Corte di Cassazione sentenza n. 25983 del 5 dicembre 2011
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – PRESTAZIONE D’OPERA PROFESSIONALE – FACOLTA’ DI RECESSO DELLE PARTI – SUSSISTENZA – FONDAMENTO – RINUNCIA – AMMISSIBILITA’ – CONDIZIONI
massima
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Il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, la quale è in sintonia con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. Tuttavia, non trattandosi di principio inderogabile che coinvolga interessi pubblici o generali, le parti possono derogare alla recedibilità “ad nutum”, purché la rinuncia – sia pure implicita – investa direttamente la stessa recedibilità. Pertanto, qualora, come nel caso in esame, il contratto rechi la disciplina pattizia soltanto di alcune ipotesi di inadempimento, tale previsione, in difetto di specifiche determinazioni ulteriori, non può incidere sulla recedibilità “ad nutum” che rappresenta la causa estintiva ordinaria del rapporto di prestazione d’opera professionale dedotto in giudizio.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 – La sentenza attualmente impugnata – in riforma di sentenza del Tribunale di Palermo n. 3965/2002 del 25 ottobre 2002 – rigetta la domanda proposta dall’avvocato V.C. contro il Comune di Palermo, per ottenere declaratoria di illegittimità (con ogni conseguenza) della revoca dell’incarico di amministrazione di appartamenti, conferitogli dal Comune di Palermo.
La Corte d’appello di Palermo, per quel che qui interessa, precisa che:
a) nel nostro ordinamento, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l’istituto del recesso unilaterale ad nutum è da configurare come una causa estintiva ordinaria – alternativa rispetto al recesso per giusta causa e alla risoluzione per inadempimento – di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, nascente da un contratto tipico o atipico;
b) peraltro, la suddetta configurazione non esclude che, con deroga pattizia, possa escludersi la recedibilità ad nutum, la relativa clausola deve investire direttamente la recedibilità stessa, implicando la ‘rinuncia – sia pure implicita – alla facoltà di recesso di ciascuna delle parti;
c) è, pertanto, fondata la doglianza del Comune di Palermo che contesta le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale, secondo cui con la previsione della revoca di cui all’art. 7 del disciplinare si sia voluto, concordemente anche se implicitamente, stabilire una limitazione al potere più ampio di recesso ad nutum previsto dall’art. 2237 c.c.;
d) Raccoglimento della suddetta doglianza è conforme a quanto affermato in molteplici sentenze della Corte di cassazione emesse in controversie analoghe all’attuale, nelle quali si è anche precisato che, ove non vi sia una specifica norma pattizia derogatoria nel senso suindicato, anche nel contratto d’opera intellettuale si applica la regola generale della recedibilità del committente, a prescindere dalla valutazione del comportamento del prestatore d’opera intellettuale;
e) nelle stesse sentenze è stato sottolineato che la clausola contrattuale controversa (art. 7 del disciplinare) reca la disciplina pattizia solo di alcune ipotesi di inadempimento contrattuale e quindi, in difetto di specifiche determinazioni ulteriori, non è idonea ad escludere l’applicabilità della regola generale di cui all’art. 2237 c.c.;
f) l’esistenza di decisioni contrastanti, anche in sede di legittimità, induce a compensare le spese dei due gradi del giudizio.
2. – Il ricorso dell’avv. V.C. domanda la cassazione della sentenza per otto motivi; resiste, con controricorso, il Comune di Palermo, che propone, a sua volta, ricorso incidentale per tre motivi, al quale il C. replica con controricorso.
Le parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi perché attengono all’impugnazione della medesima sentenza.
I – Sintesi dei motivi del ricorso principale
1 – Con il primo motivo del ricorso principale, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2237 c.c., in riferimento al contratto inter partes e alla sua corretta lettura, ai sensi dell’art. 1362 c.c., anch’esso violato e falsamente applicato.
