CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 novembre 2013, n. 25683
Tributi – Condono fiscale – Carichi pregressi – Debito – Versamento somme ad estinzione – Definizione agevolata – Importo – Determinazione – Considerazione – Esclusione
Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Piemonte, con sentenza 8.11.2005 n. 36 dichiarava inammissibile l’atto di appello proposto dall’Ufficio di Alessandria della Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Alessandria in data 13.3.2002 n. 56 che aveva dichiarato la estinzione per cessata materia del contendere del giudizio relativo alla opposizione della ditta M.G. & F. s.n.c. avverso l’avviso di rettifica volto a recuperare l’IVA dovuta per l’anno 1996 in conseguenza di disconoscimento del credito di imposta, pari a lire 25.121.000, esposto nella precedente dichiarazione annuale IVA.
I Giudici territoriali rilevato che la CTP aveva correttamente dichiarato estinto il giudizio, ai sensi dell’art. 48 comma 5 Dlgs n. 546/1992, in conseguenza di regolare accertamento della adesione preventiva della società contribuente alla proposta di conciliazione dell’Ufficio nonché di versamento della prima rata dell’importo liquidato, e rilevato altresì che in seguito alla modifica dell’art. 48 comma 3 del Dlgs n. 546/1992 era venuto meno il potere dell’Ufficio di iscrivere direttamente a ruolo il credito residuo in caso di omesso pagamento delle successive rate, essendo quindi onerato l’Ufficio finanziario della impugnazione della sentenza dichiarativa della estinzione del giudizio onde vedere accertato il predetto credito, consideravano quale “dies a quo” di decorrenza del termine di decadenza per la proposizione della impugnazione la data di scadenza della rata non versata (2.1.2003), con la conseguenza che l’appello depositato presso la Segreteria della CTR in data 22.1.2004, anche a tener conto della sospensione dei termini nel periodo feriale, doveva ritenersi tardivo e dunque inammissibile.
Avverso la sentenza di appello, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate con atto ritualmente notificato in data 22.12.2006, deducendo due motivi, ai quali resiste con controricorso la società contribuente allegando di aver aderito, nelle more del giudizio di appello, all’invito del Concessionario del servizio di riscossione per la definizione agevolata della lite ai sensi dell’art. 12 legge n. 289/2002, provvedendo a versare in data 16.4.2003 la somma dovuta e ad estinguere il debito, ed eccependo quindi la inammissibilità del ricorso per cassazione.
Motivi della decisione
1. La questione pregiudiziale (supportata dal deposito dei relativi documenti ai sensi dell’art. 372 co 1 c.p.c.) va risolta nel senso della infondatezza avuto riguardo:
a) ai differenti presupposti ed alla diversa disciplina normativa delle ipotesi di condono tributario previste, rispettivamente, dall’art. 12 (crediti tributari relativi a ruoli emessi da uffici dello Stato ed affidati ai Concessionari nazionali per la riscossione) e dell’art. 16 (crediti tributari relativi a liti fiscali pendenti avanti il Giudice tributario od il Giudice ordinario) della legge n. 289/2002, tali che il ricorso dell’una esclude la ricorrenza anche dell’altra;
b) agli effetti determinati sul rapporto controverso dalla sentenza della CTP di Alessandria in data 13.3.2002, dichiarativa della estinzione del giudizio per intervenuta conciliazione stragiudiziale.
