza d’un autonomo potere di accertamento da parte della Cassa.
L’ultima pronuncia in ordine di tempo emessa dalla Sezione Lavoro di questa S.C. – la n. 13853 del 15.6.09 – opta, invece, per la soluzione negativa.
In essa si è affermato che, implicando inevitabilmente la verifica del diritto all’iscrizione all’albo, accertare non solo l’avvenuto svolgimento dell’esercizio della professione, ma anche la sua legittimità, trascende i poteri della Cassa di Previdenza, trattandosi di attribuzione esclusiva del Consiglio dell’Ordine dei dottori commercialisti (competente territorialmente) e da esercitarsi con le garanzie previste dall’art. 34 d.P.R. n. 1067/1953 in tema di “Cancellazione dall’albo o dall’elenco” (vale a dire con audizione dell’interessato e possibilità di proporre ricorso al Consiglio nazionale, ricorso avente efficacia sospensiva del provvedimento di cancellazione).
Sempre la summenzionata sentenza n. 13853/09 ritiene che il potere della Cassa di rendere inefficaci alcuni periodi ai fini previdenziali – in ragione della rilevata esistenza di situazioni di incompatibilità – non può ricavarsi dal regolamento emanato dalla Cassa medesima il 24.6.94, giacché il potere regolamentare delegato attiene solo, ai sensi dell’art. 22 co. 3° legge 29.1.86 n. 21, al l’accertamento della sussistenza del requisito dell’esercizio della professione, per cui la Cassa può determinare detti criteri, anche nel modo più ampio, ma non può decidere su questioni, come l’esistenza di cause di incompatibilità, riservate, senza deroghe di sorta, ad un organo diverso e cioè al Consiglio dell’Ordine.
Per l’effetto, risulterebbe illegittimo l’art. 7 del citato regolamento 24.6.94, secondo il quale “Ai fini previdenziali ed assistenziali, non si considerano utili alla maturazione dell’anzianità di iscrizione i periodi continuativi o cumuli di periodi frazionati superiori all’anno o multipli di esso, durante i quali l’attività professionale sia stata concretamente svolta in una delle condizioni di incompatibilità, previste dall’articolo 3 del D.P.R. n. 1067/1953 e successive integrazioni e modificazioni.”.
Infine, sempre la citata sentenza n. 13853/09 aggiunge che nell’ordinamento della Cassa dottori commercialisti manca una disposizione analoga a quelle vigenti per la Cassa avvocati e per la Cassa geometri.
Per la prima (quella degli avvocati), l’art. 2 co. 3° legge n. 319/1975 così recita: “In ogni caso l’attività professionale svolta in una delle situazioni di incompatibilità di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, e successive modificazioni, ancorché l’incompatibilità non sia stata accertata e perseguita dal Consiglio dell’Ordine competente, preclude sia l’iscrizione alla Cassa, sia la considerazione, ai fini del conseguimento di qualsiasi trattamento previdenziale forense, del periodo di tempo in cui l’attività medesima è stata svolta”.
Per la seconda (quella dei geometri) l’art. 22 co. 4° legge n. 773/1982 dispone: “È inefficace a tutti gli effetti l’iscrizione alla cassa di coloro che siano o siano stati illegittimamente iscritti all’albo professionale in violazione delle disposizioni di cui al R.D.L. 11 febbraio 1929, n. 274, art. 7”.
Osserva, invece, la già ricordata sentenza 4.4.03 n. 5344 di questa S.C. che in casi analoghi a quello per cui oggi è processo si pone una questione non di verifica in via incidentale della legittimità dell’iscrizione all’albo, bensì di titolarità del potere di verifica, da parte della Cassa, dell’esercizio della libera professione, che costituisce requisito fondamentale (ancorché non esclusivo) per l’iscrizione alla Cassa medesima (ex art. 2 legge n. 100/63).
Infatti, secondo l’art. 3 d.P.R. n. 1067/53, per esercitare la professione di dottore commercialista è necessario (v. artt. 2 e 6), oltre al titolo professionale, l’essere iscritto nell’albo del circondario in cui viene esercitata l’attività, attività incompatibile – fra altre – con l’esercizio del commercio, in nome proprio o in nome altrui.
D’altronde, prosegue la sentenza n. 5344/03, mentre la legge istitutiva della Cassa si limitava a prevedere (art. 11, lettera b, L. n. 100/63) che per esservi iscritti occorreva, oltre all’iscrizione all’albo, l’esercizio della libera professione, la legge di riforma (la 29.1.1986 n. 21) contiene due disposizioni che abilitano e, anzi, impongono alla Cassa di verificare la sussistenza di tale secondo requisito. Infatti, ex art. 22 co. 3° legge n. 21/86 la Cassa accerta “la sussistenza del requisito dell’esercizio della professione… periodicamente e comunque prima dell’erogazione dei trattamenti previdenziali e assistenziali” effettuando “all’atto della domanda di pensione”, controlli (v. art. 20 stessa legge) finalizzati ad accertare la “corrispondenza tra le comunicazioni inviatele)… e le dichiarazioni annuali dei redditi e del volume di affari… (degli) ultimi quindici anni”, anche per “conoscere elementi rilevanti quanto all’iscrizione e alla contribuzione”.