Si contesta l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, della recedibilità ad nutum del Comune di Palermo dal contratto in oggetto, che si assume essere stata effettuata sull’erroneo presupposto secondo cui l’art. 7 del disciplinare dell’incarico professionale non avesse, nella comune intenzione delle parti, carattere limitativo o derogatorio rispetto alla facoltà di recesso ad nutum, di cui all’art. 2237 c.c.
2 – Con il secondo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2237 c.c., in riferimento al contratto inter partes e alla sua corretta lettura, ai sensi dell’art. 1367 c.c., anch’esso violato e falsamente applicato.
Si sostiene che l’erronea esclusione di valenza derogatoria all’art. 7 del suindicato disciplinare sarebbe stata effettuata senza considerare che, in tal modo, tale ultima clausola sarebbe da considerare priva di qualsiasi rilevanza ed effetto concreto e ciò si pone in contrasto col richiamato art. 1367 c.c., che prescrive che le clausole contrattuali vanno interpretate nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.
3 – Con il terzo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2237 c.c., in riferimento al contratto inter partes e alla sua corretta lettura, ai sensi dell’art. 1370 c.c., anch’esso violato e falsamente applicato.
Si rileva che la Corte d’appello è pervenuta alla conclusione della validità e legittimità del recesso del Comune dal contratto in oggetto senza considerare che il testo del disciplinare è stato anticipatamente predisposto dal Comune, che lo approvato con deliberazione n. 4365/88, sottoponendolo poi alla sottoscrizione dei ricorrente, come schema predisposto e immodificabile.
In questa situazione avrebbe dovuto essere usato come criterio interpretativo quello previsto dall’art. 1370 c.c., in base al quale nei casi dubbi le clausole predisposte da un contraente vanno interpretate a favore dell’altro.
4 – Con il quarto motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2237 c.c., in riferimento al contratto inter partes e alla sua corretta lettura, ai sensi dell’art. 1371 c.c., anch’esso violato e falsamente applicato.
Ad avviso del ricorrente, l’unica lettura dell’indicato art. 7 e del contratto nel suo (avente la ratio di tutelare la parte debole del rapporto, rappresentata dai clienti) idonea a realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti, in conformità con l’art. 1371 c.c., è quella che di configurare la suddetta clausola come norma pattizia diretta ad escludere la facoltà di recesso ad nutum del Comune.
5 – Con il quinto motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione delle norme che presiedono alla correttezza procedimentale amministrativa (legge n. 241 del 1990 e legge della Regione Sicilia n. 10 del 1991).
Si sottolinea che la manifestazione della volontà del Comune di recedere – comunicata al ricorrente – si è formata con la delibera n. 1361 del 1993, tuttavia il procedimento formativo della suddetta volontà sarebbe viziato perché in esso non sono state rispettate le garanzie procedimentali previste dagli artt. da 8 a 11 della legge regionale n. 10 del 1991 (e quelle corrispondenti della legge n. 241 del 1990) e, in particolare, non è stato applicato l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti destinatari del provvedimento finale.
Tale vizio, determina l’invalidità della suddetta delibera, avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a disapplicare la delibera e, quindi, a ritenere tale atto, comunicato al ricorrente, inidoneo a risolvere il rapporto per cui è causa.
Viceversa, la Corte territoriale ha omesso di pronunciarsi al riguardo, benché la censura sia stata ritualmente avanzata nella memoria di appello.
6 – Con il sesto motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dei principi dell’ordinamento in materia di atti amministrativi.
Si sottolinea che la Corte palermitana ha, altresì, omesso di pronunciarsi su di un altro profilo di censura ritualmente proposto, rappresentato dall’invalidità della suindicata delibera anche nel suo contenuto, perché viziata da eccesso di potere (per travisamento dei fatti e difetto di motivazione) e da violazione di legge (per contrasto con l’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e con la legge regionale n. 10 del 1991).
Dall’indicata omissione deriva la mancata disapplicazione di un atto amministrativo palesemente illegittimo.