1.1 Quanto alla prima questione, la procedura di definizione agevolata del rapporto tributario, esperita dalla contribuente ai sensi dell’art. 12 legge n. 289/2002, deve ritenersi del tutto inefficace ai fini della definizione della lite pendente, attesa la oggettiva diversità dei presupposti e delle modalità di liquidazione degli importi previsti per i “crediti litigiosi” (art. 16 legge n. 289/2002) e per i crediti invece “divenuti definitivi” (iscritti a ruolo e consegnati ai Concessionari per la riscossione, per la notifica della cartella di pagamento) per omessa impugnazione dell’atto impositivo da parte del contribuente (art. 12 legge n. 289/2002): sul punto non può che confermarsi il principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui ” in tema di condono fiscale, le somme versate dal contribuente, ai sensi dell’art. 12 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ad estinzione del debito inerente a carichi di ruolo pregressi, non possono essere in alcun modo tenute in conto nella determinazione dell’importo da versare per ottenere la definizione agevolata della lite fiscale pendente, ai sensi dell’art. 16 della medesima legge, trattandosi di procedure di definizione connotate da un’indiscutibile autonomia, cui corrisponde una diversa disciplina sostanziale e processuale, e tra le quali non è quindi ipotizzabile alcuna interferenza” (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 9328 del 20/04/2006; id. Sez. 5, Sentenza n. 7697 del 27/03/2013), dovendo – peraltro – aggiungersi la considerazione dirimente, che, in materia di tributi armonizzati (qual è l’imposta sul valore aggiunto), ipotesi che ricorre nel caso di specie, la norma sulla definizione agevolata di cui all’art. 12 della legge n. 289/2002 non può operare in quanto, nella parte in cui consente di definire una cartella esattoriale con il pagamento del 25% dell’importo iscritto a ruolo, comporta una rinuncia definitiva dell’Amministrazione alla riscossione di un credito già definitivamente accertato, e dunque deve ritenersi incompatibile per contrasto con la VI direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, per le medesime ragioni ravvisate dalla sentenza della Corte di Giustizia CE 17 luglio 2008, in causa C-132/06, che ha dichiarato l’incompatibilità con il diritto comunitario (in particolare con gli artt. 2 e 22 della VI direttiva cit.) degli artt. 8 e 9 della medesima legge, nella parte in cui prevedono la condonabilità dell’IVA alle condizioni ivi indicate (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 3674 del 17/02/2010).
1.2 Quanto alla questione evidenziata sopra alla lett. b), occorre osservare che, se all’atto di conciliazione deve riconoscersi effetto novativo del rapporto di diritto sostanziale controverso, ne segue la palese irrilevanza del procedimento di condono di cui all’art. 12 della legge n. 289/2002, essendo venuto meno – in conseguenza della conciliazione e della pronuncia estintiva del giudizio – lo stesso oggetto della definizione agevolata, in quanto riferita ad un credito tributario (come individuato nella originaria pretesa tributaria contestata in giudizio) non più esistente in quanto novato dal credito concordato.
1.3 La eccezione pregiudiziale deve pertanto essere rigettata.
2. Venendo all’esame del ricorso principale, occorre premettere che la disciplina della conciliazione giudiziale dei rapporti tributari, contenuta nell’art. 48 Dlgs n. 546/1992, ha imposto, fin dalla prima applicazione, notevoli sforzi interpretativi, avendo omesso il Legislatore di prevedere il necessario raccordo tra l’attività conciliativa svolta avanti il Giudice tributario e la fase di adempimento di tale accordo, non essendo stato definito il coordinamento tra l’effetto estintivo del rapporto tributario controverso e la pronuncia di estinzione del giudizio pendente (per sopravvenuta cessazione della materia del contendere) nel caso di successivo inadempimento totale o parziale del contribuente al versamento dell’importo concordato.
2.1 La giurisprudenza di questa Corte si è formata secondo due distinti filoni interpretativi.
Un primo indirizzo giurisprudenziale (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 21325 del 03/10/2006; id. Sez. 5, Sentenza n. 20386 del 20/09/2006; id. Sez. 5, Sentenza n. 14300 del 19/06/2009) ha sostenuto l’efficacia novativa del rapporto determinata dall’atto di conciliazione, con conseguente legittimità della pronuncia di estinzione del giudizio emessa ai sensi dell’art. 46 comma 1 e 2 Dlgs n. 546/1992 in esito al mero “perfezionamento” della conciliazione (risultando comunque salvaguardato l’interesse della Amministrazione finanziaria all’adempimento dell’accordo, anche in difetto di impugnabilità della pronuncia di estinzione del giudizio, dalla immediata esperibilità della procedura di riscossione coattiva del credito residuo, liquidato nell’accordo conciliativo e rimasto insoluto, in base al “processo verbale” di conciliazione che la norma ha continuato a riconoscere titolo idoneo alla riscossione, anche dopo le modifiche introdotte dal Decreto legislativo del 19/6/1997 n. 218, articolo 14, che aveva espunto il rinvio operato all’art. 14 del Dpr n. 602/1973 ai fini della iscrizione a ruolo delle rate non pagate), Adduce a sostegno di tale soluzione interpretativa: 1-la definizione del “perfezionamento della conciliazione” con il versamento, entro venti giorni dalla redazione del processo verbale, dell’intero importo ovvero della prima rata unitamente al rilascio della garanzia richiesta sull’importo delle rate successive (in caso di frazionamento del versamento), 2-il riconoscimento al processo verbale redatto dal Giudice tributario di “titolo per la riscossione delle somme dovute”, 3-la equiparazione, quale titolo per la riscossione delle somme dovute, del “decreto di estinzione del giudizio” (che “tiene luogo del processo verbale” redatto dal Collegio) emesso dal Presidente della commissione ai sensi dell’art. 48 co 5 Dlgs n. 546/1992, in caso di proposta conciliativa dell’Ufficio con adesione preventiva del contribuente depositata prima della fissazione della udienza di trattazione, e comunicato alle parti per consentire al contribuente di effettuare il versamento dell’importo complessivo o della prima rata nel predetto termine di giorni venti dalla comunicazione.