In atti e parole, sempre secondo la citata sentenza n. 5344/03 di questa S.C., prima dell’erogazione dei trattamenti la Cassa è tenuta ex lege a verificare l’esistenza del requisito del legittimo esercizio della professione, che si manifesta, tra l’altro, nell’assenza di situazioni d’incompatibilità.
Ritiene questo Collegio di aderire a tale ultimo orientamento.
In primo luogo va notato che l’obiezione secondo cui per i dottori commercialisti manca una disposizione analoga a quelle vigenti per la Cassa avvocati e per la Cassa geometri non appare decisiva, perché – a monte – non lo è l’uso del brocardo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, ormai storicamente non più proponibile per suffragare assunti di completezza degli ordinamenti giuridici (il che vale ancor più nel nostro, che consente il ricorso tanto alla norma generale inclusiva quanto a quella esclusiva, senza stabilire una gerarchia fra le due).
Del pari non dirimente si rivela la valorizzazione della potestà monopolistica del Consiglio dell’Ordine sui provvedimenti di cancellazione dall’albo per incompatibilità, perché tale potestà concerne la cancellazione come possibile esito di una cognizione sull’esistenza di ipotesi di incompatibilità nell’esercizio della professione, mentre nel caso di specie quella della Cassa sarebbe pur sempre una cognizione finalizzata non già a porre nel nulla l’iscrizione all’albo, ma a verificare uno dei presupposti per l’erogazione del trattamento pensionistico, vale a dire l’avvenuto (legittimo) esercizio della professione (v. art. 22 co. 3° cit. legge n. 21/86).
A tale proposito va sgomberato il campo dall’equivoco, potenzialmente insidioso, secondo cui il riferimento al mero “esercizio della professione” (che si legge nel co. 3° del cit. art. 22) limiti l’indagine della Cassa al solo svolgimento dell’attività professionale e non anche al fatto che esso sia avvenuto legittimamente, ovvero in assenza di cause di incompatibilità.
In realtà è agevole rilevare che il precedente art. 20 espressamente attribuisce alla Cassa un potere di controllo (esercitato attraverso la richiesta di fornire documenti e compilare questionari) su “elementi rilevanti quanto all’iscrizione e alla contribuzione” e che l’eventuale mancata collaborazione da parte dell’interessato (che non risponda entro 90 giorni dalla richiesta) importa sospensione del trattamento pensionistico.
Sarebbe davvero singolare attribuire alla Cassa la facoltà di “esigere” (così si esprime il cit. art. 20) dall’iscritto o dai suoi aventi diritto, sotto comminatoria di sospensione del trattamento pensionistico, notizie e documenti concernenti solo il fatto storico dell’esercizio della professione e non anche la sua legittimità, ossia riconoscerle poteri autoritativi di natura oggettivamente amministrativa senza nel contempo pretendere che con essi si accerti che l’assicurato abbia maturato legittimamente il proprio credito pensionistico.
D’altro canto, se ai sensi del cit. art. 20 legge n. 21/86 la Cassa può esigere dall’assicurato “elementi rilevanti quanto all’iscrizione e alla contribuzione”, ciò vuol dire che non deve limitarsi alla mera verifica formale dell’attuale iscrizione (all’albo, deve intendersi, poiché la Cassa conosce per scienza diretta i propri iscritti) o del perdurare di essa nel periodo oggetto della prestazione erogabile: infatti, gli albi professionali sono pubblici e consultabili da chiunque.
Pertanto, non avrebbe alcun senso una norma apposita che autorizzasse la Cassa a domandare all’interessato una circostanza che può apprendere da sé e che, per di più, sanzionasse con la sospensione del trattamento previdenziale od assistenziale la mancata collaborazione dell’interessato a fornire una notizia conoscibile da chiunque.
In breve, non sembra sostenibile che dalla pur ampia dizione degli “elementi rilevanti quanto all’iscrizione” debba espungersi proprio quello di maggior spessore, vale a dire l’avere l’interessato mantenuto l’iscrizione alla Cassa legittimamente (ovvero in assenza di cause di incompatibilità), ancor più se si considera la perdurante funzione pubblicistica (v. art. 2 d.lgs. 30.6.94 n. 509) svolta dalla Cassa medesima pur dopo la sua trasformazione in ente di diritto privato.
Dunque, per chiudere il punto, una coerente sintesi fra l’art. 20 e l’art. 22 co. 3° cit. legge n. 21/86 induce a concludere che l’accertamento “della sussistenza del requisito dell’esercizio della professione” debba intendersi implicitamente e necessariamente esteso alla sua legittimità.