In particolare si rileva che: a) del tutto artificiosamente nella delibera si fa riferimento all’azione legale di recupero coattivo delle somme dovute dagli assegnatari degli alloggi morosi al Comune, visto che tale attività non era compresa tra i compiti assegnati con il disciplinare di incarico ai professionisti; b) non rispondente alla realtà sarebbe anche il numero complessivo dei professionisti aventi il titolo di procuratori legali (oggi: avvocati) indicato nella delibera (4 o 5), visto che coloro che avevano tale titolo erano 10 incaricati (tra i quali il ricorrente); e) assolutamente ininfluente è il riferimento all’”informatizzazione delle pratiche”, visto che l’attività dei professionisti incaricati è caratterizzata dalla presenza sui luoghi e dalla relazione diretta con i condomini degli immobili.
7 – Con il settimo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.
Il ricorrente sostiene che la non veridicità dei fatti e dei motivi addotti a sostegno della delibera n. 1361/1993 cit. concretizza altresì la violazione dei principi di correttezza e buona fede, con conseguente imprevedibilità e arbitrarietà del recesso e inidoneità dello stesso a risolvere il rapporto in oggetto.
8 – Con l’ottavo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., nullità della sentenza per omessa pronuncia.
Si rileva che la sentenza impugnata sarebbe nulla nella parte in cui non contiene alcuna pronuncia sulla domanda del Comune di Palermo di restituzione delle somme di cui alla condanna disposta nella sentenza di primo grado, sulla quale deve essere emessa pronuncia allo stato degli atti già acquisiti nel giudizio di primo grado, con conseguente rigetto della domanda del Comune, a causa della mancanza di prove e delle derivanti preclusioni e decadenze maturate in suo danno.
In particolare, si sottolinea che, non avendo il Comune allegato alcun documento attestante l’avvenuto pagamento, la relativa domanda non avrebbe potuto dare luogo ad una condanna generica, ma avrebbe dovuto essere respinta per difetto di prove.
II – Sintesi dei motivi del ricorso incidentale
9. – Con il primo motivo del ricorso incidentale, illustrato da quesito di diritto, si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 e degli artt. 366 e 278 c.p.c., per mancanza nel dispositivo (dotato di rilevanza esterna, nel rito del lavoro) di una statuizione sulla domanda restitutoria delle somme versate dal Comune in dipendenza della condanna contenuta nella sentenza di primo grado.
Si sottolinea che, in linea generale, in seguito all’annullamento di una sentenza di condanna di primo grado, la restituzione delle somme cui la condanna si riferiva è automatica e non richiede una esplicita domanda ai sensi dell’art. 366 c.p.c., nel caso di specie, peraltro, la specifica domanda è stata formulata nell’atto di appello e, poi, nel corso del giudizio la domanda stessa è stata ridotta all’an debeatur.
Ciononostante, manca del tutto sul punto una pronuncia della Corte palermitana.
10 – Con il secondo motivo del ricorso incidentale, illustrato da quesito di diritto, si denuncia violazione del principio di non contestazione, di cui all’art. 416, terzo comma, c.p.c.
Con tale motivo – espressamente formulato in risposta all’ottavo motivo del ricorso incidentale – si sostiene che non era necessaria alcuna prova né documentale, né di altra natura per dimostrare la sussistenza del diritto del Comune alla restituzione di tutte le somme percepite dall’avvocato C. in esecuzione della condanna di primo grado a carico del Comune medesimo.
Infatti, lo stesso C. ha dichiarato che la controparte aveva eseguito la statuizione di condanna pecuniaria emessa in suo danno, sia pure per rilevare che tale esecuzione era stata solo parziale.
Ne consegue che il pagamento doveva considerarsi come un fatto non contestato e, quindi, ammesso, dovendo considerarsi del tutto irrilevante la “asserzione labiale, e perciò di puro stile, del C. di non essere integralmente soddisfatto”.
Conclusivamente, si chiede la decisione del ricorso incidentale nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto.
11. – Con il terzo motivo del ricorso incidentale, illustrato da quesito di diritto, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. e difetto di motivazione.