Un altro indirizzo interpretativo (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 3560 del 13/02/2009), in seguito ad una approfondita rivisitazione dell’istituto alla luce anche delle continue sopravvenute modifiche legislative, è invece pervenuto ad escludere efficacia novativa del rapporto sostanziale controverso all’accordo conciliativo (in considerazione della diversa estensione degli effetti, rispettivamente, riconducibili al “perfezionamento della conciliazione”, mediante versamento della prima rata e prestazione della garanzia (perfezionamento inteso, quindi, come procedimento volto alla conclusione dell’accordo negoziale), e riconducibili, invece, al “fatto sopravvenuto, estintivo del giudizio pendente”, consistente nell’effettivo integrale adempimento dell’accordo conciliativo mediante pagamento del complessivo importo rateizzato (cui consegue la cessazione della materia del contendere, che soltanto può legittimare la pronuncia estintiva del giudizio pendente ai sensi dell’art. 46 co 1 Dlgs n. 546/1992), potendo giustificarsi una parziale rinuncia della PA alla maggiore pretesa contestata in giudizio, soltanto nel caso di integrale adempimento della obbligazione concordata, con l’ulteriore corollario che una eventuale pronuncia di estinzione adotta dalla CTP, alla stregua soltanto dell’intervenuto “perfezionamento dell’atto di conciliazione” (con il pagamento della prima rata e prestazione della garanzia), deve ritenersi affetta da vizio di nullità processuale (per violazione degli artt. 46 e 48 Dlgs n. 546/1992) e pertanto suscettibile di essere gravata immediatamente di appello dalla Amministrazione finanziaria, in quanto, se la efficacia di titolo idoneo alla riscossione, riconosciuta al processo verbale di conciliazione, attribuisce alla PA un potere di autotutela in ordine alla realizzazione dell’accordo conciliativo, tale facoltà non esclude, tuttavia – trattandosi di scelta eminentemente discrezionale riservata alla Amministrazione finanziaria – l’esperimento degli ordinari rimedi apprestati per conseguire, in caso di inadempimento del contribuente, una pronuncia di merito sull’originaria pretesa tributaria dedotta in giudizio.
2.2 Occorre inoltre rilevare che le indicate difficoltà di interpretazione sistematica degli artt. 46 e 48 Dlgs n. 546/1992, si riferiscono al testo normativo dell’art. 48 Dlgs n. 546/1992 vigente nel periodo 1.4.1998 (a seguito della modifica dell’art. 14 Dlgs n. 218/1997 che aveva soppresso il rinvio contenuto nell’art. 48 co 3 Dlgs n. 546/92 alla norma sul procedimento di riscossione del credito inadempiuto mediante iscrizione a ruolo) 1.1.2005, in quanto a decorrere da tale data, l’art. 1 della legge 30.12.2004 n. 311, ha introdotto il comma 3 bis dell’art. 48 Dlgs n. 546/1992, ripristinando l’originaria previsione normativa che consentiva in caso di inadempimento dell’accordo conciliativo la immediata iscrizione a ruolo dell’importo residuo del credito tributario, e rafforzando la tutela del Fisco con l’assoggettamento del garante alla medesima procedura di riscossione coattiva (cfr. comma 3 bis “In caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate successive se il garante non versa l’importo garantito entro trenta giorni dalla notificazione di apposito invito, contenente l’indicazione delle somme dovute e dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa, il competente ufficio della Agenzia delle entrate provvede all ‘iscrizione a ruolo delle predette somme a carico del contribuente e dello stesso garante”).