Tornando alla pretesa attribuzione esclusiva al Consiglio dell’Ordine di qualsivoglia controllo circa il legittimo esercizio della professione, emerge un oggettivo ostacolo nel caso in cui l’iscrizione sia cessata per avere l’interessato chiesto alla Cassa il trattamento pensionistico d’anzianità (come avvenuto nel caso di specie), cessazione che in concreto sottrae anche al Consiglio dell’Ordine la potestà in discorso, che non potrebbe più essere esercitata per il venir meno del relativo oggetto.
Nel contempo, negandosi alla Cassa qualsivoglia verifica proprio nel momento in cui deve erogare il trattamento di maggior impegno economico (quello pensionistico), si perverrebbe ad un singolare esito interpretativo: nessuno potrebbe più verificare il legittimo e continuativo esercizio della professione di dottore commercialista, che pur costituisce, in realtà, un autonomo requisito per l’iscrizione non solo all’albo, ma anche alla Cassa (v. artt. 2 legge n. 100/63 e 22 legge n. 21/86).
Si tratta di requisito rilevante su due piani diversi (quello strettamente professionale e quello previdenziale), fra loro paralleli (e, perciò, senza reciproche interferenze).
Il suo accertamento non avviene una volta per tutte, ma va reiterato nel corso del tempo, se è vero come è vero che ai sensi dell’art. 22 co. 3° cit. legge n. 21/86 la Cassa ne effettua controlli periodici “e comunque prima dell’erogazione dei trattamenti previdenziali ed assistenziali”.
Tali accertamenti sono eseguiti “sulla base dei criteri stabiliti da! comitato dei delegati” (v., ancora, cit. art. 22 co. 3°), che è uno degli organi della Cassa (v. art. 3 legge n. 100/63).
Ciò conferma che quest’ultima non deve puramente e semplicemente attenersi al mero dato formale (controllato da altri, cioè dal Consiglio dell’Ordine) della perdurante iscrizione all’albo: diversamente, non avrebbero senso alcuno né le verifiche periodiche né i relativi criteri stabiliti in proprio seno dalla Cassa medesima (che, dunque, non si limita a scorrere l’albo per controllare l’arco temporale entro il quale l’assicurato vi figuri iscritto).
Quello dei criteri di verifica stabiliti dalla Cassa stessa costituisce avallo ulteriore dell’assunto per cui, in realtà, anche ad essa è normativamente attribuita – sia pure per implicito e ai fini suoi propri – un’autonoma potestà di verifica del legittimo esercizio della professione (e, quindi, dell’inesistenza di cause di incompatibilità, alla stregua di quanto precede).
Dall’autonomia della potestà di verifica (anche) in capo alla Cassa (sia pure per fini suoi propri) del requisito del legittimo esercizio della professione discende il corollario per cui nulla impone che per negare il requisito in discorso debbano necessariamente attivarsi a favore dell’interessato le stesse garanzie difensive previste innanzi al Consiglio dell’Ordine dall’art. 34 d.P.R. n. 1067/53 in vista di un effetto diverso, vale a dire dell’eventuale cancellazione dall’albo per incompatibilità,
È pur vero che tale concorrente autonoma valutazione su una medesima situazione giuridica – la configurabilità o meno di una causa di incompatibilità – da parte di due differenti soggetti (il Consiglio dell’Ordine dei dottori commercialisti e la relativa Cassa) può dare luogo ad esiti sostanzialmente contraddittori: tuttavia l’evenienza è nel sistema (non spetta a questa S.C. stabilire se ciò sia opportuno), basti pensare che è quel che già ora può avvenire per altri liberi professionisti come gli avvocati e i geometri, le cui casse previdenziali godono di un’esplicita autonoma potestà di accertamento di eventuali incompatibilità nell’esercizio della professione (come sopra si è ricordato).
Da ultimo, ma non per questo meno importante, si tenga presente che la soluzione qui accolta trova conforto nella necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 22 co, 3° legge n. 21/86 alla luce dell’art. 38 co. 2° Cost.
Si ricordi, infatti, che con sentenza n. 420/88 la Corte cost. ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 co. 3° legge 22.7.75 n. 319 (riguardante la previdenza forense) nella parte in cui esclude dal diritto al trattamento di quiescenza i soggetti che – nello stesso periodo di esercizio della professione forense – si siano trovati in una delle situazioni di incompatibilità previste dall’ordinamento professionale, sebbene non accertate né perseguite. In quella occasione il giudice delle leggi (sia pure con riferimento alla previdenza forense) ha affermato che l’art. 38 co. 2° Cost. non può estendere la propria funzione di garanzia nei confronti di attività svolte in violazione di precise norme di legge e, in particolare, di quelle intese alla tutela dell’interesse generale alla continuità e all’obiettività della professione.
4-In conclusione, il ricorso è da rigettarsi (il che assorbe la questione di legittimità costituzionale che nella propria memoria ex art. 378 c.p.c. la controricorrente ha chiesto, in subordine, di sollevare ove si fosse ritenuto fondato il secondo motivo di impugnazione).
L’esistenza di precedenti di questa Corte fra loro contrastanti consiglia di compensare per intero fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa per intero fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
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