Si sostiene che sia invalida e insufficiente – perché in contrasto con l’art. 92 c.p.c., nel testo introdotto dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263 – la motivazione del capo della decisione ove si è disposta la compensazione delle spese dei due gradi del giudizio di merito, limitandosi a fare riferimento all’esistenza di decisioni contrastanti, anche in sede di legittimità, sulla vicenda in oggetto.
III – Esame dei primi sette motivi del ricorso principale
12 – I primi sette motivi del ricorso principale – da trattare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono da accogliere.
12.1 – Come ricorda la Corte palermitana (e, come, nel presente giudizio, rileva il Comune di Palermo contro ricorrente) questa Corte ha già avuto modo di esaminare controversie analoghe all’attuale riguardanti lo stesso rapporto instaurato dal Comune di Palermo con altri professionisti.
Nelle relative sentenze (Cass. 4 agosto 2004, n. 14970; Cass. 14 agosto 2004, n. 15900; Cass. 19 agosto 2004, n. 16269; Cass. 24 agosto 2004, n. 16602) è stato affermato il principio secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, la quale è in sintonia con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. Tuttavia, non trattandosi di principio inderogabile che coinvolga interessi pubblici o generali, le parti possono derogare alla recedibilità ad nutum, purché la rinuncia – sia pure implicita – investa direttamente la stessa recedibilità. Pertanto qualora, come nella specie, il contratto rechi la disciplina pattizia soltanto di alcune ipotesi dì inadempimento, tale previsione, in difetto di specifiche determinazioni ulteriori, non può incidere sulla recedibilità ad nutum, che rappresenta la causa estintiva ordinaria del rapporto di prestazione d’opera professionale dedotto in giudizio.
In particolare, nelle suindicate sentenze, si rilevato che la configurazione della recedibilità ad nutum dai rapporti di durata a tempo indeterminato, come principio generale del nostro ordinamento, risponde all’esigenza (e funzionale all’obiettivo) di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, nonché di conformare la esecuzione del contratto alla clausola di buona fede (art. 1375 c.c.), riconducibile al dovere costituzionale di solidarietà (art. 2 Cost).
Come tale, il suddetto principio, non solo prescinde da qualsiasi previsione legislativa specifica oppure pattizia, ma trova applicazione, altresì, sia ai contratti tipici – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 20 dicembre 2006, n. 27198; 20 settembre 2005, n. 18508; Cass. 23 novembre 2001, n. 14865; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511; Cass. 1 luglio 1998, n. 6427; Cass. 20 settembre 1996, n. 8360; Cass. 20 aprile 1994, n. 3775; Cass. 9 giugno 1993, n. 6408) – sia ai contratti atipici, per i quali sembra rappresentare, altresì, il rimedio indefettibile (vedi Cass. n. 14865/2001, cit.) per fugare il dubbio, talora prospettato (vedi Cass. 20 settembre 1995, n. 9975; Cass. 22 marzo 2010, n. 6898), che la indeterminatezza della durata (e, perfino, la durata non ragionevolmente contenuta) possa determinare la caduta del contratto atipico, appunto, “nell’area di disfavore che circonda le obbligazioni destinate a durare indefinitamente nei tempo” ed impedisca, perciò, di considerarlo meritevole di tutela e, come tale, giuridicamente valido (a norma dell’art. 1322, secondo comma, c.c.).
Ne risulta, quindi, la configurazione dell’istituto del recesso unilaterale ad nutum quale causa estintiva ordinaria – alternativa rispetto al recesso per giusta causa ed alla risoluzione per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.) – per qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato.
Non si tratta, in nessun caso, di principio inderogabile, non risultandone coinvolti interessi pubblici o generali, che eccedano gli interessi delle parti.
La deroga pattizia, tuttavia, deve investire direttamente la stessa recedibilità ad nutum prevedendo chiaramente la rinuncia – sia pure implicita – alla facoltà di recesso di ciascuna delle parti.