2.3 Tanto premesso,al secondo indirizzo giurisprudenziale sembra aver aderito la CTR piemontese laddove ha ritenuto che l’Ufficio finanziario, in caso di inadempimento dell’accordo conciliativo per omesso pagamento delle rate successive, non fosse legittimato alla iscrizione a ruolo dell’importo relativo al residuo credito, residuando soltanto la facoltà di impugnazione della sentenza dichiarativa della estinzione del giudizio al fine di far valere la originaria pretesa di cui all’atto impositivo opposto nel giudizio dichiarato estinto.
La CTR nell’evidente necessità di dover conciliare la disciplina dei termini di impugnazione delle sentenze con la eventualità di un inadempimento dell’accordo conciliativo realizzatosi solo in tempo successivo alla scadenza dei predetti termini, ha adottato la soluzione della applicazione del termine breve di cui all’art. 51 co 1 Dlgs n. 546/1992 tuttavia decorrente dalla data di scadenza della rata non pagata.
2.4 Orbene la questione controversa che viene sottoposta alla Corte è circoscritta esclusivamente alla individuazione del termine processuale di impugnazione delle sentenze tributarie applicabile alla fattispecie.
Con i due motivi di ricorso – che debbono essere esaminati congiuntamente [in quanto il secondo (violazione e falsa applicazione dell’art. 51 co ed art. 38 co 3 Dlgs n. 546/1992) completa la esposizione argomentativa in diritto del primo (vizio logico di motivazione, non avendo la CTR argomentato la “ratio decidendi” che presiedeva alla scelta del termine breve previsto dalla legge per la proposizione del ricorso in appello avverso la sentenza dichiarativa della estinzione del giudizio pronunciata ai sensi dell’art. 48 Dlgs n. 546/1992) che, pertanto, non riveste carattere autonomo, venendo la Agenzia ricorrente a censurare un vizio consistente in “error juris” e non anche una errata ricostruzione della fattispecie concreta dedotta in giudizi]. La Agenzia fiscale, condividendo la premessa della sentenza di appello secondo cui, in caso di mancato pagamento delle successive rate concordate nell’atto di conciliazione doveva ritenersi esperibile l’appello avverso la sentenza di primo grado che aveva pronunciato la estinzione del giudizio, decorrendo il termine di impugnazione dalla data di scadenza della rata trimestrale insoluta, critica invece la conclusione cui sono pervenuti i Giudici territoriali nella individuazione del termine breve di decadenza (gg. 60 dalla notifica delle sentenza, previsto dall’art. 51 co 1 Dlgs n. 546/92) con conseguente inammissibilità dell’appello notificato in data 9.1.2004 e depositato presso la Segreteria del Giudice tributario in data 22.1.2004, sostenendo al contrario che, in difetto di notifica della sentenza di primo grado, il termine applicabile doveva individuarsi in quello “lungo” di un anno, indicato nell’art. 38 co3 DIgs n. 546/92, decorrente dalla pubblicazione della sentenza depositata in data 13.3.2002 ma “con effetto” dalla data del mancato versamento della rata (2.1.2003), in relazione al quale l’appello era da ritenersi tempestivo.
2.5 I motivi sono infondati.
2.6 Ritiene il Collegio corretta la premessa, sviluppata dal secondo indirizzo giurisprudenziale, secondo cui il perfezionamento del negozio conciliativo (che si realizza validamente con il pagamento della prima rata e la prestazione della garanzia) debba essere tenuto distinto dal fenomeno satisfattivo della pretesa tributaria (che si realizza compiutamente soltanto con il versamento dell’intero importo dovuto), occorrendo tuttavia fornire ulteriori esplicitazioni in ordine alla disciplina dei rimedi utilizzabili dalla Amministrazione finanziaria in caso di inadempimento dell’accordo conciliativo.