12.2 – La configurazione del rapporto, dedotto nel presente giudizio, come rapporto di prestazione d’opera professionale (ai sensi degli artt. 2230 e ss. c.c.) pare incontroversa e, addirittura, coperta dal giudicato – in coerenza, peraltro, con la giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. SU 12 giugno 1999, n. 330; Cass. 21 giugno 2000, n. 8477; Cass. SU 5 luglio 1994, n. 6331, con riferimento a fattispecie non dissimili da quella dedotta nel presente giudizio) -al pari della soggezione dell’impugnata revoca dell’incarico – disposta, unilateralmente, dal Comune committente – alla disciplina specifica del recesso dallo stesso rapporto (di cui all’art. 2237 c.c.), anziché alla disciplina di istituti contigui, quale il recesso dal contratto d’opera e la revoca del mandato oneroso (di cui all’art. 2227 ed all’art. 1725 c.c.).
Resta, quindi, soltanto la questione se la recedibilità ad nutum del committente (ai sensi dell’art. 2237 c.c., cit.) – dal dedotto rapporto di prestazione d’opera professionale (di cui all’articolo 2230 e ss. c.c., cit.) – risulti pattiziamente derogata, nella specie, dalla clausola contrattuale (art. 7 del disciplinare), che – come risulta, concordemente dalla sentenza impugnata e dal ricorso principale – prevede che “costituisce motivo di revoca ogni e qualsiasi inosservanza al disciplinare del presente conferimento di incarico e, in specie, eventuali ritardi oltre i 30 giorni dalla scadenza, così come previsto art. 6, per cui il committente provvedere alla immediata sostituzione dell’incaricato”.
La soluzione positiva della questione ora prospettata – che viene sostenuta dall’attuale ricorrente principale – non può essere accolta (ancorché sia stata adottata dall’isolata Cass. 21 giugno 2000, n. 8477 cit., con riferimento a fattispecie non dissimile da quella dedotta nel presente giudizio).
12.3 – Com’è noto, l’interpretazione del contratto è accertamento di fatto riservato al giudice del merito – secondo la costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. SU 2 dicembre 2010, n. 24418; Cass. 23 aprile 2010, n. 9786; Cass. 17 febbraio 2010, n. 3684; Cass. 20 dicembre 2009, n. 27826) – e, come tale, è sindacabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (art. 1362 ss. c.c.) o per vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Nella specie, la clausola contrattuale controversa (articolo 7 del disciplinare) reca, come si è detto, la disciplina pattizia soltanto di alcune ipotesi di inadempimento contrattuale
In coerenza con i principi di diritto enunciati, la stessa clausola non può, certamente, incidere – in difetto di specifiche determinazioni ulteriori – sulla recedibilità ad nutum del Comune committente (ai sensi dell’art. 2237 c.c.), che costituisce causa estintiva ordinaria del dedotto rapporto di prestazione d’opera professionale, alternativa – per quanto si è detto – rispetto al recesso per giusta causa ed, in genere, alla risoluzione per inadempimento.
Ne consegue che l’interpretazione data alla suddetta clausola dalla Corte d’appello di Palermo si deve considerare conforme ai criteri legali di interpretazione del contratto, in particolare all’interpretazione sistematica delle clausole che, nel contratto di prestazione d’opera intellettuale, comporta che l’eventuale deroga pattizia, sia pure implicita, all’amplissima facoltà di recedibilità ad nutum da parte del committente, di cui all’art. 2237, primo comma, c.c. – esercitabile indipendentemente da quello che è stato il comportamento del prestatore d’opera intellettuale, ossia prescindendo dalla presenza o meno di giusti motivi a carico di quest’ultimo – sia espressa in modo inequivoco (vedi, per tutte: Cass. 25 giugno 2007, n. 14702; Cass. 21 dicembre 2006, n. 27293; Cass. 29 settembre 2004, n. 19573).
12.4. – Tanto basta per respingere ì primi sette motivi del ricorso principale, ivi comprese le censure prospettate con il quinto e il sesto motivo, essendo anch’esse prospettate – peraltro, in termini generici e senza rispettare il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, il cui rilievo è preminente ove si contestino decisioni su questioni che non risultano espressamente affrontate nella sentenza impugnata e di cui si sostenga l’avvenuta rituale proposizione davanti al giudice del merito – sul presupposto della deroga pattizia alla recedibilità ad nutum del committente dal rapporto dedotto in giudizio.
IV – Esame del terzo motivo del ricorso incidentale
13 – Il terzo motivo del ricorso incidentale è infondato.
13.1 – Come già affermato in analoghe controversie riguardanti il Comune di Palermo (vedi, da ultimo: Cass. 23 febbraio 2011, n. 4357; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4684), va ricordato che costituisce jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte che, in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e che con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra ne! potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri motivi(vedi per tutte: Cass. 11 gennaio 2008 n. 406).
Va, altresì, sottolineato che, le Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza 30 luglio 2008 n. 20598, emessa in sede di composizione di un contrasto di giurisprudenza insorto nella giurisprudenza di legittimità con riferimento al regime delle spese anteriore a quello introdotto dall’art. 2 della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (che ha modificato l’art. 92 c.p.c. richiedendo – ma soltanto nei procedimenti instaurati dopo la sua entrata in vigore, quale non è il presente – una esplicita motivazione della compensazione delle spese del giudizio), hanno affermato il principio per cui l’obbligo del giudice di dare conto delle ragioni della compensazione totale o parziale delle spese deve ritenersi assolto in presenza di argomenti specificamente riferiti a detta statuizione, anche allorché le argomentazioni svolte per la statuizione di merito contengano in sé considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolazione delle spese adottata.
Le Sezioni unite hanno anche escluso che la previsione normativa che consente la compensazione delle spese per motivi discrezionalmente valutabili dal giudice possa suscitare dubbi dì illegittimità costituzionale, non comportando una inammissibile compressione dei diritti di difesa e configurando un legittimo potere del giudice, vincolato soltanto dall’obbligo di fornire un’adeguata motivazione.
13.2 – In base a tali principi, che il Collegio intende ribadire nella presente sede, si deve ritenere che il provvedimento di compensazione delle spese di tutti i gradi del giudizio adottato dalla Corte territoriale sia adeguatamente motivato in base alla “esistenza di decisioni contrastanti, anche in sede di legittimità”, le quali, d’altra parte, trovano riscontro anche nella motivazione che ha determinato la soluzione della controversia.
V – Esame dell’ottavo motivo del ricorso principale e dei primi due motivi del ricorso incidentale
14 – L’ottavo motivo del ricorso principale e i primi due motivi del ricorso incidentale vanno trattati congiuntamente perché, nella sostanza, censurano, da opposte prospettive, il medesimo difetto della sentenza impugnata, consistente nel avere omesso di affrontare la questione della restituzione delle somme pagate dal Comune in esecuzione della sentenza di primo grado.
Tali motivi devono essere accolti, nei limiti di seguito precisati.
14.1 – In base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:
a) in linea generale, è ammissibile la ripetizione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello (con sentenza confermata dalla Corte di cassazione), pur non ricorrendo in tal caso un’ipotesi di condictio indebiti (art. 2033 c.c.), dalla quale differisce per natura e funzione, laddove non vengono in rilievo – tra l’altro – gli stati soggettivi di buona o mala fede dell’accipiens, atteso che il diritto alla restituzione sorge direttamente in conseguenza della riforma della sentenza, la quale, facendo venir meno ex tunc e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza. Ne consegue che non incorre nel vizio di omessa pronuncia il giudice di appello il quale, nel riformare completamente la decisione impugnata, non dispone la condanna della parte vittoriosa in primo grado a restituire gli importi ricevuti in forza dell’esecuzione della sentenza appellata, atteso che tale obbligo sorge automaticamente, quale effetto consequenziale, dalla riforma della sentenza (Cass. 13 aprile 2007, n. 8829; Cass. 5 luglio 2006, n. 15295);
b) tuttavia, in tema di omessa pronuncia sulla specifica domanda di restituzione delle somme pagate dall’appellante in esecuzione della sentenza di primo grado, in caso di accoglimento dell’appello senza che si dia atto nel relativo provvedimento della sussistenza di tutti i presupposti per la restituzione, l’omissione non integra un mero errore materiale emendabile con l’apposito procedimento correttivo, risultando violato l’art. 112 c.p.c. (Cass. 24 aprile 2008, n. 10765);