2.7 La inesatta collocazione sistematica del fenomeno della “cessazione della materia del contendere” tra le norme del processo tributario che disciplinano i casi di estinzione del giudizio (art. 46 Dlgs n. 546/1992) è fonte di evidenti equivoci non essendo compatibili gli effetti determinati dalla estinzione del giudizio con l’interesse manifestato dalle parti nell’accordo conciliativo giudiziale (o transattivo stragiudiziale che viene prodotto in giudizio)
Ed infatti la cessazione della materia del contendere (che, se si verifica in sede d’impugnazione, giustifica non già l’inammissibilità dell’appello o del ricorso per cassazione, bensì la rimozione delle sentenze emesse nel precedente grado, perché prive di attualità) si ha per effetto della sopravvenuta carenza d’interesse della parte alla definizione del giudizio, postulando che siano accaduti nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestato l’effettivo venir meno dell’interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito, senza che debba sussistere un espresso accordo delle parti anche sulla fondatezza (o infondatezza) delle rispettive posizioni originarie nel giudizio, perché altrimenti non vi sarebbero neppure i presupposti per procedere all’accertamento della soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese, che invece costituisce il naturale corollario di un tal genere di pronuncia, quando non siano le stesse parti a chiedere congiuntamene la compensazione delle spese (cfr. Corte cass. I sez. 7.5.2009 n. 10553).
Il fatto determinativo della cessazione della materia del contendere non coincide, pertanto, con la condotta processuale con la quale si “riconosce il diritto” in contestazione (aderendo alla domanda) o si “rinuncia alla pretesa” fatta valere in giudizio (rinuncia all’azione), che determinano in ogni caso una pronuncia di merito sul rapporto dedotto in giudizio, né con la condotta processuale diretta alla “rinuncia agli atti del giudizio” (art. 306, 390-391 c.p.c.; art. 44 DIgs n. 546/1992), che deve peraltro essere accettata dalle parti che hanno interesse a proseguire il giudizio (rinuncia che, come noto, se intervenuta in primo grado non pregiudica il diritto sostanziale conteso, bene potendo la parte rinunciante riproporre la medesima azione in altro giudizio), e neppure con altre condotte processuali omissive (inerzia delle parti nel proseguire o riassumere il giudizio od integrare il contraddittorio) cui viene ricondotto l’effetto estintivo del giudizio (art. 307 c.p.c.; art. 45 Dlgs n. 546/1992), infatti, mentre la estinzione del processo -nel giudizio di impugnazione- determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come definita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione (art. 338 c.p.c.), la cessazione della materia del contendere implica invece il sopravvenire di un fatto nuovo, esterno al processo, diretto ad estinguere, modificare o sostituire l’originario rapporto controverso, e dunque a far venire meno l’oggetto stesso del giudizio -costituito dalle originarie contrapposte pretese/difese delle parti- e che, da un lato, priva dette parti dell’interesse ad ottenere una -ormai inutile- pronuncia determinativa della regola del rapporto giuridico sostanziale, e dall’altro rende del tutto privo di funzione pratica il regolamento di un non più attuale assetto di interessi stabilito dalla pronuncia di merito impugnata -che in caso di declaratoria di estinzione del giudizio o di inammissibilità sopravvenuta della impugnazione, passerebbe in giudicato- (cfr. Corte cass. I sez. 13.9.2007 n. 19160; id. 1 sez. 7.12.2004 n. 22972. Nel caso in cui la cessazione della materia del contendere sia rilevata dal Giudice della impugnazione questi dovrebbe, pertanto, annullare o cassare senza rinvio la sentenza impugnata, non potendo riconoscersi la idoneità al passaggio in giudicato di una regolamentazione del rapporto controverso non più attuale né voluta dalle parti: Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 19533 del 23/09/2011; id. Sez. 5, Ordinanza n. 13109 del 25/07/2012).
2.8 La indicata differenza concettuale tra effetto estintivo del giudizio e cessazione della materia del contendere chiaramente riassunta nel principio di diritto secondo cui “/a cessazione della materia del contendere costituisce, nel rito contenzioso civile, una fattispecie di estinzione del processo, creata dalla prassi giurisprudenziale e contenuta in una sentenza dichiarativa della impossibilità di procedere alla definizione del giudizio per il venir meno dell’interesse delle parti alla naturale conclusione del giudizio stesso, tutte le volte in cui non risulti possibile una declaratoria di rinuncia agli atti o di rinuncia alla pretesa sostanziale. Ne consegue l’assoluta inidoneità di detta pronuncia ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, potendo essa acquisire tale efficacia di giudicato sul solo aspetto del venir meno dell’interesse alla prosecuzione del processo” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 1048 del 28/09/2000; id. Sez. L, Sentenza n. 9332 del 10/07/2001; id. Sez. L, Sentenza n. 7450 del 21/05/2002; id. Sez. L, Sentenza n. 3122 del 03/03/2003; id. Sez. 1, Sentenza n. 4714 del 03/03/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 12887 del 04/06/2009; id. Sez, L, Sentenza n. 7185 del 25/03/2010) è stata espressamente considerata anche dalle norme processuali tributarie laddove sono state distintamente previste, da un lato, le ipotesi di estinzione del processo per rinuncia al ricorso (art. 44 Dlgs. n, 546/1992) e per inattività delle parti (art. 45 Dlgs n. 546/1992) e, dall’altro, -se pure con infelice ed impropria espressione terminologica- la “estinzione” nei casi di “definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere” (art. 46 co 1 Dlgs n. 546/1992), ivi l’accostamento con la definizione del rapporto tributario è sintomatica della diretta incidenza che il fatto sopravvenuto -in conseguenza del quale viene a cessare la materia del contendere- spiega sul piano sostanziale (e non quindi sul piano meramente processuale) dell’assetto degli interessi delle parti (cfr. Corte cass. I sez. 29.1.1997 n. 917; id. V sez. 15.9.2009 n. 19821 che evidenzia chiaramente la relazione di pregiudizi alita, con conseguente sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., tra il giudizio avente ad oggetto il perfezionamento del condono e la causa avente ad oggetto la impugnazione dell’atto impositivo, venendo a determinare l’accertamento dell’avvenuto perfezionamento della definizione agevolata del rapporto la cessazione della materia de! contendere in ordine alla causa pregiudicata; id. V sez. 29.12.2010 n. 26273 -“in tema di contenzioso tributario, la declaratoria, con sentenza definitiva, di estinzione del giudizio concernente cartelle di pagamento per cessazione della materia del contendere, a seguito di condono, ai sensi della legge 30 dicembre 1991, n. 413, determina il venir meno della originaria pretesa sostanziale, avanzata nei confronti del contribuente con ingiunzioni fiscali con la conseguenza che, anche nel giudizio relativo a quest’ultima (ndr avente ad oggetto la impugnazione dell’atto impositivo presupposto), va dichiarata la cessazione della materia del contendere (Corte cass. V sez. 23.9.2011 n. 19533).
Indicative appaiono, in proposito, le norme in materia di condono tributario che, pur prevedendo in caso di adesione del contribuente al condono l’effetto della “estinzione dei giudizi pendenti”, intendono inequivocamente riferirsi alla cessazione dalla materia del contendere ex art. 46 Dlgs n. 546/1992 (cfir.: art. 34 co 5 legge 30.12.1991 n. 413 “I giudizi si estinguono mediante ordinanza subordinatamente alla esibizione da parte del contribuente di copia, anche fotostatica, della dichiarazione integrativa e della ricevuta comprovante la consegna all’ufficio postale della lettera raccomandata di trasmissione della dichiarazione stessa”, salvo che la Amministrazione non abbia comunicato i motivi di invalidità della dichiarazione dai quali consegue la mancata estinzione della controversia; art. 2 quinquies commi 1 e 9 DL 30.9.1994 n. 564 conv. in legge 30.11.1994 n. 656 che dispone la estinzione delle liti fiscali pendenti demandando ad apposito regolamento di attuazione “le modalità per la presentazione delle domande…, le procedure per il controllo delle stesse, e le modalità per le estinzioni dei giudizi art. 16 co 8 legge 27.12.2002 n. 289 “l‘estinzione del giudizio viene dichiarata a seguito di comunicazione degli uffici…attestante la regolarità della domanda di definizione ed il pagamento integrale di quanto dovuto”, in caso contrario gli uffici comunicano l’eventuale diniego della definizione).
2.9 Se dunque l’accordo intervenuto tra le parti è volto a ridefinire l’assetto di interessi relativo al rapporto dedotto in giudizio, sostituendo al regolamento disposto dal Giudice quello voluto dalle parti (nella specie, essendo espressamente limitata la conciliazione avanti il Giudice di primo grado – art. 48 co 2 Dlgs n. 546/92, le parti intendono evidentemente rinunciare a definire la controversia in sede giurisdizionale), non vi è ostacolo a ravvisare anche nell’accordo conciliativo ex art. 48 Dlgs n. 546/1992 un fatto sopravvenuto determinativo della cessazione della materia del contendere ex art. 46 Dlgs n. 546/1992, venendo a riverberare l’esatto adempimento dell’accordo, non sul processo il cui ordinario esito non interessa più alle parti, ma sul distinto piano della esecuzione delle obbligazioni assunte e dei rimedi apprestati dall’ordinamento a tutela dell’interesse del creditore all’adempimento. A tale conclusione conduce anche la previsione normativa del comma 3 dell’art. 48 – e per estensione del comma 5 – Dlgs n. 546/1992 che ricollega il perfezionamento dell’accordo conciliativo alla prestazione di apposita garanzia per l’importo delle rate a scadere, il rafforzamento della tutela del credito derivante dall’accordo induce, infatti, a ritenere che il Legislatore processuale abbia inteso ritenere conclusa -anche in funzione deflattiva- la vicenda processuale con il perfezionamento della conciliazione, assicurando la successiva soddisfazione del credito erariale affiancando al contribuente-debitore anche l’obbligato in garanzia (il quale dopo la riforma della legge n. 311/2004, in caso di inadempimento del contribuente, può essere direttamente escusso mediante la procedura di riscossione coattiva di cui al Dpr n. 602/1973).
2.10 Non può escludersi che le parti abbiano convenuto di differire la definizione della lite, sino alla compiuta esecuzione degli obblighi rispettivamente assunti con l’accordo, ma tale effetto rimane estraneo alla disciplina dell’ordinato svolgimento del processo, infatti il potere dispositivo delle parti non può estendersi -ostandovi esigenze di ordine pubblico processuale, che trovano espressione nel principio costituzionale di ragionevole durata del processo ex art. 111 comma 2 Cost.- fino al punto di determinare “ad libitum” la durata del giudizio, oltre i limiti ad esse consentiti dalle norme processuali (cfr. art. 296 c.p.c. che prevede il termine massimo di sospensione del processo su concorde richiesta di tutte le parti. La indicazione, anche per relationem, di un termine massimo contraddistingue anche tutte le altre ipotesi di sospensione del processo: artt. 41 e 367 c.p.c.; artt. 48-50 c.p.c.; art. 279 co 4 c.p.c. ed art. 125 bis disp. att. c.p.c.; art. 295; art. 337 co 2 c.p.c.; artt. 129 bis e 133 bis disp. att. c.p.c.).
2.11 Se dunque il fenomeno satisfattivo del credito -accertato e liquidato nell’accordo conciliativo- si pone anche cronologicamente al di fuori del processo e (salvo i casi in cui la sospensione del processo sia disposta espressamente dalla legge in funzione deiradempimento degli obblighi assunti -ipotesi che non ricorre nel caso di specie- come ad esempio è previsto dall’art. 16 comma 6 della legge n. 289/2002 ai fini della definizione agevolata delle liti pendenti) non può, pertanto, condizionare la durata del giudizio, che è disciplinata esclusivamente dalla legge, e se, come si è visto, alcuna norma di legge prevede la sospensione del processo in funzione dell’adempimento degli obblighi scaturenti dalla conciliazione giudiziale o stragiudiziale della lite tributaria (né possono trarsi elementi in contrario dalla previsione del frazionamento rateale del pagamento: se per un verso, la previsione di una rateizzazione fini al massimo di tre anni dodici rate trimestrali- appare inconciliabile con il principio di ragionevole durata del processo, per altro verso deve escludersi la possibilità di ricavare per implicito dalla rateizzazione la “voluntas legis” di una sospensione -necessaria?- del giudizio fino al pagamento dell’ultima rata, avuto riguardo alla tassatività dei casi di sospensione del processo tributario previsti dall’art. 39 del DIgs n. 546/1992, tra i quali non è ricompresa la vicenda della definizione conciliativa della lite), ne segue che i vizi della pronuncia “estintiva del giudizio per cessazione della materia del contendere” emessa ai sensi dell’art. 46 Dlgs n. 546/1992 non possono evidentemente che essere riferiti soltanto ad errori concernenti la inesatta valutazione dei presupposti di legge ai quali è subordinata tale pronuncia o ancora alla inesatta qualificazione come accordo conciliativo del fatto sopravvenuto o del documento formato dalle parti e prodotto in giudizio, non potendo ritenersi inficiata la pronuncia da vizi di nullità processuali in considerazione del verificarsi di eventi (l’inadempimento della convenzione per mancato versamento delle successive rate) successivi alla stessa definizione del giudizio e che, pertanto, al momento della decisione non potevano essere valutati dal Giudice in quanto ancora inesistenti.
2.12 Sulla base delle precedenti considerazioni può quindi risolversi la questione di diritto sottoposta alla Corte nel senso che:
– la sentenza del Giudice tributario con la quale viene dichiarata la estinzione del giudizio (recte la cessazione della materia del contendere), ai sensi dell’art. 46 Dlgs n. 546/192, sul presupposto dell’accordo conciliativo stragiudiziale intervenuto tra le parti e prodotto in giudizio ai sensi dell’art. 48 Dlgs n. 546/1992, può essere impugnata dalla parte che si dolga deirerrore commesso dal Giudice nella interpretazione della norma processuale ovvero nel rilevare la sussistenza dei presupposti della cessazione della materia del contendere, ed intenda invece proseguire il giudizio per ottenere una pronuncia sul merito
– l’interesse ad impugnare tale sentenza insorge immediatamente con la pubblicazione della stessa, sicché non vi è ragione di derogare alla disciplina ordinaria dei termini di impugnazione delle sentenze tributarie che, per quanto concerne l’appello, sono stabiliti dall’art. 51 Dlgs n. 546/1992 in giorni sessanta dalla notifica della sentenza ad istanza di parte, ed in mancanza -secondo il disposto dell’art. 38 comma 3 Dlgs n. 546/1992 che rinvia all’art. 327 co 1 c.p.c.- entro l’anno (avuto riguardo al testo dell’art. 327 c.p.c., vigente prò tempore, anteriore alla riforma dell’art. 46 co 17 della legge 18.6.2009 n. 69) dalla pubblicazione della sentenza: alcuno dei criteri ermeneutici delle fonti normative previsti dall’art. 12 disp. prel. c.c. consente, infatti, di estendere la previsione delle predette norme processuali fino ad individuare addirittura un evento nuovo e diverso (data dell’inadempimento) rispetto a quello unicamente considerato dalle norme della conoscenza o conoscibilità legale del provvedimento giurisdizionale oggetto della impugnazione.
In conseguenza essendo stata depositata la sentenza della CTP di Alessandria in data 13.3.2002, in difetto di notificazione a cura di alcuna delle parti, il termine lungo per la impugnazione in grado di appello veniva a scadere, computando la sospensione del termini durante il periodo feriale, il 29 aprile 2003, con la conseguenza che l’atto di appello, notificato dalla Agenzia della Entrate in data 9.1.2004 è stato correttamente ritenuto inammissibile per decorso del termine perentorio dal Giudice territoriale.
3. La sentenza della CTR piemontese ha fatto, dunque, errata applicazione dell’art. 51 Dlgs n. 546/92, ritenendo inammissibile l’appello per inosservanza del termine breve decorrente dalla data di scadenza della rata non pagata, sebbene tale sentenza non fosse stata notificata e dovesse farsi, quindi, riferimento esclusivamente al termine cd. lungo decorrente dalla pubblicazione della sentenza. Tuttavia il dispositivo della sentenza impugnata deve ritenersi conforme a diritto, non essendo pertanto soggetta a cassazione la sentenza , in virtù dei poteri correttivi rimessi alla Corte dall’art. 384 comma 4 c.p.c..
4. In conclusione il ricorso dell’Agenzia fiscale deve essere rigettato, dovendo dichiararsi interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio in considerazione delle incertezze cui ha dato luogo la interpretazione della norma processuale nel testo vigente “ratione temporis”.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio.
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