c) in caso di riforma di sentenza contenente condanna al pagamento di somme di denaro, la sentenza di riforma non costituisce di per sé titolo esecutivo per la restituzione di quanto versato in esecuzione della sentenza riformata, occorrendo a tal fine un’apposita domanda, che può essere proposta nel giudizio di appello o in altro giudizio autonomo, e che non si inquadra nell’istituto della condictio indebiti, dal quale differisce per natura e funzione, dal momento che il diritto alla restituzione sorge direttamente dalla riforma della sentenza che fa venire meno, con efficacia ex tunc, l’obbligazione di pagamento e impone la restituzione della situazione patrimoniale anteriore, (Cass. 19 febbraio 2007, n. 3758);
d) in relazione alla domanda – proposta nella fase di gravame – di restituzione delle somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado impugnata, il giudice di appello opera quale giudice di primo grado, in quanto detta domanda non poteva essere formulata precedentemente; da tanto consegue che, se il giudice dell’impugnazione omette, in tale qualità, di pronunziarsi sul punto, la parte ha la facoltà alternativa di far valere l’omessa pronunzia con ricorso in cassazione o di riproporre la domanda restitutoria in separato giudizio, senza che la mancata impugnazione della sentenza determini la formazione del giudicato (Cass. 11 giugno 2008, n. 15461; Cass. 14 luglio 2011, a 15464).
14.2 – Dagli indicati principi si desume che, essendo nella specie oggetto di contestazione fra le parti la questione relativa alla restituzione delle somme pagate dal Comune all’avv. C. in esecuzione della sentenza di primo grado – come risulta dall’esposizione dei fatti della sentenza impugnata e dalle argomentazioni dei presenti ricorsi – pur sorgendo il relativo obbligo automaticamente, quale effetto consequenziale, dalla riforma della sentenza, tuttavia la Corte d’appello non poteva esimersi dall’emettere un’esplicita pronuncia sul punto (nella motivazione nel dispositivo), anche per evitare l’eventuale riproposizione della domanda restitutoria in separato giudizio, che si porrebbe in contrasto con i principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.
A proposito del principio generale di non contestazione (invocato nel ricorso incidentale) va però precisato che:
1) il suddetto principio che informa il sistema processuale civile (con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non abbisognevoli di prova i fatti non espressamente contestati), trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 c.p.c., ma anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e di probità previsto dall’art. 88 c.p.c., il quale impone alle parti di collaborare fin dall’inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, e nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost. (Cass. 24 gennaio 2007, n. 1540; Cass. 31 marzo 2010, n. 7827;
2) la non contestazione della domanda, che ha per oggetto i fatti costitutivi della domanda e non quelli dedotti in esclusiva funzione probatoria, scaturisce dalla non negazione fondata sulla volontà della parte oggettivamente risultante e deve essere pertanto inequivocabile, di talché non può ravvisarsi né in caso di contumacia del convenuto, né in ipotesi di contestazione meramente generica e formale. Peraltro la non contestazione del fatto, che è tendenzialmente irreversibile, non determina di per sé la decisione della controversia, dovendo il giudice di merito valutare se il fatto non contestato sia inquadrabile nell’astratto parametro normativo e, prima ancora, stabilire la sussistenza o l’insussistenza di una non contestazione (Cass. 2 maggio 2007, n. 10098).
VI – Conclusioni
15 – In sintesi,devono essere accolti l’ottavo motivo del ricorso principale e i primi due motivi del ricorso incidentale.
Vanno respinti gli altri motivi del ricorso principale e il terzo motivo del ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che si atterrà ai suesposti principi (vedi, spec. punto 14).
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie l’ottavo motivo del ricorso principale e i primi due motivi del ricorso incidentale. Rigetta tutti gli altri motivi del ricorso principale e il terzo motivo del ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Caltanisetta, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 15 novembre 2011.